E’ la giornata giusta per ritrovare la mia terra, le radici, la vita dei campi scandita, da mattina a sera, dalle faccende agricole. E’ un tuffo nel passato dei nonni, nella vecchia casa situata in cima al colle che domina la valle. E’ lì che sono nata nella fredda, nevosa notte di Santo Stefano. Quanto trambusto e quanto via vai dalla grande cucina con il fuoco appena spento e presto riacceso da braccia desiderose di rendersi utili, in una notte che avrebbe segnato i ricordi e i destini di tutti. Non c’era l’ospedale ad ospitare l’ultima nata, con medici ed infermieri che si prodigavano per rendere meno complicato l’ingresso di qualcuno che, con grande anticipo, aveva deciso di far parte del mondo dei grandi. C’era zia Maddalena, piena di esperienza per aver visto nascere figli, i propri e quelli degli altri, vitelli, maiali, pulcini e conigli, assistendo in maniera naturale a nascite che si assomigliano un po’ tutte. C’era nonna Margherita, febbricitante e ansiosa di veder apparire la prima nipote, che impartiva ordini e disposizioni a tutti, svegliati nel cuore della notte e pronti ad accogliere, con generosità e trepidazione, chi si annunciava determinato e senza paura. Il babbo, alle prime avvisaglie, era corso in paese a svegliare ed accompagnare a casa la levatrice, incurante della temperatura scesa sotto lo zero, della neve caduta abbondantemente e che continuava a scendere e del vento freddo che tagliava la faccia. La levatrice, personaggio in quel momento più importante del sindaco e del prete, è arrivata a cose fatte. Si è limitata a controllare il lavoro di zia Maddalena e ad accertarsi che l’ombellico fosse stato ben legato e che la puerpera non avesse complicazioni. Un lavoro svolto dopo tanti disagi, ma per nulla complicato. Continuava a ripetere: “Fossero tutte così le nascite…”.
La piccola pesava appena un chilo e seicento grammi, ma era graziosa e senza imperfezione alcuna, con la faccia grande poco più di una mela, con pochi capelli neri lunghi e il corpicino levigato. E’ stata fasciata con pannolini di bianco lino e cotone. Si è proceduto poi ad avvolgerla con una striscia di stoffa larga circa quindici centimetri e lunga quanta bastava per comprimere il corpo dalle ascelle fino ai piedi. In tempi antichi ai bambini venivano addirittura fasciate anche le braccia. Insomma sembrava una piccola mummia quando fu sistemata nella vecchia culla di castagno, recuperata in fretta e furia dalla soffitta, spolverata e fornita di materassino, incerata, lenzuolino e coperta, un piccolo coltrone confezionato con la lana delle pecore che a quell’ora riposavano nella stalla. Si è temuto per la sua vita. Così piccola ce l’avrebbe fatta a sopravvivere? La parola incubatrice era assente in quel vocabolario. La vita era ancora scandita dal tempo e dalla luna, dal buon senso, dalla Divina Provvidenza e dal rosario di nonna Margherita sempre a portata di mano, pronto a rincuorare e dare sostegno nei momenti difficili. Due bottiglie di acqua calda sarebbero state il rimedio naturale per mantenere calda la temperatura del corpo, per permettere il passaggio non troppo traumatico dal ventre della mamma al freddo della camera da letto. Ci voleva un accorgimento che, in maniera dolce, senza mutamenti repentini, consentisse alla creatura di trovare un posto accogliente nel quale dar fiato ai primi vagiti e al primo contatto con il mondo.
Appresa la notizia i vicini sono accorsi in visita, felici, ma nello stesso tempo preoccupati per la fragilità della piccola Lorena, che già il giorno successivo ha cominciato a dare segni di impazienza, strillando a pieni polmoni. C’è voluto un po’, un paio di giorni, per capire che aveva semplicemente fame e che la mamma non aveva latte. Nonna Margherita ha preparato la prima farinata con farina e zucchero e, trepidante, l’ha avvicinata alla piccola bocca per essere accolta, prima con una smorfia e poi con sempre maggior voracità. Sazia si è acquietata in un beato sonno.
Nonno Carlo ha pensato bene che bisognava correre ai ripari. L’acquisto di una capretta ha risolto la situazione ed ha consentito alla piccola affamata di superare i primi giorni e trascorrere i primi mesi crescendo ed acquistando peso sufficiente a considerarla fuori pericolo. La capra, animale prezioso e prolifico per il latte e la carne che produce, si contenta di brucare prati e pascoli. In realtàmangiava tutte le colture a portata di mano. Un vero pericolo per l’orto. Bisognava preparare un recinto, altrimenti non si sarebbe salvato nulla. E così fu. Alloggiava, di notte, nella stalla delle pecore.
I vicini, dai poderi vicini, si informavano tutti i giorni sull’andamento della situazione o venendo direttamente a far visita oppure dando una voce dai campi confinanti. Ad una decina di giorni dalla nascita, le donne del vicinato sono arrivate cariche di doni per mia madre e per me. Golfini, papaline e calzini di lana fatti ai ferri nelle fredde serate invernali, grembiulini cuciti a macchina, bavaglini di cotone fatti all’uncinetto, ma anche una bella gallina da mettere in pentola per ricavarne dell’ottimo brodo, per ridare forza ed energia alla mamma. Il famoso detto Gallina vecchia fa buon brodo fu, per l’occasione, rispolverato più volte, tant’è che di galline ne arrivarono più di una. Una tazza di brodo avrebbe favorito la montata lattea. Sgrassato con la schiumaiola e con l’aggiunta di un rosso d’uovo, risultava indispensabile nella convalescenza e un bicchiere di vino rosso era considerato d’obbligo per rinvigorire.
Non mancò un chilo di zucchero al quale si aggiunse un pacco d’orzo o dei friabili biscotti preparati e cotti nel forno di casa.
Il peggio era passato, le preoccupazioni lasciate alle spalle, l’avvenire galoppava verso il risveglio della primavera e alle faccende dei campi. La vita in campagna aspettava, con i ritmi e con le giornate mai uguali, intramezzate da feste da abbinare, ogni volta, a piatti caratteristici legati al mutamento e al rincorrersi delle stagioni.