Quelli che si auto-fregiano, in perfetta buona fede, del titolo di “Europeisti”, vantandosene come se si trattasse di un’onorifica “stella al merito”, partono, a mio parere, dall’erroneo presupposto che vi sia un’unica cultura (o una medesima mentalità) “Europea”.
In realtà, il vecchio Continente è stato sempre diviso tra:
a) concezioni, ritenute da chi le seguiva, profondamente logiche e razionali di tipo monistico, atomistico, empiristico, pragmatico, legate alla concreta realtà fisica e sempre volte a trovare soluzioni unicamente per i problemi degli esseri umani, viventi sulla Terra e consapevoli di far parte di un Cosmo di infiniti Infiniti, da un lato, e
b) visioni ispirate dalla fantasia, dette metafisiche (oltre la realtà fisica), ritenute razionali perché proiezioni di un’Idea enunciata da maestri del pensiero filosofico o anche irrazionali ma giustificate da una fede in un essere superiore e volte non solo a realizzare obiettivi considerati nobili di vita sulla Terra ma anche a garantire godimenti post-mortem in un al di là ritenuto, in via dogmatica, esistente, dall’altro.
Naturalmente, queste due concezioni hanno avuto e tuttora posseggono diverse e variegate sfaccettature e sono presenti nei vari Paesi Europei in maniera diversa.
Orbene, se neanche il ben confezionato Dossier che la Rai ha dedicato all’azione politica di governo di Margaret Thatcher, corredato dalle preziose e chiare interviste di Lord Charles Powell e del giornalista Ward ha fatto sufficiente chiarezza sulla posizione della Gran Bretagna nei rapporti con l’Unione Europea, ciò è stato dovuto alla difficoltà di approfondire, nello spazio temporale molto breve di un servizio televisivo (o giornalistico) proprio le ragioni culturali, più profonde e remote, che dividono in Europa il mondo anglosassone da quello continentale.
Tali ragioni sono tante e notevoli. Gli abitanti delle isole britanniche, infatti, sono quelli che in Europa hanno meno connotazioni comuni con gli altri popoli continentali.
Certo, c’è la condivisione del cristianesimo; ciò, però, nella sua versione anglicano-calvinista, che, storicamente, è stata, da sempre, ostile al cattolicesimo assolutistico e intollerante della Chiesa di Roma (ne seppe qualcosa l’invincibile Armada spagnola, colata a picco da Elisabetta I nelle acque del canale della Manica).
Del cristianesimo, l’Inghilterra ha sposato, a parte le storie narrate nelle sacre scritture, anche l’idea del peccato carnale, addirittura esasperandola in un puritanesimo a volte pervicacemente omicida (come dimostra il caso di Oscar Wilde) a volte solo distruttore della carriera di uomini politici “detronizzati” per le loro (innocue, sotto il profilo pubblicistico enunciato nel latino: neminem ledere) scappatelle amorose.
A parte tali due “debolezze”, gli Anglosassoni non hanno mai amato la filosofia continentale egemonizzata dagli Illuministi francesi (implacabili ghigliottinatori), dagli Idealisti Tedeschi (padri, più che putativi, del nazifascismo e del socialcomunismo) e degli stessi insegnamenti dell’antica Grecia racchiusi nel Platonismo e hanno sempre preferito tra questi ultimi l’empirismo pre-socratico, soprattutto democriteo, lisippiano ed epicureo, ripreso, in primis, da John Locke.
In altre parole, la Gran Bretagna, che è un’“isola” geograficamente parlando, è rimasta tale anche sotto il profilo della sua cultura, lontana dagli assolutismi teocratici, monarchici e tirannici della parte continentale europea.
Quest’ultima, da duemila anni è sede dell’intolleranza più acuta, sia religiosa sia filosofica. Le sue molteplici manifestazioni sono avvenute all’interno o all’esterno dei propri confini.
Rebus sic stantibus, v’è da dire che l’errore della Gran Bretagna è stato quello di entrare nella Comunità Europea.
Si può dire che ciò sia avvenuto per effetto di un pensiero abbozzato (anche se non illustrato adeguatamente) da Winston Churchill?
Sì e no. Il grande statista inglese, di fronte alle macerie ancora fumanti del continente europeo, aveva accennato all’idea della costituzione di una grande nazione: gli Stati Uniti “d’Europa” simmetrici a quelli “d’America”.
Si trattava di un’idea, però, che presupponeva di tener conto delle particolarità e dell’autonomia dei singoli Stati come era avvenuto nell’America del Nord; e che, probabilmente, avrebbe trovato difficoltà di realizzazione proprio al tavolo delle trattative.
Lo scontro tra mentalità opposte sarebbe stato inevitabile per l’impossibilità di conciliare vedute sullo “Stato” molto diverse tra di loro (dalla vita parlamentare ai poteri dell’Esecutivo e agli Organi di giustizia) e avrebbe “pesato” enormemente.
Ciò non avvenne e fu certamente un male per gli Euro-continentali e un bene per gli Inglesi.
L’idea della confederazione politica degli Stati del vecchio Continente sarebbe stata, infatti, certamente geniale per i Paesi continentali che si sarebbero sottratti al destino di finire nelle mani dei tecnocrati bancari di Bruxelles, longa manusdei finanzieri di Wall Steet e della City.
Essa, però, a causa della diversità di cultura, religiosa e filosofica e dell’ ordinamento e dell’apparato statale avrebbe fatto trovare la Gran Bretagna, in un tale contesto, come un vero e proprio “pesce fuor d’acqua”.
L’affinità dei britannici, massima con altri popoli anglosassoni, empiristi e pragmatici, è veramente minima con i fanatici dell’assolutismo tedesco, francese, italiano, spagnolo, portoghese e via dicendo.
Di ciò, peraltro, si era avvista (come ci ha ricordato il Dossier di Rai 2), Margaret Thatcher che di trasformazione dell’Unione Europea in organismo politico non aveva voluto neppure sentire parlare; scelta del tutto comprensibile per la Gran Bretagna che nell’Unione Europea già cominciava a sentirsi come il cavolo a merenda, sottoposta alle pressioni universalistiche e ipocritamente umanitarie con cui Germania e Francia nascondevano i loro “sogni” egemonici di sempre.
Quest’ultima cosa hanno ben capito, in seguito, gli Inglesi, votando la Brexit.
Essi hanno così recuperato quella libertà di pensiero e azione in politica che solo gli empiristi e i pragmatici possono avere, liberi come sono dai falsi universalismi ed ecumenismi di finti “idealisti”. Ciò che a loro è sfuggito è che personalità politiche e caratteriali come Winston Churchill e Margaret Thatcher sono rare anche alle loro latitudini.
Le “anime pie”, devote e codine, con la loro dipendenza da Autorità di vario genere non fanno la Storia. La Brexit con gente della tempra dei due statisti citati avrebbe già visto la liberazione del Regno Unito dai legami asfittici di un’unione di tecnocrati, burocrati e funzionari.