martedì 5 Novembre 2024
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In memoriam

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I capitalisti e, in generale, i difensori dell’ordine costituito non hanno bisogno della memoria. A loro il presente; e, beninteso, anche il futuro. E, calvinisticamente parlando, perchè il loro successo è di per sé testimone della bontà della loro causa.

Neanche gli ex comunisti (penso, in particolare, a quelli italiani) ne hanno bisogno. Perché il partito è, e rimane, il punto di riferimento essenziale nell’interpretare, con gli opportuni aggiornamenti, il corso della storia. Così che, nell’orizzonte dell’oggi, bastano e avanzano Veltroni, Prodi, Renzi e Bettini; mentre pochi intimi, passabilmente anziani, si presentano al Verano per ricordare un leader a cui il partito deve tutte le sue fortune.

Per i socialisti sparsi per il mondo il passato è, invece, ragione di vita. Tanto più in quanto il “sole dell’avvenire”, loro vero simbolo unificante, fa ormai parte di un orizzonte sempre più lontano e confuso; se non, come ci impone il “pensiero unico”, chiuso per sempre.

Sarà, allora, il passato a rischiarirci la via e a confortare il nostro percorso. E non parlo qui delle grandi conquiste collettive – benessere, sicurezza, dignità, solidarietà – frutto dell’impegno di generazioni, della nostra forza ma anche della nostra saggezza, di alleanze e, ebbene sì, di ragionevoli compromessi. E della civiltà pacifica che si è costruita grazie a noi fino ad apparire come definitivamente acquisita mentre invece non lo era affatto.

Parlo invece dei nostri grandi morti. Mai vincenti o appagati. Ma perdenti, anzi vittime, cadute perché impersonavano una causa giusta. Parlo dei morti della Comune e di Kronstadt, di Jaurès e di Turati, di Kear Hardie, di Martov, degli operai di Vienna, delle vittime dello squadrismo fascista; dei morti insepolti della guerra civile spagnola; ma anche di Allende e di Palme. E di altri e altri ancora, seguendo il filo della passione e della memoria.

Di questi dobbiamo parlare. Perché vivano per sempre nella nostra memoria a rappresentare la fragilità della nostra civiltà e il valore perenne della nostra causa.

I fratelli Carlo e Nello Rosselli
I fratelli Carlo e Nello Rosselli

Oggi, e particolarmente (anche se non solo) in Italia, questo legame vitale tra passato e presente si è spezzato; e proprio quando ce n’era più bisogno. Per qualche tempo, all’indomani della caduta del muro, un’orchestra di pifferai ci ha raccontato che non ce n’era più bisogno. Perchè il capitalismo aveva vinto e il socialismo aveva definitivamente perso; ma anche perché i socialisti disponevano della formula magica (terza via, nuovo centro, riformismo) per garantire al nuovo ordine il necessario consenso popolare.

Ma poi è passata la sbornia. E ci siamo ritrovati in un paese in cui il socialismo era scomparso, di nome e di fatto, dalla politica e dalla cultura. E in cui i tanti socialisti in circolazione, senza identità nel presente e senza speranze per il futuro, sono all’affannosa ricerca di figure del passato cui appoggiarsi per ripartire.

E qui, misurarsi con Craxi è assolutamente necessario. Qualsiasi sia la preferenza personale di ciascuno di noi. Perché la sua distruzione politica e umana ha coinciso con la distruzione della prima repubblica nel nostro paese e perché la seconda sta naufragando in un contesto di totale fallimento. Perché la sue eredità politica è stata confiscata da una destra, responsabile, allora non meno di altri, della sua uccisione (non so voi; ma a me fa francamente senso vedere affidata a Forza Italia l’eredità della sua politica nel ventesimo anniversario della sua morte). E, infine, perché il bellissimo film di Amelio, ha riproposto agli italiani la sua figura, tragica, di grande perdente.

Abbiamo allora, tutti, il dovere, morale prima ancora che politico di capire chi l’abbia ucciso; e perché. Un esercizio tutt’altro che accademico; e del tutto privo di spirito di vendetta o di richieste riabilitative. Perché, guardando al fondo delle cose, le ragioni per cui fu distrutto anzi linciato dai suoi innumeri carnefici costituiscono oggi non solo un suo titolo di merito ma anche una base, necessaria anche se tutt’altro che sufficiente, per riprendere il nostro cammino.

Prima sua colpa, ma oggi titolo di merito, il suo revisionismo. Che fu, certamente, anticomunismo. Ma non per questo “di destra” ( allora, chiunque osasse misurasi polemicamente con i comunisti o con il comunismo veniva automaticamente bollato come “di destra”, spettando di diritto agli interessati di redigere l’elenco. Una narrazione allora inconfutabile in nome del “politicamente corretto”; ma, alla luce di quello che è successo dopo, semplicemente risibile). Anche perché non aveva niente a che fare con l’esaltazione del mercato, del privatismo e dell’ordoliberismo. Quello che al Nostro premeva era da una parte rivendicare l’assoluta e superiore alterità del socialismo rispetto al comunismo, fino a sostenere che qualsiasi processo unitario dovesse passare per una sorta di capitolazione ideologica del secondo; pretesa insieme irricevibile e, alla luce di quello che accadde poco tempo dopo (la capitolazione ideologica: ma rispetto al liberismo e all’ordine costituito…), semplicemente irrilevante.

Mentre rilevante e come era la feroce polemica contro il berlinguerismo: che, spogliato del suo fervore ideologico dopo la morte di Berlinguer, sarebbe sopravvissuto come compiacimento per la propria superiorità morale, rifiuto di qualsiasi disegno alternativo e, per il resto, eco subalterna delle tesi di Repubblica (governo dei tecnici o degli onesti, disprezzo per lo stato e per il pubblico e per la politica eccetera eccetera). Un concime utile, nel passaggio dalla prima alla seconda repubblica, per distruggere, con il gradito concorso di una maggioranza di Filistei, il capo dei Pubblicani, orgoglioso di esserlo. Una vicenda esemplare, allora e dopo, per ricordare le ragioni e la dignità del suo revisionismo.

Ancora, Bettino Craxi, fu ucciso come simbolo della prima repubblica. E difensore, sino all’ultimo, delle sue pratiche e delle sue ragioni. Allora, uno dei suoi errori più gravi: la riuscita, sin dall’inizio altamente improbabile, dello schema mitterrandiano aveva comunque bisogno di un discorso rivolto a tutto il popolo di sinistra. Mentre era assurdo pretendere di identificarla con l’aumento, peraltro estremamente lento del consenso elettorale o, peggio ancora, del potere (questo assai più consistente e, per certi aspetti scandaloso) del Psi. Un partito che sarebbe stato la sua palla al piede; che avrebbe interpretato il suo disegno nel modo più volgare possibile; e che, al dunque, l’avrebbe abbandonato per cercare vendetta o protezione (o magari le due cose insieme) nelle più diverse direzioni. L’altro errore essendo stato quello di non vedere e non capire la tempesta che si stava addensando; magari contando sulla solidarietà di quelli che ne avevano condiviso, assieme a lui, le pratiche, gli errori ma soprattutto la cultura.

Rimane però, anzi deve essere impresso nella nostra memoria, il fatto che, nel momento decisivo (che potremmo far coincidere con il suo discorso alla Camera) quelli che avrebbero dovuto difendere – comunisti e democristiani in testa- assieme a lui, la prima repubblica e contribuire al suo collettivo rinnovamento voltarono il capo dall’altra parte, lo lasciarono crocifiggere (guidando la carretta o, peggio, applaudendo al suo passaggio) per prosternarsi senza reagire di fronte ai nuovi dei “falsi e bugiardi” della seconda. Assieme alla constatazione che l’esperienza di quest’ultima sarebbe stata da un totale disastro e in tutti i campi; sino a tradurne in burletta propositi, protagonisti e istituzione. Esito che Craxi aveva ampiamente previsto.

Infine, Craxi fu ucciso perché era un socialista. Socialista senza bisogno di precisazioni ridondanti (tipo liberale, moderno, riformista e così via).

Lo era perché era un internazionalista vero. Il primo a render omaggio alle tombe di Allende e di Nagy. Il difensore dei dissidenti dell’est e, insieme, il protagonista di un dialogo proficuo con quei comunisti che avrebbero reso possibile la transizione pacifica del 1989 nell’Europa dell’Est. Il difensore dei diritti dei popoli oppressi – dal Nicaragua alla Palestina, dall’Eritrea all’Afghanistan, dal Cile ai rappresentanti del mondo comunista – tutti presenti al congresso di quell’anno. E non certo a titolo formale.

Lo era nei rapporti con il mondo che lo circondava. Fino all’ultimo cercò il consenso della Cgil al progetto di riforma del meccanismo della scala mobile; e successivamente si presentò al suo congresso accolto da applausi. Non fu certo colpa sua il mancato accordo (e, detto per inciso, in materia di scala mobile e di diritti dei lavoratori si è fatto molto di peggio e senza che nessuno fiatasse). E, ancora, fino all’ultimo difese lo stato e il buon uso del settore pubblico (a partire dalle partecipazioni statali) respingendo, sistematicamente, al mittente i  lamenti periodici delle grandi imprese private e dei loro portavoce.

Lo era, infine, nella sua difesa del ruolo centrale dello stato e dell’indipendenza del nostro paese. Prima, durante e dopo Sigonella: e sempre con il richiamo, mai udito né prima né dopo, alla difesa dei nostri interessi nazionali.

Non a caso, allora, la sua fine politica e la sua sofferenza personale coincisero con l’avvento di un nuovo pensiero unico; con la distruzione totale delle istituzioni e della cultura politica della prima repubblica e, infine, con la cancellazione dal nostro orizzonte del socialismo.

Quanto basta per ripartire da questi punti fermi? Secondo me, sì. Anche perché nelle nostre attuali condizioni sono le uniche di cui possiamo disporre. Non foss’altro per rispondere alla nostra vera vocazione: contestare i (ex o fu) comunisti; ma da sinistra.






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