Cosa c’entra l’etica con la finanza o, più in genere, con l’economia? E’ un tema complesso e abbastanza innovativo rispetto ai canoni della “scienza” classica, nel cui ambito si guarda essenzialmente al risultato delle politiche economiche senza andare troppo per il sottile. Ma, anche qui la storia sta cambiando, e l’etica entra di forza nei ragionamenti e nei comportamenti degli operatori. Per il momento l’attenzione è maggiore da parte dei cosiddetti tecnici e meno dei politici, dai quali ultimi, invece, attraverso le politiche economiche, dipendono gli orientamenti di fondo.
L’argomento è stato discusso il fine settimana scorso a Lanciano, come panel di un convegno di studi organizzato dall’Associazione degli amici di Marcello De Cecco, valente economista abruzzese ormai scomparso. Tra i relatori Lorenzo Sacconi (Università di Milano), Marcello Vinciguerra (ad Honda Italia), Paolo Garonna (segretario generale FeBaf), Vincenzo Visco (ex ministro delle finanze), Maria Alessandra Rossi (Univ. D’Annunzio) e Giovanni Legnini (ex vicepresidente del CSM).
L’etica, in una valutazione globale, costituisce essa stessa un fattore di sviluppo, ma sarebbe più logico dire che lo sviluppo è coerente con l’etica, in quanto essa permea l’intero svolgersi della vita umana, a cominciare dal rispetto delle regole.
La conoscenza, l’accettazione del sistema delle regole (norme di legge, ed altro) e il suo rispetto, costituiscono il primo fondamento dell’etica, e rappresentano strumenti essenziali per il conseguimento degli obiettivi dell’economia e della finanza. Ne deriva che, se adottata come fattore qualificante, l’etica contribuisce al raggiungimento di risultati positivi per lo sviluppo economico e sociale.
Garonna,in particolare, ha ricordato come il primo impegno etico nella gestione dell’economia moderna si trova in alcune pagine della “Teoria generale”, dissacratorie del preesistente mondo finanziario, dove J.M. Keynes affronta la questione della stabilizzazione anticiclica (anni ’30 del ‘900). L’intuizione e la sortita dell’economista inglese cozzò contro l’establishment finanziario del tempo. Solo più tardi, con la teoria del “capitale sociale” (Putman), legato al ruolo della religione nella società americana, perde assolutezza il modello proprio della cosiddetta “secolarizzazione della finanza”.
Gli economisti teorici – sottolinea Sacconi – separano i risultati dai processi seguiti: gli affari vanno bene e gli utili si possono ottenere senza la necessità di agire rispettando motivazioni morali. Il “mercato” può fare a meno delle “regole”, fino ad un punto in cui l”opportunismo finisce per scontrarsi con l’etica.
All’interno di questo sistema, la presenza determinante di fattori quali i patrimoni iniziali, le relazioni familiari, i legami amicali, genera una disuguaglianza e quindi una distribuzione non equa del benessere, con l’appropriazione di risorse comuni da parte dei soggetti privilegiati. La stessa meritocrazia viene fortemente limitata se non del tutto sopraffatta.
Un ulteriore, non meno importante, condizione per un’economia etica è rappresentata dalla “protezione della proprietà individuale” (M.A. Rossi), in particolare i brevetti. Il problema deriva dal fatto che i brevetti hanno a che fare con una giustificazione etica: + brevetti = + innovazione = + benessere per tutti. Va però messo in evidenza che in questo campo si verificano facilmente fenomeni distorsivi, come ad esempio nei settori a “tecnologia complessa” dove il primo brevetto può agire da ostacolo allo sviluppo. Ancora più rilevanti gli effetti negativi prodotti dai brevetti costituiti da aggregazione di dati (ad esempio quelli sul dna, utilizzati negli Usa per la produzione di farmaci anticancro), che finiscono per dare un indebito vantaggio (e forti profitti) ai loro utilizzatori, a danno di altri ricercatori e produttori.
Per restare nell’ambito dei comportamenti etici anche in economia, appare utile porre limiti all’estensione dei brevetti così come all’utilizzo della proprietà intellettuale.