Da giorni è un affannarsi per evitare la crisi di governo minacciata da Renzi. Nel suo discorso di fine anno il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si è mostrato molto preoccupato ed ha fatto appello a tutte le forze politiche affinché trovino la capacità di trasformarsi in costruttori. Ma, esistono questi costruttori, e dove sono?
Osservando con attenzione le partite che si stanno giocando sul campo della politica nazionale, la probabilità che l’invito del Presidente abbia ascolto tende verso lo zero. I rapporti tra governo e parlamento, all’interno della maggioranza che sostiene l’esecutivo e anche tra le forze di opposizione si sono incancreniti. Solo un miracolo politico potrebbe riportare la situazione in positivo, ma non si vede chi può determinare un evento di portata risolutiva.
Così, oltre il plauso ricevuto da ogni parte politica e da ogni settore del parlamento, il messaggio di Mattarella rimane una voce clamante nel deserto.
Eppure non bisogna disperare
In che senso? La politica è un intrinseco gioco di azzardo. Se viene proiettata sulle regole del poker, emerge che non tutti i giocatori sono in possesso di carte che assicurano un punto vincente, la gran parte di loro o abbandonano il piatto o alzano la posta ricorrendo al bluff. In un altro tipo di gioco, non rischioso, come lo scopone, chi, nella distribuzione delle carte è stato svantaggiato dalla sorte, ha a sua disposizione una mossa, lo spariglio, che fa saltare il corso della partita. Nel gioco degli scacchi, è la mossa del cavallo che può aiutare chi ha tutto contro e trova con quella una via di uscita persino vincente.
Venendo all’attualità della situazione italiana, l’analisi deve partire dalla posta che è sul tavolo. E qui la visione dei giocatori è divergente, chi considera la gran massa di risorse finanziare che stanno per arrivare (209 miliardi dall’Unione Europea) come l’occasione per una grande spartizione clientelare, chi al contrario crede (o almeno sostiene) che quei fondi vanno utilizzati per un progetto di prospettiva e di ricostruzione dell’Italia.
Al primo partito appare, obiettivamente, iscritto il governo giallorosso e il suo presidente del coniglio, Giuseppe Conte. Non si spiega altrimenti tutto ciò che è stato detto e fatto in questi mesi: imbandire una tavola (piatto ricco mi ci ficco, nel linguaggio del poker) riservata ai sodali, lasciando fuori o in posizione del tutto marginale le opposizioni e, soprattutto, il parlamento. Non sono soltanto indizi, ma prove se si pensa alla protervia con cui il presidente Conte difende il suo progetto.
Al secondo partito appartengono quelli dell’opposizione (Forza Italia, Lega, Fdi) e quelli fino a ieri interni alla maggioranza di governo, come Italia Viva di Renzi, che si sentono emarginati, considerati irrilevanti, e dunque posti all’angolo.
Si apre in tal modo un intreccio di giochi. Il secondo partito, e soprattutto Renzi, ha posto questioni dirimenti: serve un progetto vero capace di supportare la ricostruzione italiana, civile sociale ed economica; va preso e utilizzato il Mes (35-36 miliardi di euro) per rimettere in piedi il sistema sanitario nazionale; l’accentramento dei poteri in mano a Conte deve cessare, in particolare sul controllo dei servizi di sicurezza, lasciando intendere che ci sia qualcosa di poco chiaro nel rifiuto di Conte; basta con i Dpcm (decreti del presidente del consiglio dei ministri) che attribuiscono allo stesso Conte quei pieni poteri che nell’estate del 2019 furono la causa della caduta di Salvini.
Queste sono, per così dire, le formazioni in campo nella partita che sta per iniziare.
Negli spogliatoi delle squadre, la situazione è turbolenta. Il Pd, da antico giocatore di attacco si è arroccato in difesa, supplica Conte di darsi una mossa, come aspettando quel Godot che non arriverà mai. Contemporaneamente non sopporta l’Iniziativa di Italia Viva che rischia di sconvolgere i suoi piani: restare in sella al governo, nonostante esso sia minoritario nel paese, e desideroso di giocare le sue carte alla prossima e più importante scadenza, l’elezione del Presidente della Repubblica che nel 2022 succederà a Mattarella. La situazione interna è assai precaria, dai gruppi parlamentari emerge un malessere nei confronti della politica, anch’essa immobilista, del segretario Zingaretti, il quale per ripararsi dalla fronda interna manda avanti il capo della delegazione al governo, Franceschini. Quest’ultimo, da vecchio democristiano ha provato a giocare la carta dell’inferno nei confronti di Renzi, facendo vedere all’orizzonte elezioni anticipate. Un bluff da scuola materna, la risposta è stata sprezzante, bravi, così perdete governo, tavolo del Recovery fund, e andrete ad una sconfitta elettorale certa.
Dall’altro socio del governo, i 5Stelle non perviene alcun segnale chiaro, se non l’eco ridondante della paura per elezioni che ne ridurrebbero drasticamente la rappresentanza parlamentare.
Movimento e subbuglio anche all’opposizione. La proposta di una mozione di sfiducia al premier e al governo, avanzata , dall’on. Meloni, leader di Fratelli d’Italia, è stata stoppata dalla Lega, sostenendo che l’iniziativa si sarebbe risolta a vantaggio di Conte al momento di un voto di fiducia.
La Lega sta alla finestra, guardando gli avversari che si accapigliano. Sta prevalendo la prudenza e il senso tattico di Giorgetti rispetto all’irruenza senza esito di Salvini. Se la Lega vorrà avere voce in capitolo nel futuro politico che si prepara, la persona accreditata a prendere l’iniziativa non potrà essere che Giorgetti il quale sta lavorando alacremente anche tra i rappresentanti dell’Unione Europea, preparando un rovesciamento di fronte.
Mentre la Meloni e Salvini si combattono sotterraneamente per acquisire la leadership del centro destra, senza sapere dove andare in concreto, ecco l’ennesimo ritorno di Silvio Berlusconi, il quale rivolgendo un lungo “messaggio ai giovani”, su Il Giornale del 31 dicembre scorso, rivendica a sé stesso la guida delle forze liberal moderate, “abbiamo le idee giuste per tornare alla guida del paese, da leader, non da comprimari, con un governo credibile e autorevole in Europa e nel mondo”.
Ed ecco la scadenza del 7 gennaio, vista come lo scontro finale tra Conte e Renzi.
Da come si è messa la partita, l’attacco di Renzi, motivato da presupposti documentati e decisivi, dovrebbe portare alla crisi di governo. La contromossa di Conte, di portare la questione in parlamento, è un arma spuntata, in primo luogo perché è l’unica strada costituzionalmente corretta, in seconda battuta perché l’alternativa a lasciare la poltrona di Palazzo Chigi sarebbe quella di trovare un numero sufficienti di responsabili per continuare ad avere uno straccio di maggioranza. Al momento non pare li abbia, ma come ha notato Clemente Mastella, i “vietcong” spuntano all’improvviso.
Ad un osservatore che si ponga il problema del futuro dell’Italia, l’esito dello scontro, al momento, non appare decisivo. Infatti, non interessa la vittoria immediata, conta la visione di prospettiva. In quest’ottica, Conte è decisamente perdente, nessuno gli darebbe più spazio politico anche nel caso per lui favorevole di restare momentaneamente a Palazzo Chigi. La sua malcelata passione di salire come inquilino del Quirinale, è già divenuta evanescente, che riesca o a fare un suo partito personale. Bene che gli vada, potrà contare su un tempo supplementare, ma il risultato è fissato.
Renzi sta costruendo una prospettiva politica e, anche andando all’opposizione, si qualifica come il punto possibile per un’alternativa di governo futuro, costituendo di fatto il motore di un’aggregazione di forze liberal riformiste, percorso lungo il quale potrà anche ritrovare le ragioni del patto del Nazareno con Berlusconi e, più in là, il possibile incontro con Giorgetti e la parte della Lega non becera.
Se Renzi evitasse la crisi, farebbe l’errore più madornale possibile, per l’Italia prima che per i suoi interessi personali. Dopo la sconfitta del referendum, gli si presenta un’altra grande e insperata occasione, quella di sparigliare il gioco sia all’interno del governo sia tra l’opposizione. Ha di nuovo la possibilità per costruire un’altra mossa del cavallo dopo quella che ha portato all’emarginazione di Salvini.
Nessuna paura della crisi di governo, non è il lupo cattivo che troppi paventano, è normale prassi della democrazia.
C’è un vecchio adagio che dice “il medico pietoso fa la piaga puzzolente”. L’Italia conosce già le sue piaghe.
E nessuna paura per l’immediato futuro, un governo parlamentare è possibile, il Presidente della Repubblica è bene in grado di individuare una soluzione istituzionale, di garanzia per tutti, escludendo l’assegnazione di pieni poteri che non sono previsti dalla Costituzione.
Un governo di garanzia costituzionale, per porre fine ad una situazione che si è attorcigliata e incancrenita. Le crisi servono anche a questo, a tagliare i rami marci.