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25 aprile. Una celebrazione necessaria e non uno stereotipo storico

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Per riposizionare ogni fatto, ogni testimonianza, ogni cronaca nella sua verità e dare sostanza e credibilità al racconto orale, dovremmo riflettere sull’ uso-abuso della parola guerra come metafora ricorrente.
Di questi tempi la parola “guerra” viene applicata (per esempio) alla difesa dalla diffusione di un virus e alla resistenza che dobbiamo ad esso opporre. Ma si tratta di una estensione illegittima.
Intanto il soggetto e i soggetti. La guerra intesa comunemente come conflitto armato, in attacco o in difesa, vede contrapporsi il fondamentale ed ultimo interesse del vincitore sul vinto, condizione questa che non appare essere presente nella difesa dalla pandemia.

Inoltre, i  protagonisti della guerra possono variare per formazione e numero, sia nel confliggere come nell’allearsi.
Ma nella guerra non ci sono solo tattiche e dinamiche militari, elementi tecnici e rapporti materiali di forza. In una guerra di Liberazione come quella che ricordiamo, ci sono fattori e rapporti umani spesso più decisivi di quelli tradizionali.
Per questo, senza retorica, serve accostarsi alla ricorrenza del 25 aprile come l’ unica, vera e sola data che rammenta e storicizza il dramma unico della nostra guerra e il giorno della sua fine.

Per questo, da 76 anni la Nazione ricorda il giorno della Liberazione con la caduta dell’ultimo baluardo fascista e la fine dell’occupazione nazista, conquistata anche grazie alla resistenza della sua popolazione e al valore di partigiani di ogni tendenza che compresero in un unico fronte comune donne, uomini, operai, contadini e giovani. 
 Un giorno speciale per la storia del Paese che tutte le Istituzioni celebrano per dovere verso la storia, la Nazione, i militari caduti, i numerosi civili, di ogni età, genere e purtroppo razza.

Dal punto di vista storico generale la data significativa sarebbe quella della fine della guerra, successiva di qualche giorno al 25 Aprile, con la resa dell’armata tedesca. Dal punto di vista della coscienza collettiva risulta però ancora più importante la festa del 25.

Ed è necessario ripetere questo rito per dare valore al senso della Patria, specialmente nel passare degli anni, che ne affievoliscono il significato insufficiente nello studio, vissuto con scarso sentimento nella valutazione collettiva, perché non assuma un tono impersonale quanto obsoleto.

D’altronde la platea a cui questa celebrazione si rivolge oggi è formata per lo più da giovani e giovanissime generazioni, private della memoria familiare o condizionata da un’informazione mediatica pressappochista.
Abituati a respirare venti di guerre lontane a cui si è assistito negli ultimi anni dello scorso secolo insieme a quelle proliferate in questo scorcio del nuovo.  Vissute con una percezione di quotidianità esse appaiono lontane, inafferrabili, purtroppo a volte affascinanti fino a sentire il bisogno di sostenerle, come nel fenomeno dei foreign fathers.

La crescita dissennata nel mondo di economie e poteri, l’aumento della violenza, di conflitti sono vissuti come normalità. Il cattivo uso, abuso della tecnologia, ancora troppo fuori da regole, alimentano ipotesi di ulteriori tensioni senza confini, dove tutto può essere ancora possibile e la conta delle sofferenze e dei morti ininfluente.
Senza percepire realisticamente  che dietro ogni numero, ogni fatto, ogni conflitto ci sono persone e sofferenze.
Per questo oggi, per risvegliare coscienze sopite, ravvivare i ricordi, dare speranza di futuro è necessario più che mai ritrovarsi in questo spirito unitario di libertà e di Patria, per rendere onore a chi ci ha preceduto e a coloro che con il loro sacrificio hanno consentito di vivere in un Paese libero e democratico, di ottenere diritti, di emanciparsi.
Riprendono valore le parole “ideale, ricostruzione, coraggio” che definiscono i sentimenti che spinsero negli anni post bellici gli italiani a ricostruire le basi per fare ripartire un paese distrutto, in cui abbiamo tutti avuto la possibilità di crescere e vivere da cittadini liberi.

E alle molte celebrazioni che in quel giorno si programmano in tutto il Paese, un particolare significato avranno quelle che le donne svolgeranno nel ricordo dell’impegno che  svolsero nella guerra di Liberazione.  Un ruolo che è ben lontano dagli stereotipi con cui la loro partecipazione è stata spesso rappresentata in un ruolo marginale, che una vetero cultura maschilista ha preferito conservare  nel tempo.
Eppure allora, come oggi, come sempre e da sempre, le donne sono state essenziali.
 Dobbiamo ricordare che  35 mila donne furono le partigiane che fecero la Resistenza e che pagarono il loro impegno anche con la vita. Ancora delle 70 mila quelle che aderirono ai gruppi di difesa della donna, 1859 furono vittime di violenza e stupro, 4635 vennero arrestate torturate condannate, 2750 deportate, 623 fucilate o cadute in azione. Al loro valore furono o assegnate 19 medaglie d’oro al valore militare, di cui 15 alla memoria. Le donne come sempre e in ogni circostanza, hanno svolto una parte importante della storia in eguale misura e con uguale coraggio di tutti gli altri. Non sembra giusto doverlo rivendicare ogni volta, come fosse un’eccezionalità, il bisogno di trovare loro un’identità, uno spazio nella storia oltre che nel presente.

Infine  un 25 aprile non simbolico, non convenzionale.
Che mantenga inalterato e alto lo spirito di libertà e di riconciliazione sociale dopo una guerra patita e causata da volontà di dominio e di conquista, di sopraffazione e supremazia razziale che non aveva sostanza allora come oggi.

La memoria infine,  come antidoto universale, indispensabile di mali passati e avvertimento per altri che volessero distruggere le conquiste raggiunte. Un monito di cui c’è ancora  bisogno.







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