di Alberto Benzoni
Ieri pomeriggio è morto un mio coinquilino. Secondo il senso comune il classico rompiscatole delle assemblee condominiali: sempre il primo nel contestare cifre e rendiconti, nel verificare la fondatezza degli interventi proposti o delle offerte delle ditte di turno. In questa veste era venuto a trovarmi gonfio di carte e di possibili contestazioni. Gli ho chiesto come intendesse procedere e in che cosa potessi aiutarlo ma non mi ha risposto.
Poi è uscito per la sua solita passeggiata. Arrivato dal tabaccaio è improvvisamente crollato al suolo. Tentativi di rianimazione, arrivi di ambulanze e, a coronare sgradevolmente la vicenda, l’intervento del magistrato con le relativa richiesta di autopsia. Insomma, l’infarto come evento inaspettato, improvviso e quasi ingiustificabile da verificare attentamente nelle sue ragioni.
Per quanto mi riguarda posso testimoniare che il Nostro amico non è morto di infarto ma di quello che una volta si chiamava crepacuore. Nella convinzione, indimostrabile ma fondata, dell’esistenza di un rapporto tra anima e corpo che, a partire dalla lacerazione dolorosa e irrimediabile di quella trascina con sé la fatale distruzione di questo.
Il mio coinquilino aveva cominciato a morire poco meno di trent’anni fa, vittima innocente di quella mostruosità etica e giuridica che si chiama mani pulite. Era, allora, un esemplare autorevole di quella razza estinta, di più dimenticata, che rispondeva al nome di “servitori dello stato”. Altissimo dirigente del ministero dei trasporti e strettissimo collaboratore di ministri socialista ( di cui teneva a ricordare l’onestà e la competenza) era garante degli interessi della collettività nella valutazione della funzionalità dei progetti e della congruità dei relativi costi.
In questa veste ebbe a contrastare, mettendoci la faccia, pretese invereconde dei “costruttori”; fino ad essere denunciato come concessore ( e senza lo straccio di una prova) dal più corruttore tra costoro.
Il resto, ve lo potete immaginare: protagonismo indecente del magistrato di turno, deciso a condannare “a prescindere”, mesi di prigione; per poi essere assolto con formula piena.
Ma il trionfo della giustizia durò poco; perché, a liquidare definitivamente il Nostro, assieme all’èquipe insostituibile di tecnici ed esperti furono, da subito, i berluscones. Fine della storia.
Personalmente ritenevo che questa storia andasse raccontata. Per capire che cosa era successo; per rendere pubblico onore alle sue vittime; e per evitare che queste vicende si ripetessero. Proposi perciò dal mio amico di scriverne sulla nostra rivista, Mondoperaio. Ma non lo fece. Aveva buttato giù quasi mille cartelle; ridurle nello spazio, magari più asettico, di un saggio non era nelle sue corde.
Quello che continuò a fare, anno dopo anno, era di tornare sulle sue vicende non omettendo né un passaggio né un dettaglio né un dato personale.
Per il senso comune, il classico attaccabottoni ridotto alla ripetizione ossessiva delle sue disgrazie. Per chi fosse dotato di un minimo di empatia, il dolore di più la sofferenza soffocante del profeta inascoltato che ripercorre giorno dopo giorno, la distruzione irreparabile del mondo in cui aveva vissuto e in cui aveva creduto.
Alla fine, la morte per crepacuore. Al di là la speranza che la sua anima trovi finalmente la pace.