In Italia, non rappresenta una novità l’uso ambiguo ed equivoco di una parola. E’ avvenuto con il termine “rivoluzione italiana” usata da alcuni storici e scrittori del diciannovesimo e del ventesimo secolo per indicare diversi periodi di cambiamento degli assetti di potere nella penisola. Si è parlato di rivoluzione napoletana del 1799 (Vincenzo Cuoco), di moti rivoluzionari del 1848 (Cristina Belgioioso), di rivoluzione risorgimentale (da taluni vista addirittura come anticristiana e anticattolica) e persino di rivoluzione fascista, portata a compimento con una sgangherata Marcia su Roma da Opera comica; anche la resistenza è stata vista come una guerra rivoluzionaria di classe. Come tentativi, ancorché seri miseramente falliti di rivoluzione, sono considerati il Sessantotto, il Movimento del 77 e il terrorismo rosso.
Naturalmente la locuzione è tutt’altro che condivisa, né v’è accordo sugli aspetti negativi o positivi degli eventi considerati.
La parola altrettanto equivoca che ricorre nell’attuale momento di crisi del governo è “discontinuità”. La si usa come se si trattasse di una connotazione positiva, mentre semmai è vero il contrario. La parola denuncia irregolarità, saltuarietà, frammentarietà, interruzione di un percorso e quindi arresto. E’ proprio questo che il popolo vuole? Una politica a salti di quaglia, altalenante, incerta? E in che direzione andranno quei salti per quella forza politica oggi al governo che resterà (con altra) alla guida del Paese? Come farà a essere “discontinua”?
Comunque, confusione terminologica a parte, sono veramente sconcertanti sia la frequenza con cui, da noi, vengono su e maturano dei Masaniello che poi cadono sepolti dai loro stessi errori e a causa della coltre spessa di basilare incultura politica in cui si avvolgono nella crescita, sia la volubilità con cui la gente abbandona i suoi “idoli” politici e chiude il coperchio della pattumiera dove li scarica.
L’aspetto più grave e sconvolgente del momento che l’Italia sta attraversando è dato, però, dal panorama degli articoli di stampa e delle dichiarazioni giornalistiche sul piccolo schermo: nessuno si preoccupa di indagare, di analizzare e di spiegare le ragioni più vere e profonde della crisi e ciascuno si cimenta a fare previsioni sull’esito per poter pronunciare, a crisi chiusa, il fatidico: lo avevo detto!
Eppure, una riflessione ulteriore sulla mia (e, soprattutto, altrui) ipotesi di un Governo presieduto da Mario Draghi al grido di “Salus rei publicae suprema lex esto!” mi sembra che vada fatta. Repetita iuvant!
La mia nota ha provocato un vero e proprio vespaio tra i miei (pochi) lettori: alcuni si sono dichiarati entusiasti dell’evenienza (se le notizie in proposito avessero un certo fondamento) altri hanno asserito che l’indisponibilità di Draghi è stata da lui chiaramente affermata e riportata, in termini chiari, dai mass-media.
Certo. Le ragioni che sconsigliano Draghi ad avventurarsi in un cammino impervio e ricco di insidie sono numerose e bene evidenti: presiedere un governo di attuali “perdenti” nel Paese (il Movimento 5 Stelle è in debàcle totale e il PD, con la ricomparsa pilotata, dall’alto, di Renzi, non se la passa meglio) non sarebbe impresa facile neppure per un uomo intelligente e preparato come un tecnocrate del suo calibro.
Non debbono neppure sottovalutarsi, però, le logiche che, in determinate, eccezionali circostanze, presiedono e indirizzano l’azione politica in un modo che finisce con l’essere, rigorosamente, oggettivo e persino in contrasto con l’interesse personale dei singoli.
Quando si configura sul Pianeta uno scontro titanico tra un centro di potere qual è quello delle banche e del potere finanziario e un gruppo di uomini politici “ribelli” (Donald Trump, Boris Johnson e, si licet parva componere magnis, alcuni europei che a causa dello loro cultura influenzata da troppe Verità assolute e dogmatiche non possono avere la lucidità degli anglosassoni che non a caso dominano nel mondo, come avevano dominato i nostri antenati romani quando erano ancora pagani, empiristi e pre-cristiani). Questi “uomini contro” (idest: contro il sistema finanziario) o per ambizione personale o per l’interesse dei loro Paesi, vorrebbero riportare l’Occidente ai livelli produttivi di decenni or sono, prima cioè che dominasse la scena economica della nostra parte di mondo il capitalismo monetario.
Com’è noto, però, quest’ultimo prospera proprio per effetto della crisi del sistema produttivo manifatturiero della tradizione: i prestiti si fanno a chi ha bisogno di soldi non a Bill Gates e ai continuatori dell’opera di Steve Jobs.
Le precarie condizioni delle industrie sono una manna del cielo per gli Istituti di credito che, però, sanno bene quanto sia difficile recuperare i ratei dei mutui. Ecco perché il sistema creditizio, nei suoi più alti vertici, deve garantire alle proprie istituzioni i ripiani degli eventuali deficit. E ciò può fare solo imponendo pareggi di bilancio e misure di austerità agli Stati che dovendo anche foraggiare, sempre per aiutare “la baracca”, gli strumenti necessari per l’acquisizione di lavoratori a basso costo non possono che ambire a una crescita di poco superiore allo zero!
Bene o male, la ripresa degli Stati Uniti d’America ha convinto e “sedotto” molti Europei, a dispetto delle fake news del sistema mass-mediatico, quasi tutto nelle mani delle Banche. E i popoli sono una brutta bestia quando scoprono dove si rinserrano i loro nemici. Gli edifici in vetro cemento di Wall street e della City e quelli di Bruxelles non sono fortezze inespugnabili; naturalmente in senso metaforico.
Le elezioni europee non hanno soddisfatto i nemici del sistema finanziario ma hanno dato un segnale che la gente per la quale la crescita s’arresta è in fermento un po’ dovunque. Invocare la logica del “Bene Supremo”, per contenere gli effetti di un sempre più numeroso “voto di pancia”, convince poco se a fare tale tentativo, in un Paese di valori artefatti e di spregevoli “inciuci” di “bassa macelleria”, sono falsi asceti della politica o sprovveduti docenti accademici di nessuna esperienza operativa (che pensano d’improvvisarsi uomini di governo, solo per qualche vantata conoscenza nel mondo dei mass-media).
Non v’è dubbio, invece, che persone della competenza e dell’esperienza di Draghi possano anche saper trovare rimedi che ritardino almeno il “redde rationem” dello scontro risolutivo, a beneficio del “contestato” mondo finanziario. Ecco, perché, non ritengo che l’ipotesi di un governo Draghi possa essere stata definitivamente abbandonata, a vari livelli di competenza, dai sostenitori dell’attuale sistema monetaristico e pan-creditizio. Sono troppo grandi gli interessi in gioco!
Certamente, in Italia nulla è detto con chiarezza e per conseguenza tutto diventa ambiguo e tortuoso. Questa crisi ne offre l’ennesima dimostrazione. Le considerazioni sul caso Italia non sono incoraggianti per il “popol morto” di Mazzini (secondo Carducci). Gli unici a dimostrare un’insolità vitalità sono i mestieranti della politica che si rianimano e riprendono vita come a ogni crisi di governo: si agitano spasmodicamente non appena scorgono la sia pur minima possibilità di riemergere dall’anonimato in cui sono caduti, per mancanza di ogni originalità e acutezza di pensiero; seguono con il batticuore i lunghi rituali delle pur necessarie e utili consultazioni del Capo dello Stato per risolvere la crisi; si sforzano di ignorare che le dichiarazioni che sono rilasciate dai leader politici ai mass-media pur dovendo sapere che esse si propongono effetti ben diversi da quelli dichiarati e rispondono solo a esigenza di mera propaganda, in vista di possibili elezioni.