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venerdì 29 Marzo 2024
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A spasso con Eraclito

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Quelli che abbiamo alle spalle sono stati anni difficili della nostra storia. Il crollo del Muro di Berlino e la fine della “guerra fredda” (che comunque avevano assicurato al mondo quarant’anni di pace) hanno sicuramente segnato la fine di un’epoca, e determinato la fine del comunismo. Inoltre la riunificazione delle due Germanie e la crisi dell’Unione Sovietica, che da origine alla creazione di nuovi Stati, hanno avuto una ricaduta sulle relazioni tra gli Stati europei e all’interno di essi.  In Italia la liquidazione per via giudiziaria dei partiti che hanno fondato la Repubblica, l’emarginazione di gran parte della classe dirigente, la svendita del grande patrimonio industriale, l’interferenza delle grandi potenze e delle multinazionali finanziarie, la crisi delle ideologie e delle culture del ‘900 hanno creato un vuoto nella società, tanto improvviso quanto straordinario, e un indebolimento delle sue istituzioni.

Sovvertendo le regole dell’equilibrio dei poteri, come previsti dalla Carta Costituzionale, la magistratura ha occupato un posto centrale nel Sistema democratico mentre i partiti sopravvissuti alla stagione giustizialista mutavano la propria immagine tradizionale mentre nascevano movimenti che cercavano di creare nuove identità politiche. I cittadini vivevano l’illusione che il rifiuto della politica fosse la risposta al loro malessere mentre entravano inconsapevoli nel nuovo universo digitale in cui social e rete sembravano essere gli strumenti di una nuova democrazia.

Tutto ciò ha fatto pensare che il vuoto che si era creato nella nostra società alla fine del secolo scorso fosse colmato e che fosse a portata di mano una nuova stagione del miracolo economico in cui “ricostruire” quanto si era distrutto.

La lunga recessione iniziata nel 2007 non è stata soltanto un fenomeno economico e la pandemia non è solo una emergenza sanitaria, ma anche eventi vissuti dalla nostra comunità in uno stato di recessione culturale. L’opinione pubblica ha manifestato uno spaesamento figlio della perdita di radici: è prevalso il convincimento che si possa fare a meno della tradizione e del passato, ma la negazione della memoria ha generato un’onda devastante desertificazione culturale e per riflesso politica.

Non è un caso se da decenni l’Italia è un Paese privo di una vera classe dirigente: il ceto politico che siede in Parlamento è in buona parte anche il risultato della crisi culturale. Per la stessa ragione gli industriali non riescono a guardare al di là del proprio immediato interesse.

Non è un caso se il mercato dei beni di consumo ha subito un generale decadimento di qualità: la rete ha innescato un processo che ha messo in discussione il primato del mediatore culturale minando alla radice il valore delle elite, intellettuali e politiche, “creando” un nuovo consumatore, un attore convinto di “interpretare” un ruolo da protagonista nella scelta del prodotto e in grado di fornire egli stesso le informazioni e i “consigli per l’acquisto” dei beni che rispondono alla “attualità culturale” dei suoi follower. I social, strumenti di comunicazione e diffusione di questo modo di vedere sono diventati parte integrante dei piani aziendali di marketing, dalla tecnologia al food: così piccoli e grandi brand “collaborano” con i volti noti (gli influencer) e le vendite crescono.

In definitiva si alimenta l’illusione che il potere di “fare il mercato” si sia trasferito da chi produce agli influecer; nella realtà sta cambiando il mercato, ma non il destinatario del profitto. Il motore è stato il computer; internet ha aperto l’era digitale, cui è seguita una nuova Torre di Babele dove tutto è vero o verosimile. La perdita della memoria ha generato I mostri.

Forse è necessario ripartire dalla ipotesi di Carlo Ginzburg: “Per capire il presente dobbiamo imparare a guardarlo di sbieco. Dobbiamo imparare a guardare il presente a distanza, attraverso un cannocchiale rovesciato. Alla fine l’attualità emergerà di nuovo, ma in un contesto diverso, rovesciato”.

Cosa sta accadendo, ad esempio, nel mondo dell’industria culturale? Sotto i nostri occhi qualche settimana fa un’antica e importante testata giornalistica, “la gazzetta del mezzogiorno” ha cessato le pubblicazioni. Tanta parte dell’editoria scolastica italiana è nelle mani di un paio di editori statunitensi. Il mercato televisivo è invaso dai canali made in USA e il cinema si concentra ogni giorno che passa nelle mani dei nuovi padroni: durante la pandemia due grandi aziende come Netflix e Amazon hanno deciso di approfittare delle difficoltà del settore cinematografico per espandere il loro giro d’affari. Il 26 maggio Amazon ha annunciato che avrebbe rilevato gli Mgm Studios, mentre la AT&T aveva già rilevato la Time Warner (e quindi la Warner Bros e la Hbo) e nello stesso anno c’era stata la fusione tra la Cbs e la Viacom. Poi, nel 2018, la Disney aveva acquistato la 21st Century Fox eliminando di fatto una sua grande concorrente dopo aver acquisito la Marvel e la Lucasfilm, inglobando il secondo pilastro, in termini di diritti cinematografici, ciò che le permette di dominare i botteghini in tutto il mondo. Mentre nel 2009 la Comcast (è la padrona di SKY Italia) aveva già rilevato la NbcUniversal.

Non bisogna dimenticare che l’industria cinematografica ha cambiato l’intera storia umana; è un ciclo industriale che lavora in permanenza alla costruzione del senso della vita costruendo il con- senso politico necessario. Un’industria che rompe i millenari rapporti di costruzione etico-morale delle società ed entra in diretta concorrenza con le strutture culturali e religiose dei territori che invade. “l’industria di senso è una modalità industriale di produzione del senso della vita alla quale partecipa a vario titolo l’intera struttura sociale – ha scritto Sergio Bellucci nel suo “l’industria dei sensi” – è un’attività che mira a cambiamenti omeopatici, impercettibili e affidati alle micro decisioni quotidiane che il più delle volte trovano il loro punto di sintesi sulla scelta compiuta allo scaffale del supermercato o nelle passeggiate nei centri commerciali e passa per l’immaginazione del modello di vita a cui si ispira”.

Questi eventi ci mettono di fronte ad una realtà che, come è evidente, non può essere governata dalle istituzioni politiche attuali, nazionali o sovranazionali che siano. Davanti alla potenza delle nuove forme del capitalismo finanziario, che attivano questi processi di concentrazione industrial rispetto ai quali la vecchia politica mostra tutta la sua inadeguatezza.

Urgono novità, occorrono nuove istituzioni e nuovi poteri, nuove forme politiche da sperimentare: nessuno oggi saprebbe dire se è preferibile una repubblica dei partiti o una repubblica di tecnocrati politicamente responsabili. La nostra vita è a un bivio: usiamo ancora una volta la nostra capacità di essere un fattore di evoluzione e di crescita, consapevoli che corriamo il rischio di sprofondare: “se si affermasse la nuova struttura dell’ industria dei sensi, dice Bellucci, il processo di omologazione del pianeta alle logiche del mercato farebbe un passo decisivo nell’idea di “terraformattazione capitalistica” della vita del pianeta”.

“Non rivendichiamo nessuna neutralità, affermano nel loro Appello gli organizzatori, rispetto alle storie politiche del passato, ma ci sentiamo e siamo assolutamente sia di parte sia generali. Abbiamo bisogno di avere la percezione delle radici antiche che hanno i processi di lotta per la liberazione umana, ma allo stesso tempo abbiamo la necessità di una nuova pianta e di nuovi frutti.  Non esistono ricette da copiare dagli scaffali”. Anche perché quando si rivendicano storie politiche del passato o le radici delle lotte di liberazione, non si possono dimenticare errori tragici e ideologiche illusioni che hanno portato la sinistra politica del ‘900 sull’orlo dell’estinzione. Si dovrà evitare una narrazione nostalgica di ciò che c’era, o di quanto si tenta di recuperare, non è più tempo di discettare di rivoluzione e di riforme: occorre invece fissare principi  e valori, coniugando memoria e visione, a cui uniformare una continua azione politica che valga  a salvaguardarli nella continua evoluzione dello scenario tecnologico, finanziario e industriale. L’unico modo per dare un senso forte alla transizione.

L’APPELLO

“Si può prevedere tutto tranne il futuro”, ha scritto Oscar Wilde, ma si può progettare per costruirlo migliore del presente.

Quando si dà vita ad un progetto o si lancia un appello la prima domanda che si pone è “a chi è destinato”: questo vale anche quando dal sito di un giornale online si invitano i lettori a partecipare ad un dibattito oppure quando una associazione culturale si rivolge ai propri associati (e ai possibili nuovi) perché si facciano sostenitori delle sue ragioni.

La seconda domanda è “a cosa serve”, perché è necessario realizzare quello specifico progetto, cosa può aggiungere a tutto quello che già si conosce di un popolo o di una cultura che hanno una lunga storia.

Nell’appello lanciato anche dalle pagine di Moondo si afferma che il progetto ha lo scopo di attraversare la fase di Transizione con l’obiettivo di portarci “da un modo di produzione ad un altro.” e si propone di fare questo percorso con la consapevolezza che non c’è nulla da “ricostruire”. Quindi il problema non è quello di conservare l’eredità, ma di creare nuova cultura.

Digitale è oggi l’ambiente in cui una parte importante della nostra vita svolge le proprie relazioni. Lo schema logico è: l’economia muove verso una economia della conoscenza  significa che il sapere produce valore economico sia quando produce oggetti sia quando produce beni immateriali. Questa transizione economica impatta con la rivoluzione digitale: esse non sono conseguenti, ma due momenti diversi. La conseguenza è che il digitale è l’occasione ineliminabile per posizionare un progetto politico all’interno del nuovo paradigma economico e sociale in posizione avanzata. È dunque necessario intendere l’ambiente digitale non come fosse uno spazio riservato all’applicazione e all’uso di oggetti e strumenti tecnologici, ma come lo spazio della transizione in cui fare il percorso verso un nuovo senso del vivere comune. L’ambiente digitale non va confuso banalmente con la comunicazione on line: digitalizzare non significa mettere in rete (quella è un’altra cosa), ma penetrare nella dinamica dei fatti e renderla fruibile. Gli strumenti sono gli stessi che hanno consentito l’evoluzione del genere umano: confronto, spirito critico, conflitto, capacità di astrazione, pensiero, conoscenza, consenso. Pòlemos per dirla con Eraclito, ci ha ricordato Aldo Di Russo, è il contrario di un talk show: la polemica (il dialogo, il confronto) è un modo per sviluppare un ragionamento intorno alla realtà.

Il complesso e articolato processo che chiamiamo per semplicità “digitalizzazione”, è il contrario del trasferimento forzato del mondo analogico in altra sede. Non può essere confuso con un “trasloco”. Un ambiente che fosse fatto di cloni e fotocopie digitali, diventerebbe la resa della più grande rivoluzione che la mente umana abbia concepito: equivarrebbe a costruire un nuovo mondo, ma poi non saperlo abitare. La letteratura del settore è piena di questi errori oggi evidenti soprattutto nel mondo della cultura. Un museo che esponesse in rete le sue stanze clone di quelle fisiche, ha pubblicato sè stesso, ma non è un museo digitale: è un museo che ha traslocato. Ogni percorso online che sia uguale a quello fisico è un errore concettuale.

Quando si cerca di forzare dentro l’ambiente digitale l’interpretazione analogica si crea un doppione. Digitale e statico non si declinano mai. Facciamo un esempio: Cinema, Teatro, Musica, Arte, Scienza, Tecnologia sono camere stagne, almeno apparentemente, mentre l’innovazione, che definiamo tecnologica, in realtà vive, prospera e si riproduce nella intersezione e sovrapposizione delle categorie di riferimento.

La digitalizzazione ha bisogno di questi interstizi per vivere, sono il luogo delle energie inespresse, della transizione verso una cultura utile e necessaria allo sviluppo. Il futuro di essa è il “pensare digitale”, il suo nemico è la fossilizzazione delle abitudini, il rifiuto di una dinamica della formazione, la disabitudine alla ricerca come metodo di indagine. La digitalizzazione è il superamento della “zona comfort”.

Cambiare significa scoprire, ma significa anche selezionare quello da lasciare indietro non essendo più in grado di fornire spunti, energia, dinamica. Così funziona il nostro cervello e su questo nessuno può farci nulla. La conoscenza non è accumulazione, ma selezione. Le scienze cognitive dimostrano come l’apparato razionale e quello emotivo si supportano a vicenda e non sono camere separate. E Bellucci aggiunge: “I territori del digitale, pur potenti e dirompenti, possono essere molto “porosi” e consentire “vie di uscita” dagli schemi che le vecchie forme della produzione non consentivano. Proprio il livello di conoscenza raggiunta dall’umanità consente oggi di riprogettare le forme e l’impatto della vita umana“. Quando la conoscenza diventa fattore di sviluppo, fonte di valore, la domanda diventa come ridistribuire questo valore.

La pandemia ci ha drammaticamente messo di fronte ad una necessità di accelerazione per abbattere l’ignoranza e la mediocrità, come freno allo sviluppo della comunità, come freno alla disgregazione. Occorre tornare alla idea di persona ed alla convivenza all’interno di un pianeta che possa continuare ad ospitarci. La digitalizzazione è una occasione che non si può perdere: “Ma serve teoria nuova e pratiche di nuova generazione. Non è più possibile aspettare. Il cambio è divenuto obbligato per la stessa nostra sopravvivenza!” così recita l’Appello per l’incontro di settembre. 

Abbiamo vissuto sia fallimenti che successi. Ogni volta che ci sembra di ottenere una vittoria il campo di battaglia si sposta, c’è una nuova epidemia, un nuovo virus, un nuovo enigma. Ma non inganniamo su quale sia la vera forza motrice che porta all’emergere di nuovi virus: la causa è la nostra specie.  Questi microbi non si appostano in angoli bui in attesa di avventarsi su di noi, siamo noi che interferiamo con il loro habitat, non il contrario.  Se lasciati a sè stessi essi conducono la loro vita spesso in equilibrio biologico con i loro ospiti naturali.  E’ solo quando l’uomo invade il loro ambiente che ne diventa preda.  L’umanità non costituisce in alcun modo la preda di un virus, per la sua sopravvivenza l’essere umano non è necessario. Al contrario noi siamo ospiti finali, quando moriamo il virus muore con noi.”

Con le loro ricerche Joseph McCormick e Susan Fisher-Hoch, due cacciatori di virus, hanno messo in evidenza fin dalla fine del secolo scorso, che la questione delle malattie dovute ai virus non possono essere considerate esclusivamente in ambito medico e scientifico: “dobbiamo prendere in considerazione anche aspetti sociali quali la sovrappopolazione, la povertà e l’urbanizzazione incontrollata, tutti i fattori che influiscono notevolmente sull’habitat dei virus. Nel mondo dei virus gli intrusi siamo noi”, hanno scritto nel loro “Level 4. Virus Hunters of the CDC” (Turner Publishing,Inc.1996).

Aver trovato in poco tempo un vaccino contro il Covid-19 testimonia i grandi successi che l’umanità sta ottenendo in molti settori, primo fra tutti il progresso scientifico. Tuttavia non possiamo pensare che la pandemia sia fuori dal nostro orizzonte fino a quando non saranno abbattuti i mostri che popolano il pianeta: la malnutrizione, l’inquinamento, l’analfabetismo, il degrado ambientale, la povertà: fattori principali delle malattie infettive virali. Ma non vi può essere alcun dubbio che sollevare l’umanità dalle sofferenze di centinaia di milioni di persone richiede un definitivo superamento del “sistema” che ha “governato” il mondo fino ad oggi. Siamo davanti ad un crocevia: tornare sui nostri passi impauriti dal nuovo che avanza oppure intraprendere con coraggio il passaggio della transizione ad un nuovo sistema. “L’avvento del digitale rappresenta una biforcazione: su quale strada ci indirizzeremo dipenderà dalle idee e dalla forza e dalla consapevolezza dei gruppi dirigenti umani che governeranno il passaggio”.  Le nuove regole, le nuove leggi possono creare condizioni senza precedenti di supporto politico e finanziario, e soprattutto una visione coerente, per curare i mali del mondo. Ma potrebbe non bastare, ci avverte Sergio Bellucci: “c’è bisogno di teoria, di analisi critiche all’altezza, di proposta politica che sappia indicare una strada qui ed ora. Ancora pochi anni e la Transizione potrebbe generare una nuova classe al comando e nuove forme decisionali, nuove istituzioni, nuove leggi che stabilizzeranno la loro nuova egemonia.” ( AI – Work la digitalizzazione del lavoro – jaca book 2021)

LA TRANSIZIONE

Quando nel 2007 fallì la Lehman-Brothers nessuno previde una crisi lunga e difficile come quella che abbiamo vissuto e di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze. Siamo appena riusciti ad assaporare il gusto di una salvifica ripresa e subito è arrivata la delusione di una economia lenta, bloccata sul nascere da una pandemia devastante. Impegnati a fare i conti per mettere insieme il pranzo con la cena e salvare la pelle nella guerra al virus non ci siamo resi conto che intorno a noi il mondo stava cambiando.

Il nostro è un tempo nuovo, ma la novità non è la transizione ma quello che accade durante la transizione.

Siamo a un tornante della storia: la globalizzazione che sembrava irreversibile è in stand-by e il commercio mondiale rallenta. Siamo entrati nell’epoca della slow economy. Il nuovo petrolio sono i big data origine e matrice di colossali squilibri sistemici: è noto il valore strategico, militare e geopolitico di questi beni.

La nuova guerra fredda si differenzia dalla precedente per il fatto che al posto dell’ Occidente ci sono gli USA e al posto dell’URSS c’è la Cina e per il fatto che la contrapposizione non è ideologica ma per il primato economico globale. La prevalenza dell’una o dell’altra parte sarà la prevalenza della vecchia democrazia liberale o del nuovo autoritarismo digitale.

L’uomo nuovo: “è quello che non consuma per esistere ma che esiste per consumare e vive comunque una vita che si comprime o si estende principalmente in base all’andamento del prodotto interno lordo o dell’export o dei tassi di interesse o di cambio”(Tremonti). L’uomo nuovo è l’uomo schedato la cui mutazione è mutazione della forma mentis: la lettura è sempre meno profonda e comincia ad emergere la clausura del pensiero. Il lavoro salariato muta in implicito mentre dell’immensa schiera evocata da bandiera rossa non si ha più notizia sostituita dalla schiera dei disoccupati attuali e futuri.

Nel mondo digitale vale soprattutto un categorico digito ergo sum, che tradotto nel linguaggio politico è uno vale uno. Ognuno comunica ma non è informazione e tanto meno conoscenza. (Ma la rete si è rivelata utile per promuovere forme nuove di aggregazione).

La transizione: nuovo potere (le piattaforme) e nuovo valore (informazione, conoscenza e comunicazione). Immaginare il futuro non è un gioco di fantasia, ma un modo per analizzare i fenomeni, per capire i flussi della società, in definitiva un esercizio per affrontare il presente.

Il PROGETTO DI SETTEMBRE

Nella Transizione le associazioni devono essere produttori di politica, cultura e civiltà: le forme dell’arte e le tecniche di comunicazione vanno utilizzati per raccontarsi, e questo vale soprattutto per l’azione politica, sempre a rischio di propaganda. La digitalizzazione con una strategia alle spalle diventa un vettore di marketing politico di grande potenza. Ma, allo stesso tempo, non dobbiamo dimenticare che nell’ambiente digitale l’utente della rete non è soltanto guidato verso i consumi o altro ma è anche orientato nell’espressione del suo voto politico.  Una volta l’elettore aveva giornali, radio, televisione e poi i sondaggi.  Oggi ha la rete che conta più dei media e dei sondaggi e chi ha una piattaforma sulla rete può fare e cambiare il voto. Al tempo del digitale la democrazia è a rischio.

Occorre costruire un luogo che abbia un “genius loci”: il dialogo.

Un luogo di incontro, di “incrocio”, dove si possa staccare l’occhio dal proprio io/noi e affrontare con lo sguardo più ampio il mondo che sta cambiando.

E promuovere un “Forum”.

È necessario sottolineare che questo luogo non deve in alcun modo essere una nuova struttura associativa che si sovrappone e/o si affianca alle associazioni nè tanto meno essere uno spazio di aggregazione degli scontenti. E’ il luogo aperto agli intellettuali che hanno voglia di confrontarsi con la costruzione (o ricostruzione) di una cultura che sostenga lo spirito critico, la verifica dei dati sensibili in modo indipendente.

Questo luogo manca, manca un luogo per esprimere le idee e manca il luogo del dialogo.

La cultura come laboratorio di idee, l’artigianalità come tradizione e creatività, l’imprenditoria come stimolo all’innovazione, il Progetto come servizio alla comunità, come messaggio di una migliore qualità della vita. Nella libertà si possono sviluppare integrazioni ben più significative e durature di quelle prodotte dall’appartenenza politica.

Occorre aprire un dialogo, nelle forme opportune, con quelle esperienze del mondo dell’università che ad oggi, sia pure orientate alla collaborazione con i protagonisti della vita politica, non hanno trovato nei Partiti una sede di confronto. E lo stesso discorso vale per quei soggetti imprenditoriali e per quelle organizzazioni dei manager disponibili ad un impegno nella ricerca di un nuovo modo di produrre.

È necessario un approccjo, senza vincoli di appartenenza, con Parlamentari e amministratori locali privi di identità politica ma interessati a dare il proprio contributo alla definizione di un nuovo pensiero e a farsene rappresentanti nelle istituzioni come logica conseguenza di una adesione convinta e non formale.

Quella che si prospetta è una chiamata a raccolta di quanti, capaci di coniugare cultura e creatività, tradizione e innovazione rappresentano l’avanguardia di quella comunità che è il “popolo” dei giovani e dei consumatori che possono riconoscersi negli obiettivi che l’appello propone.

Il nostro “luogo” deve essere la sede naturale di questa avanguardia, deve sostenerla, comprenderla, costruire obiettivi comuni attraverso il dialogo, il confronto, senza che prevalga la logica conservativa delle rendite di posizione tipiche di Associazioni, Movimenti e Partiti, un luogo di partecipazione al quale si possa accedere e dal quale si possa retrocedere senza che ciò impegni nessuno al di là delle occasioni di confronto e lavoro comune.

Un Progetto fatto sulla base della inscindibilità tra Politica, Cultura e Civiltà.

E’ necessario produrre idee nuove e promuovere un dibattito pubblico per far crescere l’opinione contro la “mediocrazia” (Alain Deneault – La Mediocrazia, Edizione Neri Pozza Colibrì 2017) e capace di rivendicare la conoscenza come un diritto di tutti.

Ma anche il diritto a governare soltanto di chi sa.

Praticare tutto questo abbandonando vecchie certezze e consumati pregiudizi usando l’aggettivo “nuovo” non per nascondere vecchie politiche ma per cambiare le regole. L’esperienza ci dice che un mercato senza regole può determinare le crisi, ma sappiamo anche che una società con regole sbagliate è un sicuro disastro.

E torniamo alla premessa del nostro discorso: la Politica.

“L’eclissi della politica è cominciata da quando essa ha omesso di confrontarsi con le trasformazioni che ne hanno svuotato categorie e concetti accade così che paradigmi genuinamente politici vadano ora cercati in esperienze fenomeni che di solito non sono considerati politici: la vita naturale degli uomini, il linguaggio come luogo politico per eccellenza oggetto di una contesa e di una manipolazione senza precedenti. La sfera dei mezzi puri o dei gesti ossia dei mezzi che pur restando tali si emancipano dalla loro relazione a un fine”. (Giorgio Agamben – mezzi senza fine, bollati boringhieri 1996)

PS. Il senatore Matteo Renzi ha determinato la crisi del governo Conte consentendo così al Presidente Mattarella di nominare capo del Governo Mario Draghi con il compito di fronteggiare l’emergenza pandemica e gestire il Recovery found per evitare il default dello Stato italiano. In questo contesto dobbiamo dedicarci alla analisi delle condizioni per attraversare la fase di Transizione alla ricerca delle soluzioni per il dopo. Ciò è reso necessario dal persistere nell’Italia profonda di una sorda opposizione alla politica e un diffuso malessere che affonda le sue radici in una condizione strutturale. Mentre è possibile intravedere come sarà il nuovo modo di produzione non c’è nulla che indichi, in quel presumibile scenario, che fine farà chi ci lavora e quelli che ne risulteranno esclusi.

Transizione è un processo: designa il passaggio da un vecchio ordinamento politico economico e sociale, divenuto anacronistico, ad uno nuovo ancora non definito.  Il vecchio ordinamento  è entrato irrimediabilmente in crisi, ma partiti e Parlamento non sono stati, e non sono, in grado di rinnovarlo. In assenza di ogni decisione, si va affermando una Costituzione non scritta che vede un cancellierato alla tedesca con un forte potere centrale del Governo bilanciato non piu’ dal Parlamento ma dai poteri dei corpi territoriali intermedi (la conferenza Stato-Regioni). In una recente intervista Sabino Cassese, a scanzo di tentazioni emergenti, ha escluso la possibilità di una trasformazione della Repubblica da parlamentare a presidenziale, come taluni ritengono guardando alla moral suasion del Presidente Mattarella. E’ possibile proseguire su questa strada? Dobbiamo affrontare i problemi della Transizione sapendo, per esperienza del passato, che i comunisti sono stati la parte politica che più di ogni altra ha resistito alle politiche riformiste perchè questo consentiva loro di essere partito di lotta (che contestava sulle piazze) e partito di governo (per fare le riforme contro cui protestava). Il rifiuto di un nuovo processo costituente è un problema che non può essere eluso così come quello delle vecchie forme economiche e delle sue strutture produttive superate dal processo di globalizzazione e digitalizzazione. A chi compete la progettualità di una nuova antropologia capace di dare forma ad un nuovo modello di società? Certamente non ha un solo Gruppo e non soltanto alla politica: è necessario attivare un processo di sinergia e di sintesi (una “Rete della Transizione”) che, tenendo conto sia del patrimonio politico del passato, sia dei mutamenti intervenuti nella composizione e nella domanda dei gruppi sociali, sappia disegnare un modello nuovo di organizzazione dell’economia e della politica. “Serve teoria nuova e pratiche di nuova generazione. Non è più possibile aspettare. Il cambio è divenuto obbligato per la stessa nostra sopravvivenza!” 






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