giovedì 12 Dicembre 2024
Il Pensiero LiberoLa “politica” nell’Occidente globalizzato

La “politica” nell’Occidente globalizzato

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Tutti concordano sul fatto che il mondo “globalizzato” si presenti in modo totalmente diverso da quello cui la popolazione del Pianeta era abituata.

Su un piano più specifico, se la polis nel nuovo assetto necessariamente scompare perchè gli “universalismi” rappresentano la negazione della possibilità di organizzare in maniera diversa la vita delle collettività in ambiti circoscritti che non siano “mondiali” (idest: simili), ciò potrebbe significare la fine della politica; almeno della politica da noi sempre intesa come cura della polis.

Le battaglie che un tempo si combattevano all’interno della comunità organizzata per raggiungere una composizione degli interessi contrastanti e proteggere al meglio, soprattutto verso l’esterno, la res publica sono, oggi e in futuro, destinate a diventare un mero ricordo del passato.

Se ciò è vero, il fake più clamoroso diventa quella della finta lotta che sembra combattersi in ogni Paese del Pianeta su temi che non hanno alcun riferimento con i veri interessi in gioco che oggi sono esclusivamente “globali” e, per conseguenza, almeno sul piano lessicale ed etimologico, non più politici (cioè della polis). Ciò che si è detto non ha un valore meramente terminologico. Gli effetti che la “globalizzazione” ha determinato sull’assetto del cosiddetto mondo Occidentale sono reali e concreti.

La polis
La polis

L’Occidente, paradossalmente, è diventato “unico” ma assolutamente “non unito”. Lo dimostra, a tacer d’altro, il fatto che l’America di Donald Trump consideri l’Europa una “nemica” e, per le ragioni che dirò, certamente non a torto. La differenza rispetto al variegato aspetto dello scontro che si è sempre prodotto nelle varie polis è che nell’Occidente globalizzato la “guerra” in atto si è, per così dire, “semplificata” e al tempo stesso indurita, come contrasto irriducibile e non mediabile tra i fautori del capitalismo industriale tout court e quelli del monetarismo finanziario. I primi vedono il capitalismo nel modo delle origini come strumento di produzione di beni, materiali, immateriali e di servizi. I secondi vedono nei movimenti di denaro la fonte da preferire a ogni altra per la produzione della ricchezza e fanno di tutto per rendere faticosa, poco remunerativa, zoppicante e bisognosa del sostegno creditizio l’industria manifatturiera tradizionale.

Voci “di corridoio”, sfornite ovviamente di prove inconfutabili, fanno risalire alla “seconda cordata” le manovre, a livello sia accademico sia popolare, di “terrorismo ecologico” (riscaldamento della crosta terrestre, buco dell’ozono e chi più ne ha ne metta, tralasciando di ricordare i cambiamenti climatici che in miliardi di anni hanno riguardato la Terra); quelle relative alle delocalizzazioni degli opifici industriali in difficoltà per l’alto costo raggiunto dalla mano d’opera; quelle, infine, volte ad annullare i confini nazionali che ancora si frappongono all’idea di un mondo “globalizzato”, favorendo con potenti aiuti economici e con l’interessato appoggio dei “signori della guerra” (divenuta nel nuovo assetto mondiale soprattutto civile), i produttori di armi, ripetute, massicce trasmigrazioni di popolazioni, prevalentemente centro-africane, nei Paesi Occidentali con imprese costrette (si fa per dire) a pagare poco i lavoratori.

Mentre tutto ciò avviene al livello delle “stanze segrete” le collettività organizzate delle vecchie Nazioni continuano a scontrarsi su obiettivi fasulli, mutuati da partiti annientati dal “secolo breve”, da fideismi religiosi in via di estinzione, da diatribe totalmente prive di sbocchi significativi sul P.I.L., sulla crescita zero o sulla decrescita felice, sui misteri dei servizi d’intelligence (Russiagate et consimili amenità) in occasione di elezioni definite “democratiche”, sulla crisi delle Istituzioni e della giustizia in particolare, sulla corruzione in costante crescita e così via.

Le due correnti, che comunque sono più di interessi che di pensiero appaiono in contrapposizione sempre più dura e netta. Da un lato v’è uno schieramento organizzato e compatto che comprende il sistema finanziario e creditizio; l’industria delle armi (con la presenza degli Occidentali per il proposito, verosimilmente fake, di combattere il terrorismo e con la ipotizzabile volontà reale di alimentarlo per favorire la permanenza di guerre fratricide in Medio-Oriente, vera “manna” per l’industria delle armi); la scia dei politici con propositi di diffondere il “Bene universale” e la “Pace tra i popoli” fautori di presenze occidentali nei luoghi nevralgici del Pianeta, gauchisti ma non solo: Democratici statunitensi (Clinton, Obama ma anche Bush), Laburisti inglesi (Tony Blair, Jeremy Corbyn, ma anche Cameron) Cristiano-sociali di varia denominazione (Merkel, Gentiloni, Berlusconi) e socialdemocratici euro-continentali (Renzi, Zingaretti ma anche Grillo, Casaleggio, Di Maio).

Dall’altro v’è “un’armata Brancaleone” senza compattezza alcuna, condotta da “capitani di ventura” senza cultura e senza competenza ma che ha, sia pure soltanto indistintamente, intuito che il trionfo definitivo del capitalismo monetario segnerà la fine dell’economia industriale in Paesi che pure erano stati ai vertici del capitalismo multi-produttivo. La gragnuola di colpi che i suoi simpatizzanti sono costretti a subire con epiteti, innocui nella loro sostanza lessicale, ma intrisi di disprezzo “aggiunto” (“sovranisti”, “populisti”), è tale da scoraggiare anche la sola ammissione di essere contrari alla “condanna a morte” del capitalismo industriale.

Il grande assente da questo schieramento, disordinato, scomposto e variamente insultato è il “liberalismo”, quello serio che potrebbe mettere ordine e “capitanare” la protesta contro la distruzione della industria produttiva ad ampio raggio. Mentre infatti, il liberalismo “anglosassone” di Donald Trump e di Boris Johnson, è non solo ben presente ma attivo e combattivo, nella difesa della libertà d’iniziativa sopraffatta dalla degenerazione monetaria del capitalismo e praticamente soffocata dalle Banche, il liberalismo eurocontinentale mal venuto alla luce in una culla idealistica e assolutistica è latitante.

Conclusione amara: c’è poco da sperare che gli intellettuali euro-continentali e italiani in specie italiani si distacchino da democristiani e socialdemocratici per intraprendere una battaglia di libertà di cui non riescono neppure a cogliere il significato profondo di difesa della libertà. Nel Parlamento europeo, la loro collocazione è fin troppo chiara e non vi sono segnali di ripensamenti. D’altronde, molti professionisti del diritto e dell’economia sono strettamente collegati con il sistema bancario e a nessuno piace perdere lavoro e fonti di sostentamento.

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