venerdì 22 Novembre 2024
E se domani, e sottolineo il se...La storia prima della storia: riflessioni ai tempi del Coronavirus

La storia prima della storia: riflessioni ai tempi del Coronavirus

Qualche mattina fa (era domenica o forse era il primo maggio, non ricordo bene), passeggiavo col cane all’alba, come faccio ormai regolarmente tutti i giorni in questi mesi di lavoro intenso e da casa, ai tempi del Coronavirus alias COVID-19. Eravamo soli in una città deserta, il cane ed io, e i pensieri scorrevano nella mia mente, uno dopo l’altro, come i fotogrammi di una pellicola.

Il tema di fondo dei miei pensieri ruotava intorno a una relazione che vedo, inforcando gli occhiali del paleoantropologo, fra pandemia e globalizzazione. Mi sembra infatti che esista un nesso tra quanti siamo, come viviamo e la diffusione planetaria di un virus tanto insidioso quanto “naturale”. Con dei significativi effetti (non so quanto duraturi) sul nostro modo di vedere noi stessi e la natura di cui siamo (o eravamo) parte.

Tutto ciò ha a che fare con la nostra storia; una storia che bisogna scoprire e raccontare. Conoscere e riconoscersi nella storia, anche la più antica, è al tempo stesso un desiderio e un’opportunità. Rimettere insieme, sulla base di dati scientifici, i fatti del passato e poterli poi narrare soddisfa un bisogno che è di tutti  di ciascuno: un’esigenza individuale, quanto delle comunità umane, piccole o grandi, di popoli interi e dell’intera umanità. Da sempre gli esseri umani sono andati alla ricerca delle proprie origini e se le sono raccontate e tramandate, attraverso miti e leggende.

Ma c’è qualcosa di più e di diverso: non è solo un bisogno. Ci rivolgiamo al passato anche per avere consapevolezza di chi siamo, per comprendere quale sia il nostro posto nella storia e – aggiungo io – il nostro posto nella natura. È una consapevolezza che non guasta; soprattutto oggi che siamo o pensiamo di essere i padroni (incontrollati) del pianeta, nonostante il Coronavirus.

Ma è bene ammettere che dentro di noi c’è sempre quella scimmia bipede che intorno a 2 milioni di anni fa iniziò a diffondersi nel Vecchio Mondo e poi, circa 200 mila anni or sono, da qualche parte in Africa, divenne Homo sapiens e si diffuse ovunque. E qui, pensavo, si apre una questione. Dove comincia davvero la storia?

Per me, che di mestiere faccio il paleoantropologo e dunque mi occupo di preistoria, l’argomento è di indubbio interesse. Proprio di questo parlava pochi anni fa Daniel Lord Smail, in un libro che si intitola (appunto) “Storia profonda. Il cervello umano e l’origine della storia” (Bollati Boringhieri, 2017). Smail ha scritto un saggio che è un manifesto. Il tema è un po’ questo: la paleoantropologia ha spinto le conoscenze molto avanti – cioè molto indietro nel tempo – al punto da stabilire che la storia inizia … prima: molto, molto prima che appaia la scrittura, molto prima dei Sumeri.

Da quando la scimmia bipede cominciò a scheggiare la pietra, a sviluppare un cervello abnorme e una straordinaria socialità, la Terra non è più la stessa. Il libro di Smail è una sorta di manifesto, lo ripeto, per un nuovo modo di intendere la storiografia e, dunque, la storia. Rappresenta anche un’apertura di credito a favore dell’antropologia. Come scriveva negli anni ’60 l’archeologo Glyn Daniel nel libro “L’idea di preistoria” (Sansoni, 1968): “…gli storici stanno impiegando molto tempo per integrare la preistoria nella loro visione dell’umanità”. La preistoria non sono più solo quelle due paginette che troviamo sui libri di scuola, quelle che precedono i capitoli sulle grandi civiltà del passato.

Ma diversi segnali ci dicono ora che qualcosa sta cambiando. Mi accorsi meglio di novità importanti in questa direzione alcuni anni fa, quando mi capitò di sedermi a una tavola rotonda organizzata da un prestigioso ateneo romano. Insieme ad altri specialisti in campi apparentemente molto diversi (un etologo, un filosofo e due giuristi), ero stato invitato a commentare un poderoso trattato di Sergio Ortino dal titolo “La struttura delle rivoluzioni economiche” (Cacucci, 2009). Devo essere sincero: quando il libro mi era arrivato a casa, avevo pensato a un errore postale. Poi, una volta aperto il libro e visti i contenuti, ho capito che il destinatario ero proprio io.

Quelle pagine traboccano di evoluzione umana. Soprattutto i primi capitoli di quel volume sulle rivoluzioni economiche – almeno la metà di un volume di 700 pagine – sono zeppi di citazioni della scienza di cui mi occupo: la paleoantropologia, “la scienza delle nostre origini” (tanto per citare il titolo del pamphlet che con Claudio Tuniz e David Caramelli abbiamo pubblicato per Feltrinelli nel 2013). Ortino infatti si mostra convinto – e io concordo pienamente con lui – che la nostra dimensione naturale e la nostra evoluzione bio-culturale siano essenziali per comprendere le vicende storiche del passato più recente dell’umanità, con le varie rivoluzioni economiche e culturali che lo hanno attraversato, come attraversano il nostro presente, che è già futuro: il futuro dell’informazione globale e delle sfide del mondo contemporaneo, compresa la pandemia da Coronavirus.

Come dargli torto? Circostanze analoghe mi hanno rinforzato in quest’idea, cioè che la nostra storia nel tempo profondo non sia certo una narrazione da tenere all’interno di una comunità scientifica che, su scala mondiale, non supera qualche migliaio di persone. I formidabili risultati che abbiamo raggiunto in paleoantropologia, soprattutto negli ultimi decenni, e i molti altri a cui può arrivare oggi la scienza delle nostre origini devono entrare a far parte delle conoscenze collettive.

È qui che l’antropologia (nel suo senso più ampio) può assumere una piena valenza culturale, sociale e, direi, anche propriamente politica.

Ritengo che questo sia il senso profondo del lavoro che faccio. Noi paleoantropologi passiamo settimane immersi nella terra, con in mano pale, pennelli, bisturi e setacci, poi emergiamo dai quadrati dei nostri scavi nel tempo profondo per ricomparire in laboratori che ormai assomigliano a quelli della polizia scientifica, attrezzati con complessi apparecchi per l’amplificazione e l’analisi di Dna degradato oppure con scanner laser e tomografi per la digitalizzazione di immagini tridimensionali. Infine, passiamo gran parte del nostro tempo davanti a computer sempre più miniaturizzati per analizzare dati, elaborare immagini e, infine, raccontare le storie che siamo riusciti a ricomporre. Sono storie che ci dicono tanto: ad esempio, sulla globalizzazione.

Ci dicono che, a partire da circa due milioni di anni fa, con i più antichi Homo inizia la prima grande diffusione geografica da parte di esseri umani, ancorché primordiali: una diffusione out-of-Africa, come si dice. La documentazione fossile successiva ci racconta infatti che uomini dal cervello relativamente piccolo, ma dalle gambe buone, con in mano manufatti paleolitici davvero elementari, erano ormai usciti dall’originaria culla africana. Li incontriamo quando si sono disseminati in gran parte dell’Africa, ma anche nel Vicino e nel Medio Oriente, fino ai lembi orientali dell’Asia. Poi li vediamo raggiungere le latitudini più settentrionali della Cina e disperdersi verso l’Europa.

Dunque, quasi subito il genere Homo (ben prima di Homo sapiens) si rese protagonista di un’inedita diffusione geografica, tanto da attraversare nell’arco di un numero ragguardevole di generazioni una traiettoria che si sviluppa lungo un asse di oltre 10 mila chilometri. A seguito di una diffusione così vasta e in ambienti differenti, i nostri antenati si differenziarono in varietà geografiche. Da questa variabilità emersero forme umane con storie e destini differenti, compresi i Neanderthal: padroni delle terre a nord del Mediterraneo per molti millenni; compresi noi Homo sapiens: uomini dalle mani divenute molto abili, dal grande cervello globulare e da una mente che brulica di simboli, nuovamente in diffusione dall’Africa a partire da almeno 100 mila anni fa.

Si trattò di migrazioni? Non proprio, meglio precisare. Può apparire una mera questione di termini, ma invece ha una certa importanza. Una riflessione su questo punto ci consente di capire meglio il fenomeno. È vero che in molte narrazioni dell’evoluzione umana – come nei bei libri recenti di Guido Chelazzi, “Inquietudine migratoria” (Carocci, 2016), di Valerio Calzolaio e Telmo Pievani, “Libertà di migrare” (Einaudi, 2016), o di Guido Barbujani, “Il giro del mondo in sei milioni di anni” (Il Mulino, 2018) – si parla di migrazione/i. Si tratta però di una semplificazione. Viene usato il termine più comune e, pertanto, di immediata percezione. Ma può essere fuorviante.

Tecnicamente (e praticamente), il fenomeno che più volte vide fuoriuscire dal continente africano – quasi sempre da lì, in effetti – popolazioni e popolazioni di esseri umani primordiali e poi sempre più “moderni” non dovrebbe essere chiamato migrazione. La parola sarebbe semmai emigrazione; perché in zoologia le migrazioni (senza la “e” davanti) sono quelle di animali che si spostano in modo regolare, periodico (stagionalmente, ad esempio), lungo rotte ben precise. Ma soprattutto, a parte l’assenza di questa “e”, il termine giusto da usare per gli out-of-Africa del passato è un altro: “diffusione/i” o anche, per i palati più fini, “espansione/i di areale”.

Si trattò di fenomeni di spread, come si dice in inglese. È un po’ come immaginare i cerchi concentrici che si formano lanciando un sasso in uno stagno, come una macchia d’olio che si spande sulla tovaglia, come il suono di una campana che si diffonde in tutta la valle. Quella dei primi Homo (a partire da circa 2 milioni di anni fa), quella di Homo sapiens (dopo l’origine della specie, circa 200 mila anni fa), ma anche quella dei primi agricoltori del Neolitico (negli ultimi 10 mila anni) furono diffusioni (spread appunto), non “migrazioni”, con tutte le modalità e i tempi del caso. Possono sembrare emigrazioni perché ne simulano le traiettorie geograficamente possibili, ma non furono certo compiute da popolazioni che si misero in viaggio, dall’Africa verso altrove, magari inseguendo la selvaggina (come talvolta si sente dire).

Furono l’espansione di un’intera specie o parte di essa, con popolazioni che si diffondevano in nuove regioni inesplorate, per colonizzare le quali fu spesso necessario attendere che la selezione naturale facesse il suo corso (nei tempi lunghi medio-lungi della microevoluzione), premiando le varianti genetiche più adatte al nuovo ambiente. È vero d’altra parte che, sottese ai fenomeni di diffusione, ci furono tante emigrazioni su piccole distanze, probabilmente dovute a un successo adattativo e demografico delle singole popolazioni. Ciascun gruppo umano, ciascuna banda di cacciatori-raccoglitori divenuta sufficientemente numerosa, tendeva a frazionarsi e a disperdersi sul territorio. Del tipo: voi rimanete qui, noi andiamo al di là del fiume, oltre la montagna…

Sui grandi numeri, e nella dimensione del tempo profondo, tutti questi episodi hanno assunto le proporzioni di un fenomeno epocale: un fenomeno che è corretto chiamare diffusione o espansione di areale. Così, a partire da un piccolo centro di origine, la nuova umanità di turno e di successo (adattativo, ecologico e demografico) inizia a diffondersi. Quando un gruppo di esseri umani diventa troppo numeroso per le risorse dell’ambiente circostante, esso si fraziona e una parte della comunità originaria si sposta altrove, alla ricerca di territori più favorevoli e più sgombri. Da una piccola popolazione se ne formano due, da due quattro, da quattro otto, da otto sedici e così via. Il fenomeno assume l’aspetto di un’imponente espansione di areale, come sommatoria della combinazione di tante piccole emigrazioni.

Avanti di questo passo, il fenomeno si ripropone un numero di volte tale che nel suo insieme diventa una vera e propria “onda demica” – come piaceva giustamente dire al nostro grande genetista e antropologo Luigi Luca Cavalli Sforza, che ha coniato questa espressione per la diffusione degli agricoltori del Neolitico, utilizzandola ad esempio nel libro scritto a quattro mani con l’archeologo Albert J. Ammerman: “La transizione neolitica e la genetica di popolazioni in Europa” (Bollati Boringhieri, 1986) – ovvero una diffusione di portata prima continentale e poi planetaria. È così che la nuova specie si espande come una macchia d’olio, come il suono delle campane; così hanno sempre fatto le popolazioni in possesso di una nuova strategia o risorsa bio-culturale. È questa la storia (anche) della nostra specie.

Noi Homo sapiens, pur frenati da vari fattori geografici ed ecologici o dalla presenza di altre varietà umane – come i Neanderthal, gli ultimi Homo erectus o i cosiddetti “denisoviani” (quell’umanità arcaica dell’Asia continentale che ci è nota dal 2010 sulla base del DNA estratto da un frammento di falange di dito mignolo) – ci siamo diffusi a un ritmo incalzante. Come ci viene mostrato dai dati archeologici, paleontologici e genetici, la specie compare in Africa sub-sahariana intorno a 200 mila anni fa e le occorre circa la metà di questo tempo per “saturare” il continente e poi “traboccare” in Asia sud-occidentale, in Vicino Oriente. I primi Homo sapiens extra-africani sono stati rinvenuti in grotte dell’attuale territorio di Israele – proprio lì, alle porte dell’Eurasia – e hanno datazioni che oscillano intorno a 100 mila anni fa. Poi tutto avviene ancora più in fretta. La diffusione tende a mantenersi in un primo momento a latitudini basse, tanto che uomini di aspetto e capacità culturali moderne sembrano quasi “scivolare” lungo le coste meridionali dell’Asia. Li osserviamo infatti arrivare in Australia verso i 50-60 mila anni fa, ben prima che in Europa, dove li troviamo intorno a 45 mila anni fa (un dato che è stato confermato da una nuova ricerca, fresca di giornata, pubblicata su Nature in questi giorni, proprio mentre scrivo). Sappiamo anche che gruppi di uomini moderni passano infine dall’Asia nord-orientale alle Americhe, attraversando un ponte di terra dove oggi c’è lo stretto di Bering, 20 mila anni fa o giù di lì.

Nel corso della successiva storia evolutiva della specie, la tecnologia e la cultura hanno costituito il veicolo di una distribuzione geografica cosmopolita e pressoché ubiquitaria, attenuando le pressioni della natura intorno a noi, anche in contesti ambientali estremamente avversi, e favorendo l’adattamento di un’unica specie (le altre a questo punto si sono estinte) ai territori più disparati e abitabili: dalle pianure alle alte montagne, nelle foreste tropicali come nei deserti più aridi, in prossimità dei ghiacciai circumpolari o ingabbiati in affollate metropoli, con tanto di smog e di pericolosi… virus, che ci costringono a girare per la strada con mascherine non propriamente carnascialesche e che, proprio come noi, non conoscono frontiere.

Tuttavia, la capacità che abbiamo avuto di rispondere alle pressioni selettive, utilizzando diverse modalità e strategie di adattamento, sono la chiave del nostro successo, ma anche dell’attuale drammatico livello di sovrappopolazione.

La comparsa della specie moderna del genere Homo segna dunque un momento importante di discontinuità, una sorta di “punto zero” da cui si è originata la diversità biologica e culturale che oggi è sotto i nostri occhi. È come se, con la comparsa di Homo sapiens – un evento piuttosto circoscritto, come fosse un singolo punto nello spazio e nel tempo – si siano combinate e concentrate  tutte le acquisizioni di quella “genealogia di prodigiosa lunghezza” di cui scriveva Charles Darwin nel libro del 1871 “L’origine dell’uomo e la selezione sessuale”, dodici anni dopo “L’origine delle specie”.

Qui si saldano tutte le caratteristiche che abbiamo ereditato dalle origini della vita sulla Terra e poi dai primi metazoi, dai vertebrati, dai mammiferi, dai primati e, non ultime, quelle acquisite nel corso dell’evoluzione umana. Così la nuova specie, portando con sé questo formidabile bagaglio, ha iniziato la sua storia di diffusione e diversificazione. Da questo “punto zero” l’evoluzione ha creato un feedback, quasi un cortocircuito, dove una sola creatura vivente ha nelle sue mani – le mani di un primate – il destino di tutte le altre forme di vita, compresi i virus.

Che sia un circolo vizioso o invece, come speriamo, un circolo virtuoso starà tutto nella nostra capacità di governare noi stessi e di gestire il ruolo determinante, ossia il potere che abbiamo sulla nostra sopravvivenza e sul futuro dell’intero pianeta. La cultura e la diffusione delle conoscenze – penso soprattutto a quelle basate sul metodo scientifico – saranno decisive a questo riguardo, ma il futuro ci appare oggi per molti versi problematico. E non sto pensando (solo) al Coronavirus.

Se, ad esempio, guardiamo al profondo divario che esiste e che aumenta sempre più tra i popoli più ricchi e quelli poveri. Così come se pensiamo alle migliaia, anzi ai milioni, meglio alle centinaia di milioni di migranti che si spostano, anzi dilagano verso di noi – come un bacino idrico che ha rotto la diga di contenimento e colma d’acqua i territori più a valle, travolgendo strade, ponti e centri abitati – cioè nell’unico senso possibile: dai territori dei popoli poveri verso quelli dei ricchi.

Ci possiamo allora domandare: esistono un nesso e una continuità tra l’espansione di areale, le diffusioni geografiche di intere specie che abbiamo imparato a conoscere nel tempo profondo del Paleolitico e queste nuove migrazioni dei tempi brevi della storia contemporanea? Molto meglio di me, rispondono alla domanda Guido Chelazzi, Valerio Calzolaio, Telmo Pievani e Guido Barbujani, attraverso le loro lucide e dettagliate analisi (nei libri che ho già citato), dove passano in rassegna il fenomeno migratorio ben aldilà della preistoria antica, esaminando il fenomeno anche nel corso della preistoria recente e nei diversi periodi storici. E in effetti i punti di contatto sono parecchi.

A me sembra che soprattutto la spinta demografica sia stata un “motore” sempre acceso, ieri come oggi e, ritengo, anche domani. Anche la direzionalità è simile: dalla povertà di risorse verso una maggiore ricchezza di risorse, dal territorio più affollato verso quelli relativamente meno affollati. Così come i primi Homo o i più antichi Homo sapiens si spostavano verso nuove regioni dove praticare più agevolmente la caccia e la raccolta, ora i poveri si spostano dove pensano di poter trovare migliori e più agevoli risorse per la sopravvivenza.

Vedo però anche importanti differenze.

Certamente c’è una questione di numeri. La sovrappopolazione oggi tocca livelli che sono drammaticamente maggiori di quelli precedenti, anche solo pochi decenni o un secolo fa. A spostarsi non sono oggi piccole bande che, crescendo di numero, si frazionano e si diffondono. Qui il livello di guardia è già stato superato da tempo (e di parecchio); non parliamo certo di bande, bensì di un fenomeno che, semmai, assomiglia più a un fiume in piena o a una tracimazione.

Poi ci sono le risorse tecnologiche del terzo millennio, che – sia pure a costo di viaggi disperati e a fronte di devastanti quantità di morti lungo la strada o in mare aperto – rendono il fenomeno molto più rapido e non più transgenerazionale, come era stato solitamente in passato. Qua davvero possiamo usare il termine “emigrazione/i”, visto che a spostarsi sono masse di individui nell’arco di un tempo decisamente inferiore all’aspettativa di vita di ciascuno di loro.

Ma soprattutto, a mio avviso, il fenomeno attuale segna un’inversione di tendenza nei rapporti fra le parti in gioco. Nella preistoria a diffondersi erano i vincenti – quelli più adatti, quelli ecologicamente e demograficamente di successo – oggi invece a diffondersi sono i poveri della Terra, che hanno in dote solo sovrappopolazione e disperazione. In questo, paradossalmente, vedo un aspetto positivo. Se in passato l’effetto di una diffusione dei più “forti” finiva per comportare la marginalizzazione delle popolazioni più “deboli”che incontravano, oggi a governare la scena ci sono, ci devono essere (da parte nostra) due parole-chiave a guidare le nostre azioni: accoglienza e integrazione. Anche perché, alla fine, i più forti sono loro (sic!), tanto che sembra che il Coronavirus li rispetti più di noi…

Questo pensavo, passeggiando con il cane nel silenzio di una città che appariva come deserta, una mattina presto del mese di maggio del 2020.

Una nuova rubrica

Tra i molti dubbi che assillano la mia mente esattamente come la vostra in questi giorni una sola certezza credo di avere: quando torneremo alla vita di tutti i giorni, nulla sarà come prima. Stiamo affrontando una sfida che è riduttivo chiamarla organizzativa, è una sfida filosofica, è la visione del mondo che cambierà e sulla quale ci sarà da costruire il nuovo. “E se domani… e sottolineo “se” è una nuova rubrica che è aperta ai contributi di intellettuali, scienziati, artisti, uomini di cultura di tutta Europa. Seguiteci e mandate le vostre impressioni che pubblicheremo periodicamente con l’intendo di costruire una antologia delle idee.

Giampaolo Sodano

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