venerdì 22 Novembre 2024
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Cesare Romiti e le lotte di potere in Fiat: Cuccia docet

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Questo articolo è la continuazione de “La storia di Cesare Romiti, non solo la “sua”“.

Romiti stravince perché la marcia dei 40 mila non solo ha posto fine ai 35 giorni di via crucis della Fiat, ma soprattutto perché ha ridimensionato l’idea che aveva la politica dell’imbattibilità del sindacato e del potere di veto del Pci, “che si voleva egemone dell’intera classe operaia” (Antonio Silvio Ori).

La sua vittoria “fuori” non ferma le guerre di potere interne all’azienda, che stanno tutte lì pronte a ripartire non appena si riaprono i cancelli di Mirafiori . Al centro due questioni: Fiat Auto e Umberto Agnelli. Quest’ultimo, dopo aver inghiottito l’estromissione da Corso Marconi è traghettato all’Ifil, la finanziaria della famiglia Agnelli, nella quale ottiene ottimi risultati (ma sa che ad ogni aumento di capitale Fiat avrebbe visto svuotare le sue casse). Adesso sta con il fucile puntato contro Romiti .

La Fiat Auto invece dal 1978  è in mano a Vittorio Ghidella che imprime  una decisa svolta alla progettazione delle macchine. Con lui nasce la Uno, nominata nel 1984 auto dell’anno, il momento clou del rilancio dell’azienda; viene stravenduta in Italia e all’estero e diventa il parametro di riferimento per la gamma delle piccole. Poi seguono la Croma, la Tipo – con il motore FIRE, primo motore completamente robotizzato, con i primi progetti di pianali comuni per auto diverse, cosa oggi comune, ma all’epoca innovativa – la Lancia Delta e la Thema, l’Alfa Romeo 164 e l’Autobianchi Y10. Gli anni ’80, gli anni di Ghidella, sono d’oro per la casa torinese. Diventa il primo costruttore in Italia ed in Europa, il quinto nel mondo.

Tornano gli utili (il 70% li  produce l’auto) e i dividenti. Tutto bene, dunque? Non esattamente. Ghidella  ha ben presente la ciclicità del mercato dell’auto. E guarda avanti. Per lui è necessario che la Fiat si allei con un’altra casa automobilistica proprio ora che è in una posizione di forza. E va dall’Avvocato e gli spiega che dal 1992 i giapponesi avranno via libera anche in Italia; che proprio per questo è necessario aumentare i fondi del settore auto ed è indispensabile ripensare rapidamente alla politica delle alleanze messa da parte dopo la fine del dialogo con Ford (lui era favorevole ad un accordo con Detroit). Ma nel management Fiat sorge il sospetto che la questione non interessi, anzi che ci sia chi rema contro. Si sussurra nei corridoi che Romiti sia seccato dell’importanza che si dà ai successi dell’auto e meno all’impegno di chi – lui – ha riportato in equilibrio i conti della società. Naturalmente sono solo sussurri, non ci sarà mai una conferma.

Ma Ghidella, andando direttamente dal monarca e bypassando Bismarck compie un errore gravissimo che nella monarchia Fiat si paga. Romiti non “risponde” subito ma, guarda caso, ordina una ispezione approfondita di tutte le catene di sub-fornitura della casa automobilistica, senza avvisare Ghidella. In sostanza, senza dirlo, lo accusa di interessi personali nelle forniture. E’ la guerra. L’avvocato non sceglie: gli sono troppo necessari tutti e due, aspetta a vedere come vanno le cose. E per tener buono il capo dell’auto gli fa un bel regalo: l’opzione del 50% sulla Ferrari. Socio, dunque, mentre Romiti non lo è. E Agnelli, forse perché lo teme, al suo Bismarck non dice niente.

In effetti Ghidella, prima di entrare in Fiat è stato socio di una società subappaltatrice – la Roltra – ma ora giura di aver venduto le azioni quando è arrivato in azienda. Anche l’inchiesta interna alla Fiat lo scagiona. Sua Maestà interviene su Romiti e liquida tutto con “uno spiacevole incidente”. Ma intanto la notizia dello scontro comincia a girare, persino sui giornali. Una cosa inaccettabile per la Real Casa.

Maldicenze, contrasti sottobanco tra le due fazioni, si arriva alle lettere anonime in cui si accusa Ghidella di aver fatto errori tecnici con la Tipo (di peggio per lui, così abile e amante dell’auto, non c’è). Fino al 23 novembre 1988, quando Ghidella sbatte la porta e se ne va. Solo un anno prima era stato indicato da Gianni Agnelli come il successore di Romiti, insieme ad Umberto presidente al suo posto. Senza dire quando. Sia a Romiti che a Ghidella quella mancanza di data non piace per niente. Il primo non è affatto contento di questo prepensionamento annunciato (nel 1987 ha 64 anni), il secondo morde il freno perché vuole fare carriera in azienda. E’ possibile che il Gran Maresciallo dell’impero Fiat (dopo la cacciata di Ghidella è nominato anche amministratore delegato di Fiat auto) prenda la palla al balzo delle forniture per togliersi di mezzo chi lo dovrà sostituire? Fatto sta che il 30 settembre 1988 Sua Maestà annuncia che rimarrà presidente per altri 6 anni “e se occorrerà anche di più” con Romiti amministratore delegato dell’intero gruppo.

Una mossa, pare orchestrata da Mediobanca, che mette ancora una volta Umberto (al quale Ghidella era legato) all’angolo. “A dire l’ultima parola sarebbe stato Enrico Cuccia” – scrive Giancarlo Galli nel suo Gli Agnelli. E Cesare rivince ancora. Ma sarà una vittoria di Pirro perché l’uscita del numero uno dell’auto, segnerà un lento ma inesorabile declino della Fiat. Nell’arco di due anni vengono fatti fuori circa 300 dirigenti tecnici, in odore di essere ghidelliani, “proprio quelli che capiscono l’auto e sanno fare le auto” (Mazzuca  La Fiat da Giovanni a Luca).

Torino non è più in grado di sfornare nuovi modelli che attraggano il mercato. Gli utili crollano di brutto, anche nel settore dei veicoli industriali. Romiti li affida a Giorgio Garuzzo insieme all’intera direzione autoveicolista, compresi trattori e macchine movimento terra; e l’auto a Paolo Cantarella. Due suoi fedelissimi (fino ad un certo punto: caccerà anche Garuzzo). “Aveva innescato il meccanismo di selezione per fedeltà e non per meritocrazia” – dirà anni dopo Callieri-John Wayne, amareggiato per essere stato scavalcato su tutta la linea (Mazzuca).

Ci sono dei particolari che rendono bene il clima di quello scontro. Un mese dopo l’uscita da Corso Marconi, Ghidella firma un contratto con la Ford (con la quale, abbiamo visto, aveva un feeling). Romiti, saputolo, si perita di informare subito i dirigenti di Detroit che c’era un accordo con il responsabile dell’auto per “stare a casa” per 6 mesi. Il contratto di Ghidella salta e lui per rifarsi rende noto che Romiti era titolare (ovviamente con un prestanome) di azioni Snia depositate presso Mediobanca e quindi acquistate dalla Fiat, per dare vita ad una impresa autonoma specializzata in ingranaggi per auto. Alla corte dei Borgia, forse, si stava più tranquilli.

A questo punto bisogna fare un passo indietro ed occuparsi dei rapporti tra la Fiat e la Politica. Negli anni d’oro di Corso Marconi, piena di soldi e monopolista del settore auto con l’acquisto della Innocenti e dell’Alfa Romeo (di cui parleremo dopo), acquisisce il controllo della  Cogefar (costruzioni) che insieme all’Impresit (già Fiat) ne fa la maggiore impresa italiana nel settore. Controlla giornali, fabbriche di armi, assicurazioni, catene di distribuzione, settore alimentare, società finanziarie e banche. Insomma, tutto. 

La politica comincia ad essere sospettosa. In quel momento i due personaggi principali sono De Mita (Dc) e Craxi (Psi) che si detestano cordialmente, ma su un principio sono d’accordo: bisogna ripristinare il primato della politica sul potere economico. Una cosa che a Romiti fa venire le bolle. De Mita: “per fortuna nel nostro paese la Fiat non è padrona d’Italia. Ma la tendenza alla prevaricazione la mostra. Questa tendenza bisogna contenerla politicamente, non denunciarla soltanto” ( Galli: Manager potere e successo). Craxi: “la fase della ricostruzione capitalistica è stata ampiamente favorita dalla generosità dello stato e ora si pone non la questione di legittimare un profitto già super legittimato, bensì di ricercare la modalità per ripartire i benefici”. Non ha torto.

Nel suo Fiat quanto ci costi, uscito nel 2002 l’esponente radicale Michele De Lucia ha tentato di fare i calcoli di quanto abbia avuto la Fiat dallo stato solo per la cassa integrazione: 238 miliardi di lire (circa 120 miliardi di euro) tra il 1977 e febbraio 2002, nessun posto di lavoro salvato e incremento esponenziale nel corso degli anni. De Lucia precisa che l’Inps dichiarò di non poter quantificare esattamente l’esborso (Gigi Moncalvo: Agnelli segreti). Perché lo Stato si è accollato tanto denaro senza imporre all’azienda di Torino di impegnarsi in cambio in investimenti socialmente più significativi? La risposta non è facile. Certamente c’è sempre stata la necessità di salvaguardare il posto ed il reddito del lavoratore – cosa che ogni governo deve fare – ma a volte si ha l’impressione che una certa timidezza apparente nascondesse qualcosa, interessi privati (forse tangenti?), oltre ad una sudditanza psichica nei confronti di una Monarchia così potente.

A Roma però si comincia a sospettare – scrive Giancarlo Galli – “la nascita di un partito guidato da Cesare Romiti che spazzi via il sistema traballante sul quale poggia il loro potere. Una ripetizione su scala nazionale di quello che è avvenuto con la marcia del 40 mila”.

E nonostante gli venisse offerto su un piatto d’argento la presidenza della Confindustria, Cesarone rifiuta. Ai giornalisti che gli chiedono se è tentato dalla politica risponde: “sarei una frana tremenda”. Però va a consultarsi da Cuccia che gli impone categorico: “resti a Torino”. E allora, se devo restare a Torino – è probabile che pensi – à la guerre comme à la  guerre. Lui che è stato sempre abbastanza in silenzio, si lancia in dichiarazioni ed interviste nelle quali parla male della politica.

Tramite la partecipazione in Gemina (una finanziaria controllata dalla Fiat e da Mediobanca) la Fiat ha acquistato l’editoriale Rizzoli-Corriere della Sera. Sia Craxi che De Mita cercano di portare Romiti ognuno dalla sua parte, ma lui non ci sta e schiera i giornali – la Fiat possedeva storicamente La Stampa di Torino e per un certo periodo anche  il Mattino di Napoli – contro tutti. Il suo cavallo di battaglia sostanzialmente è che se l’Italia è diventata la quinta potenza industriale dell’Occidente (tema caro a Craxi che in quel momento è presidente del consiglio), è al ventesimo posto quanto ad efficienza della pubblica amministrazione, quasi a ridosso del terzo mondo. I politici guardassero in casa loro.

Se il rapporto tra Agnelli e De Mita non certo è di simpatia (l’Avvocato lo definirà “un intellettuale della Magna Grecia” alludendo alle sue origini meridionali e alla sua mania di fare discorsi tanto lunghi quanto attorcigliati. E Montanelli malignamente chioserà: c’è una parola di troppo, Grecia), quelli di Romiti con Craxi non sono da meno. Due personalità forti che però si devono sopportare. Ma quando si tratterà di comprare l’Alfa Romeo una mano sostanziosa gli verrà proprio da Bettino Craxi, in quel momento presidente del Consiglio. 

Il prestigioso marchio è pieno di debiti, e l’Iri (cui faceva capo tramite la Finmeccanica) decide di venderla. Si fa avanti la Ford che mette sul piatto l’acquisto immediato del 19% delle azioni Alfa per 96 milioni di dollari cash – 130 miliardi di lire – con l’obiettivo di arrivare al 51% e ad una produzione di 400 mila vetture l’anno. A Prodi (presidente dell’Iri) la proposta piace e dà il via libera per continuare a trattare. A Torino, invece, saltano sulla sedia. Intendiamoci: non è che fosse una novità. I vertici di Finmeccanica erano già stati da Romiti, il quale avrebbe risposto sprezzante “non la prenderei nemmeno con 500 miliardi di dote”, sentendosi rispondere “noi te li diamo davvero i 500 miliardi”. La replica è: vi farò sapere. Segue un lungo silenzio.

Quando a Corso Marconi si rendono conto che l’Iri e gli americani fanno sul serio, si scatenano. Bismarck invia parole grosse ai vertici della Finmeccanica. Fa sapere che esiste una alternativa Fiat e al grido “non passa lo straniero” scatta la controffensiva politico-parlamentare, mette al lavoro la potente macchina da guerra Fiat che significa: una potente lobby. Agli ordini di Torino “si muove una agguerritissima pattuglia di incursori largamente introdotta nelle corti del potere, negli apparati dei partiti” (Ori). La Fiat non può trovarsi in casa un così potente concorrente straniero che peraltro non ha bisogno di ricorrere agli aiuti dello stato, è troppo pericoloso.

Il mondo politico è diviso. Sono pro Fiat De Mita e il ministro delle partecipazioni statali Darida; sono contro Donat Cattin, Scotti (vice segretario DC) ed un nutrito gruppo di parlamentari meridionali. Andreotti tace. Sono lacerati nel Pci: da una parte un gruppo a favore della Ford con le sezioni del partito di Milano e Napoli “che però ricevono una dura reprimenda da Botteghe Oscure” (Mazzuca); con la Fiat Fassino e alcuni comunisti torinesi. Craxi è cauto. Non vuol dire no alla Ford perché Washington ha un conto aperto con lui per la mancata estradizione del terrorista che ha ucciso un americano sulla nave Achille Lauro. Con Romiti ce l’ha perché è proprio lui che ha fatto saltare la Telit, il polo delle telecomunicazioni, sullo scoglio insuperabile della nomina di Marisa Bellisario (molto vicina al Psi) ad amministrare delegato della società. Inoltre il segretario socialista  da tempo sogna (e ci lavora) un centro di potere alternativo a Torino.

Intanto il tempo passa e l’Alfa Romeo continua a perdere. La tempistica è indicativa. Il 26 settembre 1986 Detroit presenta l’offerta. Il 25 ottobre la Fiat rilancia: 1.100 miliardi per l’acquisizione totale, da pagare in comode rate a partire dal 1993, senza interessi. Il che, tenendo conto dell’inflazione altissima in quegli anni, abbassa e di parecchio l’esborso. Fabiano Fabiani, in quel momento amministratore delegato della Finmeccanica calcola che – tenendo conto della rateizzazione –  alla fin fine, tirerà fuori solo 450 miliardi.

Il 3 novembre Prodi dà il via libera alla Ford, salvo tornare sui suoi passi 3 giorni dopo e accettare l’offerta Fiat. Cosa è successo? E’ intervenuto Craxi, con tutta la potenza di fuoco dovuta alla sua carica di presidente del consiglio. Si discuterà a lungo di quale sarebbe stata la scelta migliore, tanto che la magistratura nel 1994 aprirà una inchiesta. “Fu davvero solo un sussulto di spirito nazionalistico – si domanda Gaincarlo Galli – a indurlo a superare le antiche allergie verso la più emblematica delle grandi famiglie?” Ci saranno parecchie ipotesi: dalle tangenti alla richiesta agli Agnelli di rinunciare ad entrare nella televisione (si era parlato di un interesse per Telemontecarlo) per favorire Berlusconi, grande amico di Craxi. Una risposta definitiva non c’è mai stata.

Romiti va in Parlamento e giura che i posti di lavoro dei dipendenti Alfa non saranno toccati. Non è vero: dai quasi 15 mila che erano, nel 1996 diventeranno 4 mila, il resto nella solita cassa integrazione. Condita dall’ironia quanto mai fuori luogo di Gianni Agnelli: “Ci siamo annessi una provincia debole”.

Fatto sta che la Fiat ha rivinto e con lei, Romiti. Ma questo non placa la sete di potere, né le divergenze interne, acuite dal fatto che a partire dal 1990 le cose non vanno più bene. Stavolta nel mirino c’è Giorgio Garuzzo, diventato numero tre dopo Agnelli e Romiti. Lo accusa di essere passato dalla parte di Umberto. ll “fratello di ricambio” in questo periodo è particolarmente attivo e preoccupato. A buona ragione: la quota di mercato è sotto il 40% in Italia e al 10 in Europa e per la prima volta il peso delle attività diversificate – in gran parte stanno nell’Ifil da lui guidata – supera con oltre il 51% quello dell’auto. Marco Borsa, nel suo Capitani di sventura sostiene che il problema, in quel momento è proprio questo: non essendo concentrato solo sull’auto, “il gruppo Agnelli-Fiat disperde le proprie energie diversificando in ogni direzione. Anche per questo tende a lasciarsi sfuggire le migliori opportunità di accrescere la dimensione della Fiat auto a livello internazionale”, cioè alleanze. Che poi anni dopo farà, altroché se lo farà.

Umberto si dà un gran da fare. Scrive memorandum su memorandum a Gianni e a Romiti, tanto che quest’ultimo parlerà di “interferenze inaccettabili” arrivando a sostenere di non poter più lavorare per quanto è assillato dalle lettere di Umberto.

Il presidente dell’Ifil accusa il fratello di inerzia nel suo ruolo di azionista e accusa Romiti di gestire male l’azienda. Si chiede come mai alle sue richieste di delucidazioni Cesarone “risponda sempre con una cortina fumogena. Venivano quindi dubbi molto grossi sulla parte gestionale“ (Mazzuca). Giorgio Garuzzo – che in quel momento è talmente in auge che si parla di lui come un possibile successore di Romiti – si schiera con Umberto nel chiedere una nuova strategia industriale. Umberto mette nero su bianco un piano di salvataggio: si venda tutto ciò che non è strategico per l’auto  (dalla Rinascente alla Toro e così via) per avere liquidità. E liberarsi dall’abbraccio, per lui mortale, di Mediobanca. Anche Garuzzo è d’accordo.

Va avanti un braccio di ferro nel quale Umberto continua a mettere sempre più cartucce nel suo fucile. Fino a quando a giugno Giovanni II ribadisce che tra un anno avrebbe passato lo scettro al fratello. Bismarck annuncia che in questo caso non sarebbe rimasto un minuto in più nella Fiat. E come sempre arriva il Grande Protettore che scompagina tutto. Enrico Cuccia non poteva perdere il suo dominio sulla Fiat, il boccone più succulento  della sua galassia, né poteva perdere chi glielo consentiva, ossia Cesarone. Del resto – scrive Marco Ferrante in Casa Agnelli – Romiti è sempre stato più fedele a Cuccia che agli Agnelli. Il patron di Mediobanca nel 1993 mette a punto un aumento di capitale di 4.200 miliardi (il più grande mai fatto in Italia), con una clausola ferrea: Umberto deve essere fatto fuori dalla successione a Gianni.

A fine settembre il consiglio di amministrazione esegue rinnovando il mandato per tre anni a Gianni e Romiti. Ma c’è un’altra clausola, la più amara per sua Maestà: non essere più sua Maestà. Mediobanca impone un patto di sindacato (del quale fa parte) cui conferisce il 30% del capitale Fiat. Ovvero gli toglie il controllo assoluto. La Famiglia peserà quanto ognuno degli altri soci. E ogni membro avrà il diritto di veto. Non solo: i componenti del consiglio di amministrazione scenderanno da 15 a 11. Uno sarà ovviamente Romiti. Dato che il sindacato di blocco decide che per ogni decisione serve la maggioranza assoluta, senza Romiti e Cuccia non si farà niente. Bismarck gongola: adesso gli manca poco per il potere assoluto, cioè il posto di Gianni.  

Agnelli trascinato da Romiti (che ha chiuso finalmente la sua partita personale con Umberto) capitola.  E il Feldmaresciallo è sempre più Feldmaresciallo. A questo punto scatta la vendetta. Fuori Garuzzo. E’ Garuzzo stesso a raccontare all’autorevole giornale americano Herald Tribune come andarono le cose. Nel 1996, una telefonata dell’Avvocato lo informa che nel nuovo organigramma deciso dagli azionisti, non è prevista la sua posizione (nel frattempo era diventato direttore generale). “Non me ne vado di mia volontà – afferma – mi caccia Romiti senza nessuna spiegazione”. Negli ultimi due anni i rapporti erano diventati “freddi e ostili”, la divergenza riguarda “il diverso approccio alla vita e al business”.  

Il potere logora chi non ce l’ha, diceva Andreotti. Ma nel caso di Romiti forse è stato il troppo potere a logorarlo. Perché a questo punto apre la partita con l’Imperatore. “Un rapporto complesso e ambivalente – scrive Ferrante – si temono, hanno reciproca stima, sono complementari. Uno proietta sull’altro il desiderio di migliorare, l’altro ha trovato la stabilità manageriale, qualcuno che mette in ciò che fa, l’attenzione che lui non mette”. Agnelli non ama i problemi finanziari, si annoia ai consigli di amministrazione, Romiti non ha mai capito niente di auto: “non ricordo un progetto industriale scaturito dell’iniziativa del dottor Romiti”, commenta maligno Garuzzo.

Tra il 93 e il 96 il potere romitiano è assoluto. “E’ la fase più interessante – continua Garuzzo – nel rapporto tra i due: era evidente che considerasse Agnelli irraggiungibile, ma più Romiti diventava potente, più scodinzolava di fronte all’Avvocato. Intanto pensava al dopo”.

Alla fine del 1995 Giovanni II (diventato senatore a vita nel 1991) lascia la presidenza, ha compiuto 75 anni e così vuole lo statuto della Fiat. Ma rimane presidente onorario. Gli subentra a febbraio Romiti, ma quell’onorario può significare molto. Per esempio la successione; in fine dei conti anche per lui l’anagrafe incalza (avrà 75 anni nel 1998). E infatti Re Gianni per il dopo-Romiti donerà lo scettro a suo nipote John Elkan (negli anni precedenti aveva designato Giovanni Alberto, figlio di Umberto, ma era morto nel 1997). Tante volte Cesare si dovesse fare delle idee su una sua riconferma…

I rapporti non sono più come prima. Tangentopoli è arrivata fino a Corso Marconi e c’è il coinvolgimento di Romiti. Il quale è indagato dalla magistratura milanese e torinese. In genere i giudici quando sentono le parole Gianni Agnelli vanno molto molto cauti. Questa volta no.  A Torino vogliono vederci chiaro nell’assegnazione di appalti pubblici. L’interessato replica: Fiat Holding era troppo grande acciocché io potessi tenere sotto controllo tutto quello che facevano le società operative. Quindi non so nulla, ma se avessi saputo avrebbero saputo anche Gianni e Umberto. “E’ lui a tirarli allusivamente in ballo per invitare i giudici ad interrogarli”, scrivono Paolo Griseri, Massimo Novelli e Marco Travaglio in un libro sul processo.

Dal ’92 in galera c’è già un manager, Enzo Papi ex amministratore delegato delle Cogefar Impresit del gruppo Fiat. Nel ’93 sarà la volta di Francesco Paolo Mattioli, ex vice presidente della Fiat, strettissimo collaboratore di Romiti, direttore finanziario del gruppo. Seguito a ruota da Antonio Mosconi, anche lui ex Cogefar e in quel momento direttore della Toro. Tutti e tre in galera per ordine dei magistrati di Mani pulite. Dopo mesi di indagine, Di Pietro punta i fari su Romiti sentito a Milano prima come “persona informata dei fatti”, poi come indagato. A tutti ripete la stessa solfa: non sapevo, ma una serie di testimoni (Mosconi, Garuzzo, Ghidella) raccontano il contrario. Ghidella dirà esplicitamente: “il regista delle spese politiche era Romiti”. Inoltre il pool di Mani Pulite ha scoperto che in Svizzera c’è un conto Fiat, attraverso la Banca Unione Commercio, di sua proprietà, con il quale venivano regolarmente pagate tangenti con fondi neri provenienti da alcuni affari conclusi anni addietro in Argentina, con il vecchio regime militare. Quei fondi erano indicati con il nome di “Tesoretto”.

Alla fine Corso Marconi alza bandiera bianca: facciamo qualche ammissione. Anche in Fiat si sono verificati “episodi di commistione con il sistema politico”, ammetterà l’Avvocato.

Ma ai giudici non basta e per Romiti arriverà dalla magistratura di Torino nel 1977 lo condanna per falso in bilancio, revocata nel 2003 per l’abolizione del reato. Da quella milanese, 11 mesi di reclusione per finanziamento illecito ai partiti e frode fiscale. Non farà mai un giorno di galera perché gli danno la condizionale.

Né Cesarone ammetterà mai apertamente un coinvolgimento degli Agnelli. Nel 1995 il giudice Sandrelli gli dice che se ammette di aver saputo e di averlo detto all’Avvocato, avrebbe fatto la comunicazione giudiziaria a Gianni Agnelli e a suo fratello Umberto. Riprendiamo il libro di Marco Ferrante Gli Agnelli che ben spiega l’accaduto: “io vi dico l’inverso- risponde Romiti – : che se lo avessi saputo l’avrei detto a lui come a Umberto. Voglio dire: se voi dite questo (che io non potevo non sapere) dovete tener conto anche di questa dichiarazione”. Una non ammissione, una non chiamata in correo che potrebbe voler dire molto.  

I rapporti con Giovanni II a questo punto sono veramente deteriorati. Bismarck rimprovera all’imperatore di non averlo difeso abbastanza, l’imperatore non gli perdona l’atteggiamento tenuto con i giudici, “anche perché fa risalire allo stesso Romiti la responsabilità del coinvolgimento del gruppo nelle inchieste, che arriva proprio sul versante delle società di costruzioni acquisite dall’amministratore delegato nella sua strategia di diversificazione” (Ferrante).

Come abbiamo già detto, Romiti nel 1998 esce dalla Fiat. Con una liquidazione d’oro. 100 e rotti milioni di euro, più le quote in Gemina che lo fanno diventare il socio più importante, in pratica padrone del Corriere della Sera.

E’ la somma più alta mai pagata ad un manager. A succedergli è un suo uomo, Paolo Cantarella che spiega: è un “premio speciale” voluto dal presidente onorario, ma non spiega come era stato fatto quel calcolo. Né lo spiega l’interessato. “Così stabilì l’Avvocato” taglia corto in una intervista al Sole 24 ore.

“La liquidazione d’oro – scrivono Gianni Dragoni e Giorgio Meletti ne La paga dei padroni – impegnava Romiti al silenzio, a non rilevare i segreti sugli affari del gruppo. E’ lecito pensare che non si trattasse solo di informazioni su come si costruiscono le automobili”.  In realtà – spiegano i due giornalisti – il premio di cui parlava Cantarella era solo la metà di quello effettivamente versato. Gli azionisti Fiat ebbero modo di apprendere la cifra vera solo un anno dopo, leggendo il bilancio.

Uscito da Torino, guida Gemina dal 1998 al 2004 e la società di costruzioni e ingegneria Impregilo. Nel 2005 entra nel patto di sindacato degli Aeroporti di Roma. Ma due anni dopo la famiglia Romiti (Cesare ed i suoi due figli Maurizio e Piergiorgio) viene progressivamente estromessa proprio da Mediobanca da tutte e tre le società. Lui deve ripiegare sulla presidenza dell’Accademia delle Belle Arti. Nel 2000 era morto Enrico Cuccia.






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