domenica 22 Dicembre 2024
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Ancora sbarchi: tu lo sai cosa li aspetta, ma taci…

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Per fortuna che c’è WhatsApp, per fortuna che anche a Chios la tecnologia ci permette di condividere, di raccontare. Alfredo Nazzaro è questo il nome del mio amico, è lui che mi tiene attaccata al cellulare più del solito, è lui che condivide con me emozioni, rabbia, delusione e che su mia richiesta sorride anche per me ai profughi, ai rifugiati, a queste persone che perdono i loro nomi e diventano numeri.

Senza evocare la storia e il passato, essere un numero e non possedere un documento se non un foglio di carta è davvero terribile. Chattiamo: io per sapere, per partecipare, per memorizzare, Alfredo per scaricare la sua tensione, per passare il testimone, per memorizzare anche lui il suo viaggio negli abissi, ci commuoviamo ma a distanza. E’ li con “Stay Human Odv” ma presto vi racconteremo di più.

Sono le condizioni atmosferiche che scandiscono il tuo tempo a Chios. Condizionandolo. Gli ultimi due giorni c’è stato un vento teso, da est, dall’Anatolia, dal Caucaso. Le temperature si  abbassano ed il mare si gonfia. Nessuno sbarco, perché non si avventurano in quel mare. Oggi pomeriggio il vento ha iniziato a calare, fino quasi a cessare in serata. Ecco, già sai che nelle prossime ore qualcuno arriverà.

Non si cena mai insieme a Chios, tra colleghi, intendo, è stranamente l’unico momento che non si condivide. Anche quei ritmi sono scanditi dalle esigenze legate al campo di Vial. Alle 22.30 squilla il telefono delle emergenze, quello dei “landing”. Sono arrivati. Sono sbarcati ad una decina di chilometri dal centro di Chios. Hai già il giubbotto ed il pass identificativo. In pratica li indossi 24 ore al giorno. Si sale in macchina, e si recupera per strada il resto del team. Si va veloce, nonostante le strade, il mare è alla nostra destra, si supera l’abitato di Chios e si viaggia sotto un tappeto di stelle che in condizioni diverse ti fermeresti ad ammirare. Si accelera ancora e, magicamente, si inizia a salire. In lontananza, a mezza costa, lontano dal mare, i lampeggianti della polizia.

Gli sbarchi, l’assistenza agli sbarchi, la si immagina sempre a ridosso del mare, magari dentro il mare. Non sempre è così. Una volta sbarcati i profughi iniziano ad andare, loro sono “migranti”. Cercano inconsciamente di allontanarsi dal luogo dello sbarco, anche se non rischierebbero nulla restando li. Ma loro non lo sanno. Hanno paura della polizia e provano ad allontanarsi. E così arrivi. La scena e’ quella vista tante volte nelle foto o nei video ma, come tutto a Chios, la realtà supera l’immaginazione e ti trasporta oltre, in terreni emotivamente inesplorati.

Loro sono lì, tranquilli. La polizia li ha fatti sedere ammassati sul ciglio della strada. Qualcuno guadagna una posizione migliore sulla scarpata. I fari delle macchine della polizia illuminano i loro volti: sono tutti siriani. Dopo un po’ che sei in quelle latitudini, impari anche a riconoscere la provenienza. Sono “syrian arabs” come dicono loro. Lo capisci dai lineamenti. Stanno tutti bene, fortunatamente. Una giovane donna ha un collasso, ma non è niente di grave. Ti dicono che non bevono da dieci ore. Ci sono un paio di bambini. Uno ha una tonsillite. Ti colpiscono i loro vestiti, le borse delle donne, imitazioni perfette delle grandi marche. Vengono dalla Turchia, non potrebbe essere altrimenti. Sono felici di essere arrivati, sorridono, ti ringraziano. Immaginano di essere oramai in salvo. Percepisci che non immaginano che li aspetta Vial. Non conoscono le condizioni di degrado e di abbandono a cui saranno sottoposti o forse lo sanno ma non avevano altre possibilità che fuggire, attraversare quel tratto di mare e venire.

Tu lo sai cosa li aspetta ma taci. Rispondi ai loro sorrisi con altri sorrisi. Li tranquillizzi. Per molti mesi, per molti anni, quello sarà il loro ultimo momento di gioia. Glielo lasci godere. L’Europa è la loro ultima speranza, anche se l’Europa assume le sembianze di Vial. Dal buio profondo delle notti del nord Egeo si materializza una figura corpulenta, capelli lunghi e bianchi, come i baffi, cappellino con visiera da baseball ed il buonumore un po’ scanzonato dell’americano medio. Avrà circa 70 anni. Viene da qualche parte degli Stati Uniti, dall’America profonda, quella che gira in pick-up ed il sabato sera mangia alette di pollo fritte da Friday’s. Arriva con il team del supporto umanitario e scopri che si è stabilito lì con la moglie, dopo aver assistito ad uno dei primi sbarchi drammatici e, da allora, si dedica ad aiutare questa povera gente. Vorresti abbracciarlo, ti limiti ad una pacca sulla spalla. Hai imparato che, in fondo, Chios è un posto un po’ magico. Può succedere di tutto e nessuno si stupisce. Non c’è tempo per lo stupore. È un’isola dove le cose si “devono” fare e si fanno.

Distribuiscono a tutti una coperta corallo ed una busta di plastica, azzurra, con qualche capo di abbigliamento. Si cercano un paio di scarpe per un ragazzo che, se non fosse in quel posto, sembrerebbe un irlandese. Si rimediano due ciabatte di quelle che si usano in piscina ma qui non è il caso di andare per il sottile. Un po’ di cibo. Nessuna bevanda calda. Per i più piccoli compaiono due peluche, sono due Pokèmon, uno giallo ed uno azzurro, sono contenti come solo i bambini lo sono. Gli adulti sono contenti anche loro. Dopo tante pene si pensano al sicuro, li aspetta Vial.

Sbarchi nella notte

Ti giri dall’altra parte, perché a volte è veramente troppo dura e maledici il mondo. Arriva un van a 16 posti, li carica a bordo, chiude le porte e la notte greca li inghiotte in quello che è il loro viaggio verso l’inferno del campo. C’è un cielo stupendo stanotte. Da queste parti è così. La luna è ridotta ad una piccola falce. Quindi le stelle si prendono tutta la scena. In lontananza il mare e la costa turca. Di nuovo il telefono. Altro sbarco, questa volta al porto. Li hanno intercettati in mare. Si sale in macchina e si va. Sempre veloci. Sempre sfidando le strade impervie di Chios. Il clima e’ diverso al porto. C’è nervosismo. Tra i profughi e tra la polizia. Non ci fanno avvicinare. La polizia impartisce ordini. La voce è alta. I profughi non sorridono questa volta. Sono spaventati e soprattutto sono bagnati. Un giovane uomo piange consolato da un suo amico o forse da uno che ha solo condiviso con lui un piccolo tratto di vita e quel braccio di mare. Li controllano uno ad uno, li perquisiscono. Come al controllo di sicurezza degli aeroporti. Ancora non abbiamo il permesso di avvicinarci. Un’altra cosa che impari, da quelle parti è che non devi fare domande, non devi chiedere. Saprai quando la polizia deciderà che devi sapere.

Arriva un uomo in borghese, polo azzurra e pantaloni beige. Walkie talkie nella mano sinistra. La tensione sale, i toni anche. C’è concitazione. La barriera della lingua è insormontabile. Può avvicinarsi solo il nostro mediatore, per tradurre. Alla fine capiamo. Sono stati intercettati in mare e per paura di essere riportati indietro, uno di loro ha squarciato un tubolare del gommone, hanno rischiato il naufragio. Alcuni sono caduti in acqua, anche dei bambini. Uno ha rischiato l’annegamento ed è già stato trasportato in ospedale. Cercano il responsabile del gesto. La polizia ha dovuto gettarsi in mare per salvarli. La costituzione greca impedisce i respingimenti ma loro non lo sanno. Hanno rischiato inutilmente ma quando sei disperato non hai più niente da perdere.

Finalmente ci fanno avvicinare. Sono intirizziti. Ci sono diabetici ed asmatici. Li assistiamo. Stanno relativamente bene. Le donne separate dagli uomini. I bambini con le madri. Dall’atra parte del piazzale arriva un uomo. Minuto. Bagnato anche lui. Si guarda attorno. Cerca la famiglia. Cerca i figli. Li trova. Si abbracciano. Ricompare l’assistenza logistica, altre coperte color corallo, si cercano vestiti asciutti. Ci si confronta sulla taglia che potrebbero avere e si montano delle piccole tende da campo per farli cambiare. Stanno bene. Inshallah… Inshallah, ripetono alzando braccia ed occhi al cielo. La nostra infermiera abbraccia uno dei bambini, lo avvolge nella coperta e lo riabbraccia. Cerchiamo di coprirli alla meglio fino a quando non si saranno cambiati. Ci sediamo sul molo in attesa. Lo yankee canuto ci chiede un taglierino per squarciare del copertoni di ruote accatastati sul molo. Sono i loro salvagenti. Quando salgono a bordo indossano quelli. I giubbotti di salvataggio solo i bambini. La mafia turca è organizzata. Ci sono negozi “specializzati” nella vendita di copertoni, dalla parte turca di quel mare, 15 o 18 euro a copertone. Li si gonfia e si va. Ne prendono quattro o cinque a caso, dalla fila. La polizia li porta in caserma. Stanno interrogando per cercare di capire chi ha squarciato il gommone.

Eviti di chiederti le modalità dell’interrogatorio. Qualsiasi cosa cercassi di fare sarebbe peggio per loro e, comunque, sarebbe inutile. Questa volta e’ andata bene. Sono tutti salvi. Non sempre va così. In primavera un gommone urtò delle rocce affioranti. Erano a meno di 50 metri dalla spiaggia. Due persone che sedevano davanti caddero battendo la testa. Nel buio della notte e della traversata. Perché loro viaggiano al buio, orientandosi sulle luci della costa dell’isola. I loro compagni non riuscirono a trovarli. Li ritrovò la polizia greca, dopo due mesi, sulla costa di Rodi, a centinaia di miglia nautiche di distanza. Ricompare il van. Vial, il campo, inghiottirà altre vite questa sera. Sai che li rivedrai domani mattina, stipati nel recinto loro destinato fino alla registrazione. Cerchi un caffè nella notte. Purché non sia turco.

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