Tra il 24 febbraio (scoperta dei focolai di Codogno e Vò Euganeo) e l’8 marzo (decreto di chiusura della Lombardia e 14 province) furono accertati 7.375 casi di coronavirus, di questi 997 (il 13,5%) erano concentrati in provincia di Bergamo (dove risiede meno del 2% della popolazione italiana).
Le due settimane di inazione delle autorità politiche e sanitarie di fronte a questi dati hanno reso le conseguenze sanitarie, sociali ed economiche dell’epidemia molto più gravi di quanto avrebbero potuto essere se si fosse intervenuti tempestivamente, adottando le misure di isolamento nelle zone (a partire dai comuni di Alzano e Nembro) dove il contagio si stava manifestando in forma così rilevante.
I calcoli dell’Istat, di cui si è parlato la scorsa settimana, consentono di stimare in 50.000 unità i decessi aggiuntivi provocati dall’epidemia in Italia. La stessa Istat fornisce una previsione (prudenziale) di un calo annuale del Pil del -8,3% (cioè una perdita di quasi 150 milioni di euro) e del -9,3% delle unità di lavoro (circa 2 milioni); nel bimestre marzo-aprile la produzione industriale è crollata del 40% e l’attività alcuni grandi settori manifatturieri come la produzione di veicoli e le industrie tessili (670.000 dipendenti dichiarati) è stata sostanzialmente azzerata.
Non credo che le autorità politiche e sanitarie, nazionali e regionali lombarde, abbiano commesso dei reati. Credo però abbiano commesso degli errori, dei gravi errori.
Va riconosciuto che decidere in condizioni di incertezza è difficile e il supporto fornito dalle competenze tecnico-scientifiche non è stato dei migliori e riconoscere i propri errori non è mai facile, soprattutto quando si svolge un ruolo pubblico. Ma va anche detto che presentarsi come “salvatori della patria” (italiana o padana che sia) come hanno fatto sia il Presidente del Consiglio Conte sia il Presidente della Lombardia Fontana è una manifestazione di arroganza che si sarebbero potuti risparmiare.