Occasione interessante ora che abbiamo un anno dedicato al cibo ed alla qualità
Uno stato di confusione, anche di paura per il futuro, attraversa questa fase della nostra storia. È come se sulla nostra società si fosse creata una cappa grigia che ci impedisce di coltivare speranze, un’assenza di ideali e di progetti che ci impedisce di costruire il futuro. C’è in giro una sorta di diffuso rancore hanno osservato i sociologi. Ma è proprio in un tempo come questo che potrebbe maturare una ripresa del pensiero che prepara un ruolo attivo dei cittadini.
Il rito del pasto, che compiamo tutti i giorni, è ovviamente un’abitudine che ci porta a non riflettere in modo sufficiente su ciò che mettiamo nel piatto, ma sappiamo che ciò che mangiamo ha uno straordinario impatto non solo sulla nostra salute, perché il buon cibo fa buona salute, ma anche sulla nostra ricchezza perchè il cibo buono, sano e nutriente fa buona economia.
L’agroalimentare italiano è uno dei must della nostra esportazione e lo è diventato grazie alla straordinaria qualità dei prodotti tipici che tante piccole e medie aziende sono state capaci di mettere sulle nostre tavole e su quelle di mezzo mondo. Insieme alla moda e al design, l’enogastronomia è certamente una di quelle eccellenze del nostro Paese che ci hanno resi famosi e che ci avrebbero potuto far diventare ricchi, se una classe dirigente poco accorta non avesse sottovalutato o sprecato risorse tanto straordinarie.
Nell’anno nazionale del cibo dobbiamo fare un’operazione verità
Il gusto, il piacere, lo stile, il modello “Italia” è ri-conosciuto e ri-cercato in tutto il mondo. L’agroalimentare, insieme alla moda, ai beni culturali e al turismo, possono essere la chiave per una ripresa della produttività e per una crescita del mercato interno e fattore di sviluppo del made in Italy sul mercato internazionale contribuendo ad una definitiva uscita dalla recessione della nostra economia. Un’economia che sottende migliaia di piccole e medie imprese che fanno del “produrre” una questione di “sicurezza” e di “qualità”. La stessa “qualità” che oggi, più che mai, è la chiave di volta per entrare nei mercati oltreconfine, dove la domanda di “prodotto italiano” è addirittura più animata rispetto a quella interna.
Nell’annunciare l’anno nazionale del cibo italiano i ministri Franceschini e Martina hanno affermato che è necessario promuovere le filiere agroalimentari perché sono un valore del vero, autentico made in Italy. Ma non ci hanno detto con quali strumenti, con quali sistemi/servizi di accompagnamento delle imprese? Quale sostegno alle imprese? Quale ruolo della Grande distribuzione? In definitiva cosa si dovrebbe fare per recuperare valore alla nostra produzione agroalimentare di qualità per farne un soggetto della ripresa economica e del risanamento del nostro sistema produttivo.
Il caso dell’olio d’oliva
Prendiamo ad esempio come caso di studio l’olio d’oliva.
C’è una legge dello Stato del 2014 che, come tante altre, non viene rispettata. Così come ci sono regolamenti europei del 1966 e 67, oltre ad una sentenza della Corte Suprema Europea del 1974 di cui il Parlamento europeo, la Commissione e il nostro Ministero delle politiche agricole sembrano non essersene mai accorti. È lo strano destino dell’olio d’oliva e dei suoi veri o presunti produttori.
Le scelte politiche dei governi del secolo scorso e le conseguenti norme legislative nazionali ed europee hanno condizionato la produzione olivicola-olearia nazionale frenandone lo sviluppo e a fronte di una domanda sempre crescente delle famiglie italiane di olio estratto dalle olive si è risposto con l’introduzione sul mercato nazionale di oli di semi di prevalente produzione estera e con l’importazione di migliaia di tonnellate di olio d’oliva dalla Spagna e dai paesi del NordAfrica mentre, con gli incentivi all’imbottigliamento, si dava il via contestualmente alla nascita e allo sviluppo di una vasta gamma di imprese cosiddette di produzione olearia ma in realtà aziende di importazione e confezionamento.
Ciò ha contribuito in modo significativo a frenare i processi di ammodernamento del sistema delle imprese agricole di produzione olivicola e a rallentare l’ingresso delle nuove tecnologie estrattive nelle aziende del settore della trasformazione determinando un forte ritardo nel processo di professionalizzazione degli addetti. Il frantoio oleario, relegato ad una funzione di mero servizio agli agricoltori, ha “rifiutato” per decenni innovazioni significative: sul piano tecnologico l’introduzione del sistema di estrazione continuo ha fatto molta fatica ad affermarsi, mentre sul piano culturale il tecnico della produzione olearia, cioè il mastro oleario-frantoiano, solo dal 2014, con la legge della regione Puglia del 24 marzo n.9 ha visto riconosciuto il proprio campo di competenze e di azione nei confronti di tutta la filiera olearia.
Il frantoio artigiano ed il Mastro oleario
Il nuovo millennio ha visto la nascita del frantoio artigiano, impresa olearia che produce il suo extra vergine e lo distribuisce sul mercato globale, e un nuovo ruolo del mastro oleario che è chiamato ad ottenere il migliore olio possibile con lo sguardo rivolto contemporaneamente ai mercati internazionali e al suo territorio, coniugando innovazione e tradizione. Il moderno mastro oleario deve conoscere la tecnologia che utilizza per produrre il suo olio, partendo dal presupposto che l’olio non si estrae ma si produce, nel senso che ciò che ottiene deve essere coerente con il suo progetto di marketing, fatto su misura del target specifico di mercato a cui ha deciso di vendere i suoi prodotti. Stiamo assistendo ad una vera e propria metamorfosi professionale del frantoiano in mastro oleario in funzione di un diverso ruolo che non è quello di un operaio specializzato che usa le macchine per estrarre l’olio dalla pasta delle olive ma di un professionista che governa il processo di produzione per elaborare un olio che è stato progettato in sede di marketing o in funzione di una miscela che il blendmaster ha programmato. Oggi il processo di elaborazione di un olio extravergine ha un effetto determinante, a parità di cultivar, nella definizione delle caratteristiche qualitative e sensoriali dell’olio che si vuole vendere ad un target prederminato.
Tutto ciò premesso è evidente che qualità e quantità del prodotto olio nascono sul campo, risultato di una rigorosa e specifica attività agronomica ed allora il ruolo del mastro oleario è anche quello di ricercare una collaborazione con gli olivicoltori che nella campagna olearia gli forniranno la materia prima per produrre il suo olio. Sarà quindi il mastro oleario ad affermare un sistema di monitoraggio e controllo delle lavorazioni colturali che favorirà anche una equa ridistribuzione del valore lungo la filiera.
Ma il risultato di qualità di un lavoro lungo un anno, dalla cura sul campo alla attività creativa e produttiva in frantoio, non può essere lasciato nelle sole mani del confezionatore prima e del distributore poi. Il mastro oleario deve sovraintendere alla fase di filtrazione e stoccaggio che ha inizio contestualmente alla fase di produzione, e successivamente al lavoro del blendmaster che provvederà a creare il gusto adatto al target avviando il prodotto all’imbottigliamento e confezionamento, fasi e modalità operative tutte essenziali per garantire la conservazione delle qualità a cui contribuisce in modo determinante la scelta del contenitore dell’olio, un vetro della bottiglia che deve essere di quella speciale qualità in grado di garantire una perfetta conservazione del prodotto fino al momento del consumo.
Oggi si può parlare di un olio italiano eccellente, ma dobbiamo anche osservare che è un prodotto in estinzione. Ancora una volta è compito e dovere di chi sarà chiamato dalle urne ad assolvere alla funzione legislativa di promuovere nuove leggi che consolidino i risultati che le imprese olearie artigiane hanno conseguito e ne sostengano lo sviluppo.