Finché ha avuto la possibilità di avere un pubblico in studio, il presentatore di punta di Sky Alessandro Cattelan, nelle sua trasmissione E.P.C.C. (E Poi C’è Cattelan) faceva un gioco: poneva delle domande scherzosamente a trabocchetto agli spettatori e, appena qualcuno sbagliava, fingeva di sminuzzargli la scheda elettorale: gli ignoranti non hanno diritto di votare! Una goliardata ovviamente ma dietro il politicamente correttissimo (e, va detto, televisivamente banalissimo) Cattelan, c’è tutto un mondo: ci sono i giornalisti alla Servegnini che spiegava che il voto della Brexit avrebbe dovuto essere nullo, perché si erano espressi a favore in maggioranza elettori ignoranti e mal lavati delle campagne e delle periferie, mentre i colti e agiati londinesi della City (vuoi mettere?) erano contrari; c’è il sacerdote del conformismo Fabio Fazio che, tempo fa, si lasciò sfuggire un’esclamazione di rimpianto per non essere gay; c’è un mondo politico, ecclesiale e giornalistico che taccia di razzismo chiunque azzardi civilmente di indicare come un problema l’immigrazione; c’è l’infastidita espressione di disgusto verso l’inelegante orco politico del momento (via via nel tempo Craxi, Berlusconi, Bossi, Renzi, Salvini); c’è la povera Greta, buttata cinicamente in agone, perché giovanissima e problematica.
Ritorna in mente il sopravvalutato (secondo me) Fortebraccio, che nei suoi corsivi su L’Unità, usava spesso la metafora: “si aprì la portiera della macchina, non ne uscì nessuno: era l’on. (e qui il nome di un politico avverso al P.C.I.). Certo sono goliardate, battute estemporanee, idiosincrasie ideologiche ma il sospetto è che mascherino una mentalità profondamente antidemocratica e interessi inconfessabili.
Sempre con l’espediente di rilevare nel piccolo e nel quotidiano problemi più profondi e strutturali, è interessante notare quello che accade nel nostro cinema: da vari anni, nel panorama del cinema italiano, le uniche opere che incassassero decorosamente erano le commedie (non solo in Italia ma da noi la commedia all’italiana – filiazione diretta della Commedia dell’Arte – è stato praticamente l’unico genere che culturalmente ci rappresentasse davvero). Cosa hanno pensato i padroni (politici) della nostra cinematografia? Se è così non si possono lasciare al torbido gusto (spesso – orrore! –qualunquista) degli spettatori le scelte. E così, con incassi sempre più inconsistenti, registi, scrittori ed attori del cinema d’impegno – foraggiati da sovvenzioni, premi e contratti televisivi- si sono lanciati a dar vita a simil-commedie, tanto “de sinistra” ma senza neanche l’ombra di un sorriso. Il pubblico però sa di aver diritto a quello che lo stimola ed ecco arrivare il geniale Zalone, che sforna film intelligentemente – ma anche ironicamente – basati sul cosiddetto “familismo amorale”, che macinavano incassi da record; ma il sistema non è stato con le mani in mano: per l’ultimo film, Tolo, tolo, gli ha affiancato Virzì con il risultato di un’insipida storiella sull’immigrazione e l’accoglienza che ha, naturalmente, incassato 20 milioni meno del titolo precedente, il caustico e scoppiettante Quo vado? .
Da un certo punto di vista, gli intellettuali che si impadroniscono del nostro prezioso immaginario sembrano quei padri che, con la scusa che il gioco è complicato e delicato, si impadroniscono del trenino elettrico dei figli per giocarci loro per ore e ore. Solo che qui non c’è in campo solo il (preziosissimo) diritto al gioco (e, quindi, l’equilibrio e lo sviluppo mentale dei bambini) ma un’intera civiltà e la libertà stessa messa a grave repentaglio da chi (per carenza democratica e mediocrità culturale) compie azioni non dissimili dalle masse belluine che abbattono e sconciano monumenti e vestigia del passato. Non prendiamoli sottogamba: non sono né innocui né innocenti.