CARPE DIEM (Orazio , I,11)
Tu ne quaesieris (scire nefas) quem mihi, quem tibi
finem di dederint, Leuconoe, nec Babylonios
temptaris numeros. Ut melius quicquid erit pati!
Seu pluris hiemes seu tribuit Iuppiter ultimam,
quae nunc oppositis debilitat pumicibus mare
Tyrrhenum, sapias, vina liques et spatio brevi
spem longam reseces. Dum loquimur, fugerit invida
aetas: carpe diem, quam minimum credula
Tu non cercare, non è dato saperlo, quale a me, quale a te termine ultimo gli dei abbiano dato, Leucone, e non tentare i calcoli babilonesi. Quant’è meglio sopportare tutto ciò che accadrà, quale che esso sia! Sia che Giove abbia assegnato molti inverni, sia che (abbia assegnato) come ultimo (inverno) questo che ora fiacca contro le opposte scogliere il mar Tirreno: sii saggia, filtra i vini e, poiché il Tempo è breve, riduci la lunga speranza. Mentre parliamo, il Tempo invidioso sarà già fuggito: cogli l’attimo il meno possibile fiduciosa nel domani.
Sono i versi più famosi della letteratura di tutti i tempi ma anche quelli più drammaticamente fraintesi. La loro notorietà è legata all’espressione “CARPE DIEM”, intesa come invito ad una vita spensierata all’insegna della più frivola leggerezza. È frequente , soprattutto in questo periodo pandemico, ricorrere alla “massima” oraziana per sostenere scelte irresponsabili in nome della precarietà del vita e della sua fugacità. “Bisogna ritornare a vivere, riprendere a vivere intensamente, riappropriarci della libertà di vivere come vogliamo”, si ripete costantemente in nome di un’esistenza percepita come estremamente fragile e in “bilico” a causa del covid. E così, sconsideratamente, contro ogni senso civico e contro ogni criterio di buon senso ,si organizzano feste di ogni tipo, incontri conviviali, assembramenti come se la vita vera fosse solo quella consumata nel bivacco e nello stordimento dell’alcool e della musica.
In realtà la filosofia sottesa al CARPE DIEM non è quella che riconduce a un semplice godersi la vita, ad un edonismo sfrenato e gaudente senza controllo. Orazio piuttosto chiede di tesaurizzare il tempo che si ha a disposizione senza sprecarlo per cercare ciò che non è possibile o non è conveniente, di accontentarsi di ciò che si può avere, disponibili a piccole/grandi rinunce. Il CARPE DIEM, difatti, è anticipato da continue negazioni: non interrogare le divinità, non consultare le carte babilonesi, non pensare al futuro perchè non è nel nostro potere allungare o accorciare il tempo (ne quesieris, nec tempatiris, scire nefas…). Ci invita a rassegnarci a ” pati” (sopportare) ad essere “sapias” (saggi ), a vivere con ragionevolezza e senza eccessi ciò che il destino ha predisposto senza nutrire lunghe speranze (longam spem reseces), a CARPE DIEM, a “carpire” il giorno, e con il carpe lascia intendere un atto drammatico di lacerazione che è quello di strappare un attimo alla fuga irrefrenabile del tempo per ritagliarsi uno spazio, un diem in cui assopire l’angoscia per una vita stritolata tra “l’etas invida e il diem” anche con l’aiuto dell’effetto ipnotico del vino.
Tutta l’ode, quindi, è avvolta da un sentimento di triste e inesauribile rinuncia oltre che di triste rassegnazione e non da un edonismo sfrenato e disinibito. In essa si percepisce il dramma di una rinuncia più che la gioia di una conquista.
Sullo sfondo, come una scenografia inquietante e melanconica, signoreggia un’atmosfera invernale fatta di ” pluris hiemens” e dominata da un mare in tempesta che consuma gli scogli e che si sfianca , metafora di una vita drammaticamente in balia della imprevedibilitá e di forze incontrollabili.
Vivere il giorno presente , pertanto , per Orazio significherà impiegare eticamente il proprio tempo, quello che si ha a disposizione senza sprecarlo in banalità , nella consapevolezza che il futuro ci potrà essere sottratto e con esso la possibilità di agire correttamente domani. È un invito “appassionato” alla moderazione e a scelte etiche responsabili, altro che goderecce e insensatamente insulse!!!