Io sono una donna. Nata in una famiglia che si portava dietro le ferite dell’ ultimo conflitto mondiale, della discriminazione razziale, di chi aveva perso tutto ma già lavorava per la ricostruzione del sé e del Paese. A cavallo tra sentimenti rancorosi e speranze. Tra la distruzione e la rinascita. Sono diventata ragazza nel periodo del boom economico e di importanti cambiamenti di vita. Sono cresciuta negli anni in cui la contestazione operaia e studentesca ha nuovamente ribaltato i parametri di questo svolgimento. Sono diventata donna facendo i conti con cambiamenti storici, politici e geografici. Confini modificati, muri divisivi, nuove formazioni internazionali, guerre di liberazione, guerre di dominio.
Quelli gli anni della mia formazione, del mio impegno collettivo, delle scelte culturali e personali. Ho impegnato i migliori anni della vita, partecipando come un dovere, senza mai tirarmi indietro davanti alle difficoltà e i pericoli, obiettando gli errori del passato, operando nel presente, spinta verso il futuro. Che credevo e volevo fortemente di uguaglianza, libertà senza distinzioni di razza, di genere, di religione, in un’appartenenza di rispetto e condivisione, solidarietà e scambio. Di pace.
Ma io sono una donna e questo ha fatto la differenza.
Non ho potuto non accorgermi di essere lasciata sempre in seconda fila nelle vittorie ma libera di espormi ai pericoli. Né che mi si chiedesse l’impossibile ma non fosse riconosciuto il merito di averlo realizzato. Che dovessi percorrere una salita insaponata per conquistare ogni diritto. Di dovermi difendere da manifestazioni di violenza. Ho faticato. Alla ricerca dell’equilibrio tra l’essere donna, con le proprie caratteristiche e le proprie differenze, e l’ essere persona.
Però, sono passata dal sentirmi sola in questa battaglia a ritrovarmi in cammino con tante altre. Sia della mia generazione che delle successive. Insieme, nelle piazze, nei luoghi del dibattito, del confronto e del confronto, nei luoghi della politica e delle istituzioni.
Ho sempre pensato che gli obiettivi uniscano e travalichino i confini naturali o artificiali. O meglio dovrebbero e in questo cammino qualche volta abbiamo litigato fra noi. Per poi ritrovarci. Sto parlando di decenni passati ma anche del nuovo secolo e del futuro.
Di un tempo che ancora non ha messo a dimora le radici del superamento delle discriminazioni, della positività delle differenze.
Ma l’8 marzo noi tutte ci riconosciamo.
Insieme, sul terreno comune della nostra insofferenza alle cose incompiute.
Tutto ciò pur nella consapevolezza che non è del tutto vero. Che ci sono stati importanti cambiamenti nel corso del tempo. La questione di genere fa parte ormai di un dibattito moderno, politico, sociale, culturale, economico, transnazionale. E ciononostante ci riteniamo insoddisfatte.
Per l’incompletezza dei risultati e dei riconoscimenti. Per il permanere di posizioni svantaggiate nel lavoro, del permanere del peso univoco di carichi familiari e di cura, di una cultura permanentemente stereotipata. Per il crescente fenomeno della violenza contro le donne. Un conto che non torna rispetto all’evoluzione che i tempi richiederebbero.
Ed ecco che ogni anno, ogni sacrosanto anno, ogni 8 marzo del calendario, da quando si è identificata questa data come ricorrenza per “celebrare”la “Giornata internazionale della donna” mi ritrovo a constatare con amarezza che “i progressi in ambito economico, politico e culturale raggiunti dalle donne in tutto il mondo”, cioè la sostanza di questa celebrazione, hanno dato risultati ancora troppo parziali. E a domandarmi cosa sia successo, o meglio cosa non è successo se stiamo ancora in questo limbo.
Considerando che noi donne occidentali a volte dimentichiamo di essere addirittura delle privilegiate rispetto alle nostre simili di genere in altre parti del mondo. Le nostre richieste appaiono egoistiche e la solidarietà che mettiamo a disposizione una testimonianza di buone intenzioni. Come se fossimo ancora troppo prese dal nostro personale per appartenere davvero all’universo donna o che quell’universo sia davvero troppo debole. Ci sono donne e donne. Per ragioni geografiche, religiose, etniche, culturali, politiche; per ragioni ideologiche; per appartenenza. Però, questo è certo, siamo tutte femmine.
Ed essendo munite di un apparato funzionale alla riproduzione del genere umano, al dare la vita, è inevitabile che si viluppi in noi l’ attitudine alla sua conservazione e alla sua difesa. Nonché accudimento, mantenimento, organizzazione, sviluppo e cura. Tutto ciò premesso mantenendo nel contempo capacità intellettive uguali all’uomo. In questa commistione di caratteristiche diverse ma uguali il ruolo sociale che ci hanno tagliato addosso è divenuto assai complesso anche grazie all’opportunismo di genere.
Eppure la tendenza alla difesa della vita, l’istinto alla conservazione, rende il soggetto femminile un forte argine al rischio di sparizione della specie.
Ci raccontiamo che i diritti che chiediamo siano universali e che la libertà delle donne è a misura della libertà di tutti. E nel fluire delle parole, nelle affermazioni che ogni volta ribadiamo tutto sembra semplice quanto ancora difficile da raggiungere.
Per cui io adesso, come persona avvezza alla vita di donna, mi domando quale è l’anello che è venuto a mancare per comporre questo racconto.
Mi appare stanco l’8 marzo.
70 anni di storia che lo hanno reso nella cultura complessiva poco più di una festa popolare, profumata di mimose.
Non si è più neanche tanto sicure delle sue origine; offuscato il luogo, confusa la data di riferimento, confuso anche internet.
Però vivo contenitore di date, di vittorie e sconfitte delle battaglie condotte dalle donne.
Noi che vorremmo utilizzare tutti i giorni del calendario per arrivare alla compiutezza dei nostri affanni e non essere riconosciute in circostanze contingenti o drammatiche, non ultima la pandemia.
Tante le facce dell’ 8 marzo: sciopero, femminista, contro la violenza, per parità salariale e pari opportunità nel mondo del lavoro, quello del silenzio, dei diritti mancati, contro la guerra.
Le parole: uguaglianza, empowerment, obiettivi, strategie, sostenibilità, accesso globale, apprendimento, vittime, discriminazioni, qualità della vita, città a misura di donne ecc.
E’ l’8 marzo dei nostri sentimenti, di slogan gridati e scritti con veemenza perché quel giorno sappiamo che ci guarderanno, la politica, le istituzioni, i mass media e gli altri. Poi ritorneremo quasi invisibili.
Marzo eccessivo, invisibile, inquieto, amaro.
Ma poi, e per fortuna, c’è in me e in noi, l’8 marzo della rinascita!
Dell’orgoglio e della resistenza!
Che questa volta sarà intrinsicamente dedicato alla pace.
Perché in una visione di futuro prevale in me, in noi, il perseguimento della vita.
Della rinascenza, che travalica la “ianua” che conduce inevitabilmente dal passato al futuro.
Per seguire le sole ciclicità che regolano la vita, da una stagione a un’altra, dal giorno alla notte, dal freddo al caldo, dalla luce al buio, riconoscendo un senso alla vita, oltre la porta del puro esistere di maschio e femmina.