Affrontare temi esistenziali che da secoli gli uomini si pongono sul mistero della vita, il suo significato e il suo scopo stentano ad essere introdotti in un articolo. Filosofia, teologia, scienza, arti ecc. hanno offerto e continuano ad offrire il loro contributo al pensiero e alla conoscenza nel merito perché, come sosteneva Bobbio, gli esseri umani hanno sempre sentito di essere “immersi nel mistero”.
Eppure, molti di questi interrogativi ci appartengono come non mai. Dono ancora inspiegabile da qualsiasi lato lo si voglia vedere, unico fra tutti, la vita si presenta prepotente ed irripetibile. Riproducendosi nella stessa identica maniera ma dando origine ad esseri dissimili, per una sorta di forza incombente che si è imposta a tutto e a tutti, fino ad arrivare in questo nuovo (per ora) millennio.
Lo dobbiamo forse alla potenza che sovrasta la volontà dell’uomo, una forza che pare non volerlo abbandonare neanche nelle peggiori circostanze. La vita si aggrappa all’uomo come l’uomo ad essa. Le terribili condizioni in cui l’essere umano ha vissuto ed ancora vive in molte zone del nostro pianeta ne è la prova. L’ultimo atto di vita, che precede in un istante la morte, spaventa proprio perché promette e propone un niente sconosciuto che siamo costretti ad accettare inesorabilmente ma non volontariamente. Le religioni hanno cercato parzialmente di supplire e dare una ragione a questo niente.
Anche la teologia ha avuto sempre i suoi problemi a spiegare questo passaggio. Stando a quanto scritto da Vito Mancuso, l’uomo acquista, o forse non gli resta altro, “una consapevolezza del valore immenso della vita propria e altrui attraverso il sacro esperito come sentimento di beatitudine e di salvezza per la benignità della divinità di cui si avverte la clemenza, la misericordia, la vicinanza, la pietà, la compassione, l’amore”.
In attesa di acquisire ulteriori informazioni che giustifichino questa perdita, la natura si è dotata di cicli vitali percorsi da leggi prestabilite e quindi perenni e universali. Così le stagioni, primavera/inverno, così l’uomo, giovinezza/vecchiaia.
Ciononostante spesso l’essere umano sceglie di non accettare o affrontare il mistero che lo avvolge. Sviluppando una personale fragilità-incapacità di difesa contro la profondità del dolore, l’aggressione del male, la visione del niente, alcuni scelgono di sottrarsi alla responsabilità-forza-durezza che comporta il vivere recidendo il secondo cordone, dopo quello ombelicale, che lo tiene unito alla vita. Atto che merita rispetto e che qualcuno ha definito codardo altri eroico.
Entrare nel merito di cosa spinga a tali gesti suicidi, liquidati e definiti inspiegabili, porta a considerare che forse sarebbe bastata una circostanza diversa un attimo prima, per impedirli. La fragilità dell’anima porta come conseguenza spontanea il vacillare della mente. Porre termine alla propria vita nei modi che si scelgono, efferati, traumatici, o assistiti medicalmente che oggi consideriamo un diritto dell’individuo, la società nel suo complesso si muove nel mistero ma agisce nelle regole. Essa ha perciò il dovere di non guardare oltre ed assumersi le responsabilità della partecipazione, condivisione, solidarietà, attenzione, aiuto fra simili utilizzando i sistemi di sostegno politico-organizzativo finalizzati al rispetto della vita.
Anche il caso che in questi ultimi giorni ha riempito le pagine dei giornali della giovane olandese di 17 anni morta per non avere accettato di curarsi pone qualche riflessione ulteriore. E’difficile infatti accettare che una ragazza possa desiderare di abbandonare il suo mondo e le interessanti sollecitazioni che esso propone a quell’età, i suoi affetti, le sue relazioni. Ogni spiegazione data, sia in ambito familiare che governativo e sanitario, lasciano spazio ad altre interpretazioni e molte riflessioni.
Se in questo caso si trattava di un dichiarato male di vivere, di una forma gravissima di depressione con modalità che hanno compromesso tutto l’organismo, in altri casi molti giovani hanno messo fine alla loro esistenza con procedure solo apparentemente diverse.
Ragazzi che non hanno mai manifestato segni apparenti di disagio e con percorsi familiari e scolastici vissuti nella norma. Eppure, questi stessi ragazzi, hanno messo a rischio la propria vita con estrema lucidità attraverso l’uso di giochi-sport estremi o selfie azzardati. Spinti forse da un senso di onnipotenza che esorcizzi la paura, il superamento di un limite inspiegabile da sfidare, essi hanno scelto un modo falsamente eroico di vivere e finire l’esistenza.
Nel caso olandese si è messo in grande luce il male fisico: “anoressia”. Questa patologia, che si manifesta esternamente per una sorta di consunzione corporea, è diventata per molto tempo un “succulento” dato mediatico, trattato erroneamente in modo commendevole e negativo. Nell’altro si tratta di un fenomeno moderno-deteriore chiamato “challenge” o “sfide” in cui si mette a rischio la vita secondo modalità rese pubbliche attraverso foto e video pubblicati sui social. Se ancora nel primo caso l’anoressia riduce il corpo al lumicino spegnendo lentamente la forza della vita, nel secondo è l’adrenalina spinta al massimo in tempi rapidissimi che compie la sua missione. Il fine ultimo, in entrambi i casi, è quello di attirare l’attenzione degli altri su di sé e sulla propria sofferenza. Sia provocandosi la malattia del corpo che mettendolo a rischio immediato. Per loro la dimostrazione di un coraggio scandito da lungo o breve tempo è il senso della vita.
Fruitori delle politiche attuate in ogni campo saranno proprio i giovani e ad essi va riservato un futuro a misura d’uomo più che di macchinari. Anche per questo trovare una risposta ai problemi insiti nei fatti dei suicidi giovanili solo all’interno delle famiglie è restrittivo. Esse stesse sono lo specchio della comunità e i problemi sono a monte.
Anche la comunicazione, se non ricercasse solo sensazionalismo denunciando, creando fenomeni diseducativi con un effetto contagio, avrebbe già compiuto una piccola parte del dovere comune. Proprio nel settore della comunicazione la tecnologia sconvolge quest’equilibrio e il suo uso rischia di divenire pernicioso in un mondo di false informazioni, “fake news”. I fenomeni si autoalimentano se non vengono regolati.
La riflessione conseguente è che nell’era tecnologica, della quale siamo solo all’inizio e di cui non riusciamo a prevederne serenamente i futuri sviluppi, non si può abbandonare la priorità della conservazione della vita e della specie umana, da cui peraltro la tecnologia stessa è figlia.