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giovedì 18 Aprile 2024
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Allori del semplice volere

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“Gli allori del semplice volere sono arbusti secchi che non hanno mai verdeggiato”, così (più o meno) scriveva G. W. F. Hegel nel suo “Lineamenti di filosofia del diritto”.

Non è, naturalmente, difficile inserire questa assoluta affermazione all’interno della concezione dialettica della Storia che anche e soprattutto da lui prese avvio.

Il “semplice” desiderare qualcosa che non tenga conto di tutto ciò che esiste a prescindere e che possa opporsi a quel volere inconsulto, ci appare come atteggiamento infantile nel migliore dei casi, prepotente e vessatorio negli altri.

Abbiamo, anche grazie a Marx e a tanti altri, assorbito se non elaborato coscientemente l’idea che ogni movimento ed ogni fatto siano sempre il frutto di una azione cui si contrappone una forma di resistenza o di reazione.

Ci sollecita e ci aiuta, in questa consapevolezza, l’evidenza della condizione biologica. Come per fare un figlio sono necessarie due entità diverse, per quanto non opposte, che determinano una dialettica creativa, così nelle modificazioni sociali una volontà iniziale deve obbligatoriamente incontrare una realtà preesistente.

E, soprattutto, tenerne conto.

Alla fine del processo dialettico non soltanto se ne vedrà il frutto ma apparirà evidente come le due parti che ne hanno determinato l’esistenza siano esse stesse state cambiate dal percorso fatto. 

Tutto molto, molto chiaro, si direbbe.

Eppure, ad affidarsi al fragore interno alle parole del filosofo, si prova la sensazione che esse siano assai meno banali ed ovvie di quel che appare alla prima lettura.

Detto meglio: che esse ci parlino, a distanza di secoli, di qualcosa che ci è oggi negativamente più vicino che mai.

Sembra, infatti, che quegli “arbusti secchi che non hanno mai verdeggiato” siano oggi tanto più forti e diffusi di quando il filosofo scriveva.

Certamente vi è un versante strettamente personale nel quale quelle parole sono valide e saranno valide per sempre.

La vita di ciascuno di noi è costellata di desideri e volontà che non hanno mai effettivamente affrontato la realtà con le sue resistenze.

Questi cascami residuano dentro di noi, come parti di un percorso e talora come espressione di nostalgiche disillusioni. Niente di grave, insomma.

Ma se dal versante del singolo individuo allarghiamo lo sguardo alla intera società umana possiamo forse accorgerci che le cose stanno diversamente e forse in modo più grave.

Quel che cerco di dire è che, a mio avviso, negli ultimi anni l’esibizione, a livello pubblico, del “semplice volere” è diventata una forma di orgogliosa auto – rappresentazione.

In altri termini: io dico (o urlo) quel che voglio, restando indifferente rispetto agli ostacoli e alle condizioni, e quel grido diventa la mia identità che gli altri debbono riconoscere se non accettare.

Io, in quanto persona pubblica e rivolta all’esterno, non voglio essere valutato per i risultati effettivi delle mie azioni ma per la volontà che esprimo: essa sono dunque io.

La mia richiesta, qualunque essa sia, dovrebbe essere letta all’esterno come mio fattore identificativo finale.

Io non sono ciò che faccio e ottengo davvero, ma quel che dichiaro di volere.

Punto e basta.

E, poiché gli altri “competitori” si comportano alla stessa maniera, possiamo tutti d’accordo infischiarcene dei dati reali e delle eventuali condizioni da superare. Intanto urliamo, poi si vedrà.

Di tutta evidenza questa formula è enormemente accresciuta dalla possibilità per tutti di manifestarsi in modalità elettronica senza alcun rapporto con la possibile controparte esterna alla mia diretta volontà.

Oggi è possibile a chiunque gridare al mondo il proprio “semplice volere” ma soprattutto, ancora più erroneamente, considerare questa possibilità come un elemento di diffusione della democrazia.

Torniamo per un attimo al vecchio Giorgio Guglielmo Federico e trasponiamolo, tanto non ce lo può impedire, alla questione del auto – definirsi attraverso la semplice evocazione della propria volontà.

Egli ci insegna che la definizione dell’individuo avviene necessariamente attraverso la consapevolezza e la contrapposizione con ciò che è contrario, o  comunque diverso.

Pensiamo, per un attimo, a Winston Churchill o a Charles De Gaulle. Essi “esistono” quando si definiscono in funzione della guerra al nazismo o al OAS che cercava di impedire l’indipendenza algerina.

La potenza della loro volontà (che non è più semplice ma straordinariamente complessa) viene definita esattamente da quello cui si contrappone.

Il bianco, si potrebbe dire, esiste in quanto vi è il nero. E viceversa.

A quel punto non risulta più troppo importante se il proprio volere risulta alla fine vincitore o meno: esso può comunque essere riconosciuto e valutato.

In una parola, esso esiste.

Naturalmente la dialettica come base della definizione e dell’esistenza non vale soltanto per il bene e il giusto.

Il Satana di Milton esiste orgoglioso nella contrapposizione al Divino Creatore, senza cui neanche lui esisterebbe.

 “Guerra eterna moviamgli, e forza e frode S’impieghi contro lui ch’ebbro d’orgoglio Ora gioisce ai nostri mali, e solo Da tiranno nel ciel trionfa e regna.”

La consapevolezza della differenza è dunque alla base della identità. Non il nostro pensiero ci definisce, ma l’altro contro cui a qualunque livello ci contrapponiamo. Senza esso noi non esistiamo.

Ciò significa, per finire, che la scelta dell’avversario (pur momentaneo) è una azione assai importante alle cui conseguenze non possiamo sperar di sfuggire.

Illudersi, per esempio, di far dimenticare di aver sfilato con i gilet gialli (altro da sé in quel momento l’inquilino dell’Eliseo) mentre si applaude all’accordo con la Francia è assolutamente illusorio.

Forse non è comodo, ma la scelta del diverso cui ci si rapporta è assai più condizionante e significativa della illusoria proclamazione del proprio “semplice volere”.






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