Colpi di fucile, grida, lacrime, confusione, una strada affollata, terrore. Poi una piccola luce di colore rosso che si muove a piccoli passi spaesati tra le persone che cadono a terra senza vita, tra le pozzanghere di acqua che riflettono gli orrori dell’umanità e sotto gli occhi di un uomo che agghiacciato vede davanti a lui il mondo crollare.
La bambina con il cappotto rosso nel grigiore della pellicola di Steven Spielberg, Schindler’s List, è diventata con il tempo un’immagine vivida nelle nostre memorie. Una licenza poetica, quella del colore rosso, che il regista ha scelto come elemento di contrasto con il bianco e nero di tutto il film. Quel cappottino rosso sembra proteggere la bambina dalle violenze arbitrarie e dal rastrellamento nazista del ghetto di Cracovia. Un piccolo barlume di speranza che si muove a stento verso una presunta salvezza. Ma ancora di più è il simbolo di quanti, pur consapevoli degli orrori del massacro, non fecero nulla: «Era evidente come una bambina con un cappotto rosso che cammina per la strada, ma nessuno pensò di bombardare le linee ferroviarie tedesche. Nulla fu fatto per fermare… l’annientamento degli ebrei europei. Quindi questo è il mio messaggio nel lasciare quel particolare del film a colori». Così dichiarò il regista.
Roma Ligocka, vedendo il film, si riconobbe in quella bambina con il cappotto rosso che dà anche il titolo al suo libro The Girl in the Red Coat, attraverso cui la scrittrice ha potuto mettere nero su bianco la sua storia di perseguitata, e della quale si servì Spielberg per il suo film. Così come si servì del romanzo di Thomas Keneally, La lista di Schindler, per raccontare cinematograficamente la vera storia di Oskar Schindler, un imprenditore tedesco che salvò la vita di circa 1.100 ebrei dallo sterminio, impiegandoli come personale nella sua fabbrica di utensili.
La bambina con il cappotto rosso nacque da una famiglia ebrea a Cracovia, un anno prima della seconda guerra mondiale. Durante l’occupazione tedesca lei e la sua famiglia vennero perseguitati. Suo padre venne deportato prima nei capi di concentramento di Płaszów e poi di Auschwitz. Mentre lei e sua madre vennero portate nel ghetto di Cracovia dal quale fuggirono nascondendosi con una famiglia polacca.
Quella bambina con il cappotto rosso sopravvisse al massacro. Ora Roma Ligocka è una donna, una moglie, una madre, una scrittrice, una pittrice e una costumista. Ha studiato all’Accademia di Belle Arti a Cracovia, ha avuto successo come scenografa a teatro, cinema e televisione, e poi si è trasferita a Monaco per continuare con il suo lavoro. Una parentela la lega ad un curioso personaggio, ovvero Roman Polanski, suo cugino. Il caso ha voluto che al regista venisse proposto di dirigere Schindler’s List, ma rifiutò perché non si sentiva ancora in grado di raccontare l’Olocausto di cui anch’egli fu vittima. Visse anche lui nel ghetto di Cracovia fino all’età di 8 anni e la madre morì nel campo di concentramento di Auschwitz. Di Polanski ricordiamo il film del 2002, Il pianista, con cui decise di affrontare il doloroso argomento.
Roma, nonostante sia riuscita a vivere una vita che molti definirebbero normale, porta ancora le ferite di quel periodo che stentano a rimarginarsi. Roma rimane nel profondo una “bambina nascosta”, una di quei bambini ebrei al di sotto dei 14 anni che sono miracolosamente sopravvissuti.
Era il 1993 quando al cinema veniva proiettato per la prima volta Schindler’s List, nonostante siano passati 26 anni la pellicola ha mantenuto viva la memoria di una delle più orribili pagine della storia e rimane un tassello fondamentale della storia del cinema. Oggi, 27 gennaio Giorno della Memoria delle vittime dell’Olocausto, ricordiamo ancora quel bianco e nero lugubre e doloroso, ma anche quel cappottino rosso faro di speranza nel buio della morte.