Ci sono cibi che si suddividono, come la minestra, che per secoli ed ancora oggi, ha popolato le tavole contadine. Un mestolo di minestra, un piatto di minestra, da bravi liquidi, prendono la forma del recipiente che li contiene. Sono democratici, dice Massimo Montanari in un suo libro. Non c’è infatti il pezzo migliore, la minestra è tutta ugualmente mischiata, tutta buona allo stesso modo. Ai tempi della rivoluzione francese la minestra, la soupe populaire, fu uno dei primi provvedimenti del cosiddetto stato sociale (etàt providence), e serviva a garantire ai poveri la sussistenza, era l’evidenza sostanziale dell’ égalité e della fraternité. La condivisione (e non la divisione) della minestra è un atto sociale. La carne invece permette discorsi diversi. Viene nominata dal pezzo anatomico a cui fa riferimento: cosciotto di agnello, alette di pollo, filetto di manzo. Si capisce che è stata fatta una scelta precisa, quel pezzo e non un altro. Ecco che si stabilisce di conseguenza una gerarchia della tavola, dove il boccone più prelibato, il pezzo migliore appartiene, di regola, all’ospite o al padrone di casa. La carne non si può dunque condividere, ma si può certo dividere.
Un alimento carico di significati anche simbolici e di valori pratici connessi con la condivisione è sicuramente il pane. Il pane (a differenza del formaggio) non è frutto di una scoperta casuale, ma risultato di un’opera di alta ingegneria, una vera e propria invenzione del tutto originale. Qualcuno individua proprio nel momento di elaborazione di questo nuovo alimento, il vero scatto rivoluzionario ed evolutivo della popolazione umana, molto più di quello contenuto nel passaggio da raccoglitori/frugivori a stanziali/coltivatori. Le popolazioni mediterranee, a buon diritto, rappresentano il pane come il simbolo della civiltà evoluta; i ‘mangiatori di pane’ si distinguono nettamente dalle altre popolazioni barbare, spesso nomadi e cacciatrici, perchè sono in grado di ‘inventare’ il proprio cibo, di costruirlo letteralmente. Lo stesso discorso è possibile sul vino, altro alimento progettato con la consapevolezza di chi conosce i gesti per giungere ad un risultato specifico. Seminare e coltivare il grano, raccoglierlo, togliere il ciuffo (peraltro tossico), conservarlo in un luogo asciutto, macinarlo a poco a poco (con l’uso delle mani o delle macchine), impastare la farina con l’acqua e con microorganismi che abbiamo selezionato e controllato, è un lavoro di alta ingegneria.
Condito con olio e pomodoro diventa focaccia, con strutto e cotto sul testo è tigella, piadina, ciascuno secondo la propria cultura ci ha aggiunto grassi e condimenti per arricchirne il sapore e farlo diventare quasi un pasto intero. Con burro, uovo, zucchero, si veste a festa e assume molteplici facce a seconda del momento dell’anno e della collocazione geografica, con mille varianti. Dal Carasau sardo alla coppia ferrarese fino alla scanàit altamurana, la ricchezza dei pani italiani meriterebbe un tour gastronomico.
di Elisabetta De Blasi