lunedì 4 Novembre 2024
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La violenza sugli animali: aspetti criminologici

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Nella comunità scientifica gli animali non vengono ancora percepiti come delle vere vittime, ma piuttosto sono analizzati quasi esclusivamente in chiave diagnostica-predittiva di crimini commessi all’essere umano.

Non è un caso, quindi, che nei report annuali di criminologia, risulta del tutto assente ogni casistica sul maltrattamento animale.

Più sensibile alla tematica pare, invece, il mondo giuridico, che riconosce autonoma tutela e dignità alla specie animale, quale essere senziente in sé considerato.

Sulla base di tali presupposti, pare giunto il momento anche per la criminologia di gettare le basi per un approccio scientifico, in chiave vittimologica, del maltrattamento animale.[1]

Gli animali “sentono” come gli essere umani, provano gioia, amore, rabbia e sofferenza; sentimenti che, se calpestati, fanno di loro delle vittime al pari di quelle umane.

Anche le neuroscienze lo confermano: all’Università di Atlanta è stato condotto uno studio su un gruppo di cani sottoposti a risonanza magnetica funzionale, evidenziando come, sottoponendo gli animali a odori che evocavano determinate esperienze, positive e negative, si nota un’attivazione nel nucleo caudato, ovvero di quella regione del cervello che anche negli umani si attiva durate un coinvolgimento emotivo con altri individui.[2]

Ancora, nel 2015 sulla rivista Science sono stati pubblicati i risultati di uno studio relativo all’incremento della produzione di ossitocina (neurotrasmettitore) nei cani, nel corso del contatto visivo col padrone, proprio come accade nell’uomo in risposta di una piacevole sensazione.

Ebbene, sulla base di tali premesse, sarebbe opportuno che la criminologia iniziasse ad utilizzare i risultati di tali studi per comprendere, in senso più ampio, il fenomeno criminale. Posto che l’azione criminale non è un incontrollabile impulso emotivo, ma un dinamico percorso in cui il criminale scruta e valuta pro e contro della propria condotta, sarebbe utile che gli studi criminologici evidenziassero le numerose motivazioni e le dinamiche che sono alla base del maltrattamento animale e che, nella stragrande maggioranza delle volte, costituiscono la condotta primordiale di quella che sarà poi l’escalation violenta perpetrata in danno di essere umani.

L’agito contro gli animali può essere sorretto da biechi motivi di lucro (si pensi all’illecita commercializzazione di cuccioli provenienti dai Paesi dell’est); oppure da anaffettività e noncuranza (si pensi a coloro che fanno vivere i propri cuccioli in spazi angusti o li lasciano sotto il sole o al gelo in inverno); o a coloro che perpetrano violenze sugli animali per soddisfare deviate pulsioni e spinte psicologiche (è questa la pregressa storia di molti serial killer); infine, un’ultima categoria – purtroppo ben rappresentata nello scenario italiano – collegata alla criminalità organizzata (tipici esempi sono la c.d. pedagogia nera, i combattimenti illegali e le corse clandestine).

Insomma motivazioni assai diverse che sorreggono la condotta di maltrattamento vero gli animali; motivazioni che in chiave criminologica non sono state ancora sufficientemente approfondite.

La loro analisi, invece, appare oggi più che mai doverosa e non più rinviabile, non solo perché maltrattare un animale è reato, ma perché tale comportamento svela, nella stragrande maggioranza dei casi, un indice di predittività di futuri comportamenti violenti verso altri esseri umani.


[1] G. Ponzi, I. Merzgora Betsos, Compendio di criminologia, V edizione, Milano (2008), pp. 547-548: “La vittimologia è definita come la disciplina che studia il crimine dalla parte della vittima con scopi diagnostici, preventivi riparativi e trattamentali del reato e della conseguente vittimizzazione.

[2] Si tratta dello studio condotto nel 2012 dal neuroscienziato Gregory Berns dell’Emory University di Atlanta, pubblicato in un testo dal titolo What it’s like to be a dog. Lo scienziato ha osservato i cervelli di 90 cani mentre reagivano a stimoli legati al cibo e alle coccole dei padroni. L’indagine condotta con l’uso di risonanza magnetica, ha evidenziato che nella maggior parte dei cani la risposta cerebrale ai due stimoli era la stessa; mentre nel 20% dei cani, quella alle coccole era maggiore. Berns ha osservato la parte del cervello chiamata corpo striato ventrale, che si attiva con l’entrata in gioco del sistema di ricompensa, ovvero quel meccanismo, presente anche nel cervello umano responsabile del senso di appagamento legato al cibo e ai rapporti sessuali. Per quanto riguarda l’esecuzione dell’esperimento, ai cani era stato insegnato che dopo aver visto un giocattolo a forma di automobile sarebbero stati coccolati; dopo averne visto uno a forma di cavallo avrebbero ricevuto del cibo; dopo aver visto una spazzola non sarebbe successo nulla. Durante le risonanze magnetiche, Berns e i suoi collaboratori hanno mostrato i giocattoli e la spazzola ai cani e hanno osservato le loro reazioni alla vista dei singoli oggetti (tratto da www.stateofmind.it State of Mind, il giornale delle scienze psicologiche, ultima consultazione 05/01/2019).






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