Donald Trump, giorni addietro, nell’ambito delle scelte dipendenti dall’esclusiva volontà del Supremo Capo delle Forze Armate Statunitensi, aveva deciso (e la notizia era stata annunciata, con poche, concise e lapidarie parole) di ritirare le truppe ancora presenti in Siria. La sua decisione ha incontrato subito il favore popolare, espresso, però, soltanto dai social: la gente nel suo Paese ha fatto sapere di avere “piene le tasche” delle guerre religiose che da duemila anni infestano il Mediorente, propagandosi in altre parti del Pianeta e soprattutto in Europa e vedendo, sempre, l’una contro l’altra “armate” non solo le tre religioni monoteistiche ma anche i gruppi scismatici e dissidenti di ciascuna di esse.
La maggioranza silenziosa dei cittadini nord-americani ha dichiarato, naturalmente solo sul web, di non comprendere perché l’America del Nord debba continuare a mandare a morire i propri figli in Afghanistan e in Siria, per guerre tra ebrei, cristiani e mussulmani di pretesa diversa appartenenza eretica. “Se quei popoli” – hanno pensato in molti – “intendono continuare a distruggersi e massacrarsi tra di loro in nome di quel Dio, unico e solo, in cui tutti dicono di credere, sono liberi di farlo ma lo facciano per conto loro, senza la nostra presenza e i nostri lutti”.
La stampa, naturalmente, ha soffiato sul fuoco, con la consueta invocazione dei “diritti umani” dei Curdi e attribuendo, al ritiro delle truppe nordamericane, la responsabilità per le eventuali, future nefandezzze di Erdogan (che ovviamente, vi saranno, dato il “clima rovente” esistente nella zona).
La massa, però, non aveva ancora finito di emettere e manifestare il suo sospiro di sollievo, quando il pur “deciso” Donald Trump ha fatto marcia indietro: si è mostrato prima incerto e, poi, si è contraddetto clamorosamente, rimangiandosi sostanzialmente la sua scelta, almeno nei suoi aspetti più drastici di un ritorno globale del contingente.
L’opinione pubblica più attenta dovrebbe chiedersi per quali ragioni un Presidente: a) eletto con un “voto di pancia” da un elettorato stanco delle ipocrisie della vita politica e dei “traffici” dei leader di partito con il mondo della Finanza e dell’industria delle armi; b) dimostratosi capace di andare contro-corrente e di muoversi su sentieri scomodi mai battuti dai suoi predecessori, si sia, poi, arreso per le numerose pressioni del Pentagono divulgate, con grande strombazzamento, dall’apparato mass-mediatico.
Per giustificare gli attacchi al Trump dell’annuncio del ritiro, sono stati tirati in campo i ricordi della “guerra fredda” e ingigantiti i recenti casi di presunte spie russe in Occidente; si è agitato lo spauracchio di un Vladimir Putin, pericolosamente vicino alle posizione di Donald Trump; si sono invocate le “Dichiarazioni solenni sui Diritti Umani” nella previsione di stragi turche dei Curdi e la necessità di mantenere lo stato di guerra in Medio Oriente, rinverdendo, magari, il ruolo essenziale delle Diplomazie per la soluzione dei conflitti (a dispetto delle ripetute prove della loro inutilità), l’urgenza di accelerare le procedure del “Russiagate” e chi più ne ha ne metta.
La critica del ritiro delle truppe dalla Siria s’è aggiunto alle iniziative di “impeachment” del Presidente Nord-americano, piuttosto avventate, secondo il giudizio di autorevoli giuristi, ma pur sempre politicamente pericolose e ad altre notizie su presunte malefatte di Donald Trump.
Tutto ciò che è avvenuto (e che avverrà) è apparso “scontato” a chi ha capito che l’offensiva del potere finanziario (e di quello mediatico da esso dipendente) contro “il disturbatore” del business monetario sta entrando in una fase di showdown finale. Ciò che è più interessante chiedersi è altro: che cosa ha veramente indotto Donald Trump al suo clamoroso “ripensamento”?
Un’opinione suggestiva è che sia stata l’ingerenza nell’affair dell’industria delle armi. Il poderoso apparato produttivo di bombe e missili, da sempre alleato del mondo delle Banche e quindi latamente ostile all’attuale Presidente Statunitense si è deciso ad agire in modo più evidente e pregnante, temendo altre decisioni “a grappolo” dopo il caso Siria nella parte del mondo che consente, più di ogni altra, ai suoi affari di lievitare. Quell’apparato è diventato, in altre parole, parte integrante e stabile dell’opposizione che osteggia, in maniera permanente, la nuova politica nord-americana.
Il Presidente degli Stati Uniti, nella sua oculata prudenza, deve avere pensato che non fosse opportuno e conveniente per lui allargare il fronte dei suoi potenziali nemici fino a estenderlo all’industria pesante delle armi e, soprattutto, all’interno dell’establishment governativo, ai generali e ai militari del Pentagono. E’ noto che dopo il tonfo della produzione per i traffici del capitalismo monetario, la posizione di Trump non ha potuto mai agganciarsi a un’industria di media portata, diffusa sul territorio nazionale. Essa è caduta in crisi, irrimediabilmente, con la preponderanza del capitalismo finanziario, che ha sostanzialmente indotto gli imprenditori statunitensi a delocalizzare i propri opifici in Paesi a basso costo di mano d’opera. Il Presidente degli Stati Uniti, in altre parole, ha fatto una valutazione (comprensibile e giustificata dalle difficoltà in cui si sta svolgendo il suo mandato) pur sapendo di deludere parte dei suoi follower interni e stranieri.
Zone d’ombra sono rimaste nell’opinione pubblica, perché il problema non è stato affrontato dai mass media tradizionali in termini accessibili e soprattutto sinceri. Lettori e spettatori hanno potuto fare solo congetture logiche basate sui pochi fatti noti e non su notizie esplicative. Leader politici e organi di informazione si sono mossi in direzione contraria a ogni ipotizzabile verità. Ciò è una conferma del fatto che combattere il “fake” nella vita politica è probabilmente una “mission impossible”. E non solo da ieri o da oggi:da sempre. Naturalmente, il falso, oggi, si realizza con mezzi di portata diversa, ma ciò attiene solo alla sua formazione e diffusione non alla sua natura che è sempre stata identica nella sostanza.
L’invincibilità della menzogna è tale, in primo luogo, perché sono proprio quelli che affermano di volere sconfiggere il fake ad alimentarlo quotidianamente: gli uomini politici e gli addetti all’informazione mediatica. Essi sfornano una falsità dopo l’altra, con estrema disinvoltura e senza mai porsi interrogativi, anche inquietanti. C’è mai stato chi abbia sollevato il dubbio che l’invocazione della difesa dei diritti umani dei popoli sia utilizzata per altri fini e rappresenti, in buona sostanza, l’alleata più preziosa per l’industria delle armi e della guerra?
In secondo luogo, perché anche in Paesi diversi dall’Italia a creare il fake bastano le “reticenze”. Per contribuire, infatti, a mantenere un’aura di mistero su tutto ciò che avviene nella gestione della res publicae che interessa l’opinione dei cittadini, sono più che sufficienti i “silenzi” calcolati. In altre parole, è meglio glissare abilmente su certi temi che raccontare menzogne. Queste, infatti, possono essere sempre smentite con prove contrarie.
Conclusione amara: Il danno in caso di dimostrazione del fake, si concretizza, purtroppo, solo nei Paesi anglosassoni, dove la fides ha ancora un certo valore; sullo Stivale, invece, esso, pur se dimostrato, non fa correre alcun pericolo a chi lo crea. Anche il suo volto più sfacciato non rappresenta un rischio: come hanno dimostrato le dichiarazioni contraddittorie, a distanza di meno di una settimana, dei maggiori leader delle forze politiche oggi al governo del Paese per effetto dell’ultimo “ribaltone”.