«Siamo persone, non robottini». Eppure il famigerato algoritmo è tassativo: una consegna ogni tre minuti, indipendentemente da traffico, bisogni fisiologici, multe e quant’altro. Racconta Mario, 21 anni, assunto a tempo indeterminato a Milano: «Se mi fermo per più di tre minuti, il pallino che mi rappresenta sul computer dell’azienda da blu diventa rosso. E parte la telefonata: che stai facendo?».
Come quelli con il braccialetto elettronico, o i Pokemon. «La pipì? Al primo albero disponibile, a cercare un bagno perderei troppo tempo», rincara la dose dell’esasperazione Valerio, 41 anni, da Origgio.
Se negli ultimi due giorni avete ordinato qualcosa su Amazon in Lombardia, è probabile che non l’abbiate ricevuto. I dipendenti della filiera, tredici aziende che consegnano pacchi per conto di mister Bezos, hanno scioperato contro condizioni di lavoro che considerano intollerabili. In Lombardia, che rappresenta circa il 60% del mercato italiano di Amazon, i fattorini assunti a tempo indeterminato sono circa 700, più un numero imprecisato di contratti a termine. I sindacati sono soddisfatti dell’adesione allo sciopero, «almeno il 70%» e consegne quasi bloccate.
Ieri c’è stato anche un presidio in piazza XXV Aprile, e faceva un certo effetto vedere tutta la liturgia sindacale, bandiere e fischietti e megafoni, ostensa fra Eataly e corso Como, come dire la Milano più fighetta e modaiola (la sede di Amazon, in realtà, è un po’ più in là, «ma si affaccia sulla strada e non ci saremmo stati», spiegano i sindacalisti). Ad arringare il presidio è arrivato perfino il numero uno della Cgil, il neosegretario generale, Maurizio Landini. Ha detto che «quando si lavora ma si è sfruttati vuol dire che qualcosa non funziona», ha accusato Amazon di considerare l’Italia una colonia e chiesto ai suoi clienti di pensare che «dietro ogni pacco c’è una persona. Non siamo contro Amazon né contro la tecnologia. Ma dietro non può esserci uno sfruttamento peggio del cottimo, con le condizioni di lavoro decise da un algoritmo».
Prima, sindacalisti e lavoratori avevano raccontato di ritmi insostenibili, anche 180-190 consegne al giorno, di orari di lavoro che in teoria prevedono 8 ore e 45 minuti più una pausa di 30 ma che in pratica sono molto più lunghi, di franchigie esose, di sanzioni, di timbratrici che sono state promesse ma non ci sono e così via. In realtà c’era già stata una vertenza in autunno, conclusasi con una serie di accordi che secondo i sindacati sono stati sistematicamente disattesi. Quindi sciopero. «Siete qui per rivendicare la dignità del lavoro, non per quattro soldi in più», strilla Landini. E comunque qualche soldo in più non sarebbe da disprezzare, con stipendi sui 1.600 euro lordi «che però alla fine del mese risultano sempre meno», ancora Mario. Un primo risultato, pare, c’è già: l’Assoespressi, che riunisce le aziende appaltatrici, ha convocato un incontro con i sindacati e insomma è disposta a discutere.
Amazon, no. In una nota, spiega di avvalersi dei servizi «di piccole e medie imprese che effettuano consegne», sono quindi loro a dover trattare. Poi la multinazionale ribatte alle accuse: «Amazon richiede che tutti i fornitori dei servizi di consegna rispettino le leggi vigenti e il Codice di condotta dei fornitori, che prevede salari equi, orari di lavoro e compensi adeguati: effettuiamo verifiche regolari». Respinta al mittente anche l’accusa di superlavoro: «Circa il 90% degli autisti termina la propria giornata prima delle nove ore previste e, nel caso in cui venga richiesto dello straordinario, viene pagato il 30% in più come previsto dal contratto nazionale di lavoro». La linea di Amazon, insomma, è che la vertenza non è fra i driver e lei, ma fra i driver e le aziende che lavorano per lei. Perciò annuncia che non siederà al tavolo con i sindacati (Alberto Mattioli – La Stampa).
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