Anche il mio intervento di oggi è il seguito della parte finale del mio libro L’ALBERO DELL’IGNORANZA in uscita per i tipi di Avagliano. Mi scuso con i lettori per la forma narrativa che, però, spesso consente libertà di giudizio anche maggiori di quella realizzabile nel “saggio” di un uomo “libero”. Colgo l’occasione di questa premessa per ringraziare il prof. Mario Pacelli per l’attenzione che pone ai miei scritti e per il garbo con cui mi ha manifestato il suo dissenso.
Intanto, l’impoverimento del Paese non subiva arresti. L’Italia, chiusa nella trappola della “crescita-zero”, rappresentava il “fanalino di coda”, la “maglia nera” dell’Unione Europea. Le previsioni ottimistiche, se provenienti da governi “gauchiste” (da tempo in minoranza tra gli elettori del Bel Paese, secondo i sondaggi di ogni fonte), erano condivise a Bruxelles, con molto fair play, dai Moscovici di turno ma subito dopo regolarmente smentite dai fatti. La decrescita diveniva sempre più infelice.
L’Italia non aveva più catene commerciali di distribuzione dei prodotti: erano tutte cadute (rectius: cedute) in mani francesi. Auchan, Carrefour, Le Roy Malvine altre gestivano i supermercati. Gli articoli di lusso nell’oreficeria e nella moda portavano i nomi italiani che li avevano resi famosi nel mondo ma a giovarsi dei proventi derivanti della vendita erano ben noti magnati d’Oltrealpi.
Francia e Germania, fedeli esecutrici della politica monetaria degli gnomi di Wall Street e della City e dei fantocci di Bruxelles, con i loro governi rigorosamente nell’orbita del cristianesimo sociale e della socialdemocrazia (entrambi buonisti, universalisti, egualitaristi) si spartivano le spoglie del Bel Paese, che era diretto da leader (!) dello stesso orientamento politico, ma decisamente di second’ordine, perché inesperti, incapaci e corrotti. Non v’era alcuna possibilità che gente competente, affermatasi nella vita civile della Nazione entrasse nell’agone politico.
Gli unici a farlo erano gli “a tutto chiamati e a nulla eletti”, i “fuori corso” dell’Università senza residue speranze di laurea, i venditori ambulanti, gli odontotecnici senza lavoro: individui cioè che, non avendo nulla da perdere, potevano sfidare piogge di “avvisi di garanzia” emessi a raffica da un potere giudiziario che non rispondeva – legittimamente, peraltro, secondo la legge scritta – a niente e a nessuno.
L’incompetenza (o la malafede?) dei governanti italiani aveva raggiunto il diapason con la vicenda drammatica dell’ILVA. Ad aprire il fuoco era la stata la Procura di Taranto nel 2012 che aveva disposto il sequestro dell’acciaieria e l’arresto dei titolari e dirigenti con l’accusa di inquinamento ambientale (Greta Thunberg frequentava ancora la scuola elementare!).
Domanda: A chi era stata offerta dai rappresentanti della gauche italiana (Carlo Calenda, Matteo Renzi, Paolo Gentiloni, Luigi Di Maio) l’industria siderurgica italiana messa in grave difficoltà dai movimenti ecologisti (da sempre misteriosamente finanziati), dai sindacati e dai suggerimenti ambientalisti di Beppe Grillo?
Risposta (a pensar male): A chi poteva essere in grado di “papparsela”.
Una società anonima con sede (guarda caso) in Lussemburgo, l’ARCELOR-MITTAL, colosso industriale di livello mondiale, fornitore di acciaio all’industria automobilistica (che è soprattutto tedesca) avrebbe dovuto fare un piano industriale di risanamento.
Senonché il progetto da essa curato e predisposto, si era dimostrato (ancora secondo i malpensanti: in maniera prevedibile) fallimentare e (ancora prevedibilmente) diretto a giovare, in buona sostanza, più la concorrenza straniera (rappresentata anche dalla Società “curatrice”) che non il complesso industriale italiano; la cui chiusura era, per ovvi motivi, fortemente auspicata da chi stentava a stare sul mercato anche a colpa di Taranto e del Bel Paese.
Naturalmente, v’erano stati i consueti “lai” delle massime autorità ed istituzioni, i commenti falsamente critici di una stampa (in cuor suo gongolante non per le sorti dell’ILVA ma per i lauti stipendi erogati da chi ne auspicava la chiusura): nessuno aveva accennato al “regalo” fatto dal governo italiano alle potenze egemoni nell’Unione Europea: Germania e Francia.
La storia delle tristi vicissitudini dell’industria italiana non sembravano finire qui. Alla crisi dell’ILVA si aggiungeva la crisi dell’ALITALIA. Mentre il governo italiano, in previsione della decrescita, infelice e progressiva, si prodigava nell’elargire agli attuali e ai futuri, prevedibili e inevitabili, disoccupati redditi di cittadinanza, pensioni anticipate, bonus di ogni tipo, sussidi e cunei fiscali, la tedesca Lufthansa, invitata al capezzale dell’italica compagnia di bandiera, chiedeva tagli consistenti di personale, facendo prevalere la cosiddetta linea dura del gruppo.
Adele era angosciata di dover chiudere il suo libro con previsioni tanto negative e drammatiche. Di che ti preoccupi? – le aveva detto Mirella – Questo è il paese degli utopisti, degli universalisti, degli altruisti per vocazione, degli ecumenici per fede che godono del Bene che si diffonde nel mondo, anche se “scansa” i confini dello Stivale (nomen omen).