venerdì 22 Novembre 2024
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Abbiamo il dovere di “modellare” il nuovo mondo digitale? Perchè?

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Solo qualche settimana fa, in questo stesso luogo, si prendeva spunto dallo “streaming”, che è ormai diventato un nostro compagno di viaggio quotidiano, per fare alcune riflessioni sul mondo della digitalizzazione.

Si accennava al digitale come ambiente in cui una parte importante della nostra vita svolge le propri relazioni, andando incontro a possibilità nuove e inesplorate. Era un modo per aprire un confronto su uno dei temi centrali in tutti i paesi del mondo e un tema chiave per comprendere come si dislocheranno i nuovi modi della produzione di beni materiali e immateriali conseguenti ad una accumulazione di conoscenza che l’uomo mai aveva visto a questi livelli.

Un momento cruciale nella transizione verso un nuovo paradigma socio economico, verso una visione della economia che mi auguro includa la crescita culturale come parte del benessere di chi viva e frequenti l’ambiente digitale, troppo spesso ancora reso suddito dell’impero della conoscenza altrui. Detta in altri termini, si tratta di una opportunità di ridistribuire risorse, la cultura è una risorsa, e poter dare una svolta alla coabitazione della civiltà umana sul pianeta terra. Vi pare troppo? A me francamente no, perché la concatenazione degli eventi a cui stiamo assistendo rischia di puntare al disastro.

Nell’articolo precedente dicevamo che l’ambiente digitale non va concepito come la semplice applicazione di una tecnologia, e nemmeno come un ripiego dovuto al Covid che limita i nostri spostamenti ed i nostri incontri, ma come una opportunità di gestione del percorso verso un nuovo senso al vivere in comune. Abbiamo il dovere di modellare questo nuovo ambiente ricavandone esperienze estetiche e sostenibilità sorgenti di comportamenti  nella realtà della vita quotidiana, una nuova etica del vivere civile. Conoscenze e tecnologie devono essere a supporto della articolazione di linguaggi, ancora sconosciuti nelle forme, ma che siano efficaci per la costruzione di saperi in grado di forgiare competenze al servizio dell’uomo come persona. Gli utensili sono noti, sono gli stessi che hanno consentito l’evoluzione del genere umano: confronto, spirito critico, conflitto, capacità di astrazione, pensiero, conoscenza. Su questi occorre puntare per una strategia di digitalizzazione che porti frutti saporiti.

Il complesso e articolato processo che chiamiamo per semplicità “digitalizzazione”, è il contrario del trasferimento forzato del mondo analogico in altra sede, non può essere confuso con un “trasloco” da un ambiente ad un altro degli stessi mobili e delle stesse suppellettili. Un ambiente che fosse fatto di cloni e fotocopie digitali, diventerebbe la resa della più grande rivoluzione che la mente umana abbia concepito: saper costruire un nuovo mondo, ma poi non saperlo abitare. Significherebbe abdicare alla possibilità di espansione della nostra stessa capacità di percezione da ricollocare nel mondo reale come capacità acquisita per una efficienza della comunità civile. Questo vale in generale per una organizzazione, per un servizio, ma a maggior ragione vale nel dominio della cultura.

Occorre essere capaci di ricostruire intorno a principi e valori consolidati una diversa rappresentazione emotiva, di cui la vita di un territorio, possa poi avvantaggiarsi come ecosistema sostenibile e protetto e in cui si possa abitare fruendo i vantaggi di una osmosi continua tra i due mondi. Occorre partecipazione e condivisione, occorre uno sforzo di creatività affinché la transizione ricostruisca i valori perduti e i comportamenti consoni alla civiltà degli uomini globalizzati. Digitalizzare è un salto etico-critico, è scrivere una filosofia prima che qualcuno imponga modelli coercitivi utilizzando ragioni precostituite e facendo accettare, da cittadini sudditi inermi e a volte complici, il manuale di istruzioni per l’uso alla vita che è in genere incluso in ogni nuova tecnologia e in ogni rastrellamento di consenso.

In questi giorni, TheaterkOmpass, una piattaforma di riflessione sui linguaggi e le strategia del teatro e della danza in Germania, Austria e Svizzera, pubblica una serie di pensieri e proposte assolutamente condivisibili; in più, costruisce una rete di relazioni e di saperi che lascia intravedere una prassi di ricerca e di sviluppo di soluzioni digitali originali nel campo teatrale e delle performing arts. Una iniziativa da seguire con attenzione, perchè individua l’ambiente digitale come un luogo autonomo da quello reale, e assolutamente non alternativo, anzi, il luogo di una visione strategica diversa di una forma comunicativa autonoma. Un luogo di sperimentazione dove, discipline separate nella vita reale possono convergere e creare innovazione proprio utilizzando gli spazi di sovrapposizione tra saperi, ricerca, per generare senso riconvertibile in benessere e forza immaginativa. A volte forme di relazione difficili nella vita sono efficacissime nel mondo digitale. Sono forme inesplorate di sviluppo del territorio la cui articolazione potrà diventare un buster economico.

Avanzati o arretrati si diventa in funzione di come si riscrive la strategia di digitalizzazione di un settore e non in funzione di quali tecnologie si scelgono, questo deve essere chiaro dal principio.

L’articolo di cui parlo lo trovate a questo link. Il suo punto di partenza è la necessità impellente di plasmare attivamente la trasformazione digitale con i mezzi dell’arte e… estendere lo spazio scenico fisico nel digitale sperimentando forme di collaborazione che prima d’ora nessuno avrebbe mai pensato di poter immaginare. Il primo aspetto che mi piace sottolineare, è che gli autori individuano i mezzi e i metodi dell’arte come capaci di plasmare la transizione verso un ecosistema che incrementi esperienze cognitive; in sostanza: implementare un medium nuovo per accrescere la forza di quello tradizionale, e non per sostituirlo. Direte voi che si tratta di teatro e quindi è logico che sia l’arte la guida di principio, vale per loro, ma non per tutti. Potrebbe non essere così. L’arte costruisce una meravigliosa rappresentazione della contemporaneità, e il teatro, che nel mondo digitale trovasse forme diverse, potrebbe conservare quella “energia di reiterazione” che George Stainer attribuiva ai grandi autori della Grecia Classica. Un mezzo in grado di trasferire ad un pubblico più vasto possibile tutte le emozioni, le analogie, i valori, che rinnovino il percepire tradizionale e forniscano un punto di vista inesplorato per interpretare la dinamica della realtà.

Io sostengo da anni che l’arte e la scienza contengono metodi e strumenti rivoluzionari in grado di aprire la nostra mente a saperi non immaginabili e inaspettati. Vorrei provare a seguire un ragionamento in questo senso cominciando con la forza dell’arte come interprete dei conflitti delle civiltà.

Se nel mondo in cui viviamo, dove percepiamo la realtà che ci circonda, abbiamo tradizionalmente catalogato l’arte come antica, medievale, rinascimentale, moderna, contemporanea, oppure come egizia, greca, romana, fiorentina o nordeuropea, nel mondo digitale, potendo e dovendo sostituire i fatti con le relazioni generatrici, ciascuna opera potrà vivere sempre nella sua contemporaneità. Contemporanea e coeva con l’artista e con la civiltà che vuole rappresentare o a cui vuole opporsi, e che comunque ha contribuito alla sua generazione, dunque, sempre in relazione con qualcosa che sia altro da sé. Questa è la dinamica della digitalizzazione nel campo della cultura, sapere di poter sostituire un artefatto con un “artefarsi” (perdonate il gioco di parole). Per quanto antica possa essere, un’opera in forma digitale diventa sempre interna alla sua produzione.

A volte si cerca di forzare dentro l’ambiente digitale l’interpretazione analogica creando un doppione. Non dico che la categorizzazione tradizionale dell’arte sia illecita o inutile, certo che no, su di essa si sono costruite generazioni di esperti, dico che illecito e pericoloso è quasi sempre il trasferimento statico. Digitale e statico non si declinano mai troppo bene insieme, stridono. Facciamo un altro esempio a partire da categorie che conosciamo per antica abitudine scolastica:Cinema, Teatro, Musica, Arte, Scienza, Tecnologia. Camere stagne, almeno apparentemente, mentre l’innovazione, che chissà perché siamo abituati a definire tecnologica, in realtà vive, prospera e si riproduce nella intersezione e sovrapposizione delle categorie di riferimento.

La digitalizzazione ha bisogno di questi interstizi per vivere, sono quelle le stanze dove abitano in silenzio le energie inespresse della transizione verso una cultura che sia combustibile per lo sviluppo di un futuro non più imprigionato da famelici mercati dell’intrattenimento. Il futuro di questa cultura è il “pensare digitale”, il suo nemico: la fossilizzazione delle abitudini, il rifiuto di una dinamica della formazione, la disabitudine alla ricerca come metodo di indagine del mistero, chiudere il campo alle mutue relazioni tra le categorie, magari per difendere privilegi di parte, renderebbe inutile l’ambiente che digitale che stiamo costruendo con tanta fatica.

I musei, il turismo culturale su territori digitalizzati hanno il dovere di diventare centri di produzione della cultura ( avete capito bene: il turismo culturale diventa produzione di cultura) per poter crescere e far crescere le comunità e fuggire le regole dell’audience. Aumentare il numero di visitatori inconsapevoli del patrimonio non serve a nessuno. I modi e le forme dell’arte vanno utilizzati per raccontarsi, lo stesso vale per i territori, in particolare tutti quelli che hanno una vocazione turistica e di accoglienza. La digitalizzazione con una strategia alle spalle diventa un vettore di marketing territoriale di grande potenza. A questo serve l’arte e conseguentemente le industrie culturali troppo spesso diventate solo puro intrattenimento.

Lamberto Maffei, direttore dell’istituto di Neuroscienze del Centro Nazionale delle Ricerche, cercando le ragioni della evoluzione dell’uomo nello studio delle funzioni celebrali, a proposito dell’arte scrive:  gli artisti producono modelli soggettivi, interpretazioni emotive della realtà caotica che li circonda e della vita quotidiana. Il lettore o l’osservatore accetta o rifiuta il modello con un suo proprio atto creativo, che lo porta alla comprensione[1].

Il mondo digitale funzionerà se riuscirà a diventare un vantaggio competitivo per il nostro reale, se riuscirà ad essere, un nuovo baluardo della ridistribuzione del sapere, dello spirito critico, dalla capacità di analisi, principi basilari della libertà, della uguaglianza e della democrazia.

Quando una civiltà si è estinta, lascia le tracce del proprio passaggio incise sugli artefatti che ha prodotto, noi raccogliamo, custodiamo e studiamo con piacere e interesse questo patrimonio affinché quelle civiltà, fatte di regole morali, di valori e di costumi, siano in grado di continuare a parlare a tutti non attraverso la contemplazione dei propri artefatti, ma attraverso i significati che questi oggetti hanno e che sono in grado di svelare. Questo si ottiene grazie alla ricostruzione del senso della vita che gli autori di quelle opere avevano intenzione di condividere con i propri simili. Fornire alla maggior parte di persone possibili gli strumenti per interpretare tali significati, significa creare un confronto tra le motivazioni della propria esistenza e quelle passate, forse un conflitto, ma con questo una riflessione. In questo modo anche una civiltà estinta riesce a perpetuare se stessa attraverso di noi pur non esistendo più. Emergeranno schemi di valori abbandonati e ricostruiti in altro modo, nuovi diritti, quali lotte ci abbiano fatto migliori o peggiori è il miglior modo per conoscere noi stessi in relazione alla dinamica della storia. Questo è il tema di fondo, ma nello stesso tempo anche il potere della opportunità interna al processo di digitalizzazione.

Visto che il discorso è caduto sulla necessità di saper sostituire schemi considerati non più validi con altri più efficaci, lasciatemi spendere alcune considerazioni su nostra maestra Scienza.

Poiché stiamo centrando il ragionamento sulla dinamica e sulla plasticità dell’ambiente digitale rispetto alla costruzione di conoscenza, mi limiterò ad un aspetto del pensiero scientifico che potrebbe fornire forza, energia e fluidità alle strategie di digitalizzazione.

Parlo della consapevolezza della provvisorietà dei risultati e degli schemi di riferimento in contrapposizione alla solidità dei metodi di indagine, parlo della capacità di sapersi concentrare su ciò che è indeterminato come spinta alla ricerca. Se guardiamo intorno a noi quello che il capitalismo digitale ha prodotto e sapientemente nutre, ci accorgiamo che si muove in direzioni diametralmente opposte: fornisce verità indiscutibili, costruisce comunità costruite da algoritmi che tengono insieme solo esseri dotati di pensiero non divergente. Questo spegne il dialogo e mette ciascuno in condizioni di immaginarsi dalla parte della ragione universale, disegna percorsi costruiti sulla certezza della meta anche se irraggiungibile.

Audience e algoritmi di gestione impediscono il dialogo e creano un recinto impenetrabile alle idee diverse da quelle che vi dimorano. Occorre solo cedere la libertà di pensare in cambio del piacere di essere confortati dal fatto di essere nel giusto, la vita ridotta a illusione in cambio di relazioni fondate sul vuoto e sulla sottomissione al volere superiore vivendo esperienze per lo più anestetiche[2].

Esattamente quello che successe a Faust, nell’omonimo poema di Goethe, il quale ignaro degli algoritmi che avrebbero gestito una moltitudine di adepti secoli dopo, scambiò la giovinezza e il piacere con la cessione dell’anima al diavolo.

Recentemente leggevo alcuni brani del diario di Joseph Goebbels e mi ha molto colpito come lui stesso affermi di non avere alcuna intenzione di convincere i tedeschi a pensarla come lui, sarebbe stato oggettivamente complicato ed avrebbe necessitato di forze molto superiori a quelle in campo, il criminale nazista aveva un altro scopo in mente: impoverire il linguaggio in modo che potesse restare a galla un solo modo di pensare. Un algoritmo perfetto quanto malefico visti i risultati.

Se la conoscenza diventa un tour organizzato e pianificato lascia cadere “l’inatteso” che, come l’antica filosofia greca aveva intuito e le scienza cognitive dimostrano, è la fonte di ogni esperienza cognitiva.

È necessario che il metodo scientifico diventi patrimonio della maggior parte dei nostri simili per poter vincere la battaglia contro la mediocrità.

Ma le cose non sono sempre semplici. Più si decide di incidere nelle profondamente sulla cultura, sulla capacità critica, sul libero pensiero, più si trovano oppositori, da una parte e denigratori, e falsi alleati dall’altra. I primi portano il loro attacco dall’esterno per salvaguardare privilegi che l’economia del mercato libero ha costruito sapientemente e faticosamente proprio sulla ignoranza, sulla forza del vuoto intrattenimento, sulla complicità con le vittime. I secondi cercheranno le ragioni di un fallimento dall’interno del processo stesso, sono riconoscibili dall’accanimento tecnologico come panacea di ogni filosofia e dalla automatica attribuzione alla categoria della “fuffa”[3] di qualsivoglia riflessione storico critica, metodologia scientifica che possa mettere in dubbio l’ipse dixit del loro manuale. Ipse non è riferito oggi, come come fu per Cicerone, al capostipite della corrente pitagorica e nemmeno ad Aristotele come era inteso nel Medioevo, ma ad una entità astratta che governa, attraverso istruzioni incontestabili e assolute, la vita e le relazioni. Quando si scambia la cieca fedeltà con l’approvazione di ogni misfatto torna sempre in mente il dott Faust. Cambiare significa scoprire, ma significa anche selezionare quello da lasciare indietro tutto non essendo più in grado di fornire spunti, energia, dinamica, per riconoscere chi frena non bisogna andare a cercare chi si oppone alla digitalizzazione, ma chi immagina il processo semplice, lineare e sbrigativo, magari aggiungendo qualche strumento tecnologico come condimento.

La strategia di digitalizzazione di un territorio potrebbe avere un impatto molto profondo sulla condivisione della cultura a livello locale, sulle strategie di mercato, sulla economia. Quando la conoscenza diventa un fattore di sviluppo economico, una fonte di valore, la domanda diventa come ridistribuire questo valore che non è solo monetario, ma etico. Valore che è il  collante di una coesione sociale e, a sua volta, sorgente di una reazione chimica tra fantasia – immaginazione che per la prima volta nella storia dell’uomo riesce a fondare una industria.

Le neuroscienze, che negli ultimi trenta anni hanno fornito rappresentazioni del nostro cervello impensabili sino a poco fa, mettono in guardia da tempo da come il capitalismo digitale non gestito dalle istituzioni statali possa indurre una modificazione antropologica. L’atrofizzazione del pensiero critico e della  capacità di astrazione rischia di regredire l’uomo verso i suoi istinti naturali, quelle reazioni che preesistevano alla evoluzione secondo cultura, la negazione di una estetica delle emozioni rischia di diventare una anestesia[4] emotiva. L’intuizione di Freud secondo cui l’evoluzione delle civiltà sia avvenuta attraverso il controllo degli istinti primari dell’uomo: cibo, sesso, potere costruendo comportamenti o imponendo leggi che limitassero i danni dell’individualismo che necessariamente ne deriva[5], trova conferma proprio negli aspetti che maggiormente sono esaltati dai social network in alternativa a fenomeni come studio, sapere, pensiero, dialogo. Il pericolo antropologico risulta chiaro

Credo sia arrivato il momento, la pandemia ci ha drammaticamente messo di fronte ad una necessità di accelerazione per abbattere l’ignoranza e la mediocrità come freno allo sviluppo della comunità degli umani, come freno alla disgregazione ed allo scontro tra individui. Occorre tornare alla idea di persona ed alla convivenza all’interno di un pianeta che possa continuare ad ospitarci. La digitalizzazione è una occasione da non perdere, il mondo della cultura non può che diventarne la motrice.


[1] Lamberto Maffei, “Elogio della lentezza” il mulino 2020.
[2] Il lettore avezzo alla filosofia del pragmatismo avrà interpretato “anestetiche” secondo l’idea di John Dewey ( art as Experience) come esperienze che non producono conoscenza. Chi non avesse letto Dewey è assolutamente autorizzato ad interpretare l’aggettivo secondo l’uso comune: somministrazione di un farmaco per non accusare dolore.
[3] La fuffa è il discorso privo di valore, il luogo comune, l’argomentazione inconsistente..
[5] Sigmund Freud, Disagio della civiltà, Einaudi 2010,






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