Michele Gelardi sostiene che senza radici storico-culturali non può proliferare la libertà. Senza un determinato passato, non si può avere un presente di libertà: scrive testualmente. Poi aggiunge: basti pensare che tutte le aree islamizzate del mondo conoscono la libertà e la democrazia. E poi ancora: anche la civiltà induista non ha prodotto libertà… i popoli orientali hanno conosciuto solo una lunga e interminabile sequenza di dispotismi… facilitati da un culto religioso.
Fin qui, non si può non essere d’accordo con Gelardi. Come nei noti versi oraziani, però, desinet in piscem mulier formosa superne. Ci si può chiedere: perché? E la risposta è agevole. Perché Gelardi aggiunge che le condizioni per un ordinamento di libertà si sono create solo nell’occidente del pianeta sotto l’influenza della civiltà giudaico-cristiana.
Per la verità, è lecito osservare che in Medio Oriente, quella civiltà non differiva molto da quella islamica, e non solo sotto l’aspetto strettamente religioso e metafisico, ma anche sotto quello dei costumi di vita e dell’organizzazione della vita delle collettività. La realtà, allora, è che l’Occidente pre-giudaico-cristiano aveva conosciuto, come culle della libertà, la polis greca e la res publica romana. Sappiamo che dal punto di vista della storia più recente, gli istituti del liberalismo moderno sono stati elaborati in Inghilterra. Come è stato, però, ben messo in luce da Theodor Mommsen, l’idea di libertà è nata ed è stata elaborata a Roma e considerata, sin da quei tempi, come l’espressione del bene più alto che una comunità organizzata potesse avere per i propri componenti.
Testualmente, lo scrittore, tedesco scrive: “se… noi ci sforziamo di mettere insieme un ordinamento adatto a liberi cittadini, possiamo seguire per questo riguardo incondizionatamente… il diritto romano… e saremo sicuri di trovarvi uno spirito che si oppone assai spesso al principio di solidarietà dei cittadini tra loro, non mai, però, a quello della libertà individuale”.
Naturalmente, si trattava di una libertà sui generis (gli schiavi ne erano esclusi) che, comunque, si espandeva in molteplici e diverse direzioni, sia per la collettività nel suo insieme sia per i singoli individui. Sul piano generale, i Romani, infatti, ritenevano, in primo luogo, che la loro Nazione non potesse accettare nessuna idea di sudditanza, ingerenza o presenza straniera non gradita e dovesse strenuamente difendere la propria indipendenza e autonomia dalle oppressive e illiberali monarchie orientali, opponendosi, strenuamente, a ogni tipo di intromissione esterna. Nessun cittadino dell’Urbe avrebbe definito, dispregiativamente, sovranista la politica di una città, che intendeva restare per i suoi cittadini una sorta di luogo privilegiato della libertà, della tolleranza e della pacifica convivenza civile.
Inoltre, l’idea religiosa era presente in Roma, come in tutte le società ancora giovani, immature e soprattutto incapaci di fare a meno del ricorso al soprannaturale, ma era “aperta” e non chiusa: i seguaci di ogni culto potevano fare entrare le proprie divinità nel vasto consesso degli abitanti dell’Olimpo (che, oltretutto era un monte della Terra, concreto anche se inaccessibile per i comuni mortali).
Sul piano delle singole persone, il concetto di libertà era molto chiaro, limitato soltanto nel rispetto dell’analogo diritto altrui. Era un’idea, espressa in precisi termini giuridico-pratici, strettamente individualistica e nasceva dall’idea dell’humanitas, una creazione autonoma dei Romani, intesa come sentimento della dignità e della sublimità, proprie degli esseri umani, al fine di porli di sopra di tutte le creature viventi di questo mondo, sotto il profilo dell’indipendenza, dell’autonomia e delle scelte di vita (naturalmente tutte e in ogni campo, dalla proprietà alla libertà nel matrimonio, al divorzio e così via).
A distruggere il “liberalismo” romano furono, all’epoca, gli ebrei (in parte) ma soprattutto i cristiani, che credevano nell’esistenza di un solo Dio, qualificato amoroso ma, in realtà, esclusivista, possessivo, giustiziere, tirannico che si opponeva a ogni altra idea di divinità. I cristiani, in altre parole, sul piano della tolleranza, riportarono spaventosamente indietro l’orologio della storia per i nostri antenati, facendoli regredire da un’età quasi adulta a quella dell’infantilismo confuso dei popoli primitivi.
Il trionfo definitivo del cristianesimo mise una pietra tombale sul concetto di libertà. Naturalmente, molta acqua è passata sotto i ponti da quei tempi lontani (e anche dagli anni dell’Inquisizione e da quelli, più recenti, dei patiboli del Papa-re) ma per un liberale, oggi, attribuire a una religione monoteistica la paternità dell’idea di libertà è quanto meno sorprendente.
Nella cornice della mentalità mediorientale divenuta dominante in Occidente, lo stesso sostegno della Chiesa cattolica all’immigrazione islamica diventa concepibile (e per un laico, molto sospetto). Esso non si ricollega soltanto agli interessi dello IOR, pur cospicui e strettamente connessi con quelli dell’Alta Finanza di New York e di Londra, ma piuttosto al desiderio di “rivitalizzare” la carica di aggressività delle religioni monoteistiche mediorientali. E’ quanto si ricava, sia pure in modo indiretto, da un libro molto interessante e stimolante di una scrittrice inglese Catherine Nixey. Ed è un avvertimento da non sottovalutare: l’aiuto della virulenza islamica, ancora non imbrigliata da pratiche consumistiche e mondane, potrebbe costituire un ulteriore colpo, forse mortale, per il liberalismo e per quella libertà cui giustamente Gelardi (e non solo lui) tiene tanto.
La distruzione conseguente all’antica vittoria dei giudei e soprattutto dei cristiani ai tempi dell’Impero romano potrebbe, infatti, apparire poca cosa di fronte al volto inedito di quella nuova furia devastante. A volere ciò, questa volta non sarebbero i ricchi smidollati e gli imperatori dell’opulenta Roma ma lo strapotere, deciso e spietato, delle élite finanziarie mondiali.