domenica 22 Dicembre 2024
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Cronaca di disastri economici finanziari e politici

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Due lunghi, documentati e pregevoli interventi su Moondo, il primo di Stefania Conti su Cesare Romiti (in due puntate del 31 agosto e del 4 settembre u.s.), il secondo di Mario Pacelli su Eugenio Cefis (il 12 ottobre), inducono a molti ricordi e qualche modesta riflessione sulle vicende dell’industria e della finanza italiana dall’inizio degli anni ’70  alla fine degli anni ’90 del secolo scorso e di seguito fino ad oggi.

I personaggi delineati, Romiti e Cefis, fanno parte di quella “famiglia” di attori  che hanno agito sulla scena economica finanziaria e politica interferendo pesantemente sulla storia nazionale tout court. La “famiglia” comprendeva altri nomi altisonanti e commendevoli, da Guido Carli, per lunghi anni governatore della Banca d’Italia, a Gianni Agnelli, deus ex machina della Fiat e dintorni, a Nino Rovelli, antagonista di Cefis con il suo gruppo chimico Sir-Rumianca, e, soprattutto, Enrico Cuccia, dominus di Mediobanca. 

Attori diversi, per origine ed appartenenza, Mario Schimberni che, alla guida di Montedison,  tentò di  dar vita alla prima grande public company italiana, e da ultimo Raoul Gardini che, partendo dalla Ferruzzi finanziaria, operò l’ultimo sparigliamento di carte del vecchio capitalismo italiano  organizzato attorno a  Mediobanca.

L’intreccio di potere tra pubblico, privato e politica nel primo dopoguerra

Ciascuno dei personaggi appena nominati merita studi e, addirittura, volumi a parte. Ma, questo è lavoro per studiosi della storia, economica e non solo, dell’Italia a partire dagli ultimi trent’anni del secolo scorso fino ad arrivare a giorni più vicini a quelli attuali. 

Storia a “tutto tondo”, perché le loro vicende e le loro azioni si intrecciarono strettamente con i personaggi che convissero sulla scena politica, accompagnando e per tanti versi determinando le stesse vicende politiche che hanno segnato quegli anni, ponendo i prodromi della situazione attuale.

Se la nozione non è esagerata, si può sostenere la tesi che dalle guerre di cui essi furono protagonisti e dalle conseguenze che ne derivarono sull’intera vita nazionale, nasce la stagione di “mani pulite” con lo sfascio della “prima Repubblica”, l’incerta vita della “seconda”, la confusione e l’incompetenza di quella attuale.

Andando per linee estreme e  “tranciando” giudizi che qui possono essere avventati e dunque quelli onesti vanno lasciati ai sopra ricordati storici, si può ricostruire un quadro sintetico  abbastanza illuminante.

Cefis fu l’archetipo della corruzione politica. Uomo venuto dalla Resistenza e forse a vari “servizi”, approda all’Eni di cui diviene presidente dopo la morte di Enrico Mattei, vittima del disastro subito dall’aereo aziendale sul quale Cefis non salì dopo aver accompagnato il presidente in un largo giro in Sicilia.    

Nel 1971, dopo la presidenza di Cesare Merzagora (ex presidente del Senato) e poi di Pietro Campilli (ex ministro della Dc), entrambi dimissionari, arriva l’ora di Eugenio Cefis, sostenuto – come lo indica anche Mario Pacelli nel suo scritto – da Carli e da Cuccia. Guido Carli è nientemeno che il governatore della Banca d’Italia, Enrico Cuccia, al tempo, è l’amministratore delegato di Mediobanca, banca d’affari al centro del sistema finanziario italiano.

Uomo di potere assoluto, con i finanziamenti a partiti e gruppi politici agì pesantemente sulla politica italiana. E chi quì scrive ha qualche ricordo diretto. Autore di alcune note critiche pubblicate su l’Avanti! a proposito della scalata che Cefis conduceva alla Montedison con i fondi Eni, fu prima contattato da esponenti del suo entourage (Pergola e Gioacchino Albanese) per “convincerlo” e, più tardi, dopo il congresso del Partito socialista, che si svolse a Genova alla fine del 1971, gli fu comunicato che “doveva scrivere poco e ben controllato”. Perché?  

A parte l’episodio personale, che non ha valore, la cronaca si intreccia con le vicende interne al Psi. La strategia di Cefis, che sosteneva la corrente demartiniana, era ostacolata dall’allora segretario del partito Giacomo Mancini, leader della componente autonomista. Al congresso vinse la componente opposta e De Martino fu eletto segretario.

La forza, e con ben maggiore potenza di fuoco, era esercitata all’interno della Dc, come bene ha riportato Mario Pacelli. Ma Cefis pagava tutti, dall’estrema destra di Pisanò ed il suo settimanale Candid, a sinistra, nessuno escluso.

Il grande scontro verteva sui finanziamenti pubblici per lo sviluppo industriale, che venivano erogati  attraverso IMI e ICIPU a seguito dei “pareri di conformità” rilasciati  del Cipe (Comitato per la programmazione economica). La partita era dura e giocata a tutto campo, protagonista,  egualmente,  gruppi privati e  gruppi pubblici, in un intreccio di programmi  sbandierati e pressioni sotterranee, senza esclusione di colpi, che attraversavano trasversalmente le forze politiche, componendo e scomponendo continuamente alleanze politico-finanziarie-industriali.  IRI ed ENI, i due colossi delle partecipazioni statali, si tiravano sgambetti l’un l’altro, ed insieme contrastavano i grandi gruppi privati: Fiat, Pirelli, Montecatini, Edison ecc.

La chimica: Montedison ed Eni e l’ipotesi colpo di Stato

Il settore industriale dove lo scontro fu più violento riguardava la chimica, al cui centro stava la Montecatini, divenuta Montedison dopo la fusione con la Edison. La prima portava la conoscenza, i brevetti e la tecnica, la seconda i capitali piovuti dalla nazionalizzzazione dell’energia elettrica.

Montedison, attraverso le società controllate era il primo produttore mondiale di propilene, era tra i leaders per polistirolo, gomme sintetiche, antitumorali, antibiotici,  fertilizzanti, fitofarmaci, e primo produttore privato di energia in Italia. 

Come  detto, partendo dall’Eni Cefis si lanciò alla conquista della Montedison, cavallo di battaglia per ottenere il controllo dell’intera scena nazionale, da far nascere l’ipotesi di un possibile tentativo di colpo di stato.

Nella partita si inserì un nuovo concorrente, Nino Rovelli che controllava Sir-Rumianca, il  terzo gruppo chimico italiano dopo la Montedison e l’Eni che operava  principalmente attraverso l’Anic.

Se Cefis si appoggiava a settori decisivi della DC, e come si è detto alla maggioranza del Psi, oltre alla destra ed al Pci (tanto che un suo antico assistente comunista veniva, in campo giornalistico, scherzosamente chiamato Pireni), Rovelli si era buttato sul lato opposto, verso la Dc di Giulio Andreotti e Giovanni Leone, ed il Psi di Giacomo Mancini. La lotta veniva condotta anche attraverso la stampa ed il controllo di  giornali. Cefis puntava sul Corriere della Sera, che poi convinse Angelo Rizzoli j. ad acquistare, e sul neo editore de il Giornale. Rovelli rispondeva con la Nuova Sardegna (aveva impianti industriali nell’isola) e con il Giornale di Calabria a sostegno di Mancini.

Cefis e Rovelli, un destino comune. Entrambi verso il fallimento dei loro disegni. 

La Montedison di Cefis, negli anni ’70, inanella una serie di bilanci in rosso. Nel 1975 ha un fatturato di 5,41 miliardi di dollari e 150.000 dipendenti, ma la barca continua a  fare acqua e si conta sui finanziamenti pubblici che non arrivano. Nel 1977 Cefis lascia la Montedison e va a curare i suoi affari privati, ricchi per miliardi, in Canada a Vaduz e Zurigo.  Poi, come si dirà appresso, la Montedison prenderà una svolta. 

Gli affari vanno male anche per Nino Rovelli, colpito dalla crisi petrolifera degli anni ’70 che sarà determinante nella guerra della chimica (e vedrà anche la scomparsa dell’Anic controllata da Eni). Nel 1979 Rovelli, per fronteggiare un buco di 3.000 miliardi di lire, è costretto a cedere la SIR ad un consorzio bancario, ma non accetta  la conclusione e accusa l’IMI, chiamandolo in causa, di aver contribuito a far decadere il gruppo Sir per non avergli concesso un finanziamento già concordato in un precedente contratto di collaborazione.

La  storia IMI-SIR va ricordata per le straordinarie vicende giudiziarie che ne seguirono. Nel 1990 il Tribunale di Roma da ragione a Rovelli e la Cassazione, due anni dopo, condanna definitivamente l’IMI a risarcire la famiglia Rovelli (Nino era deceduto a Zurigo il 30 dicembre del 1990) per l’importo monstre di 1.000 miliardi di lire. Una successiva sentenza dell’Alta corte, pronunciandosi in un giudizio riunito con il cosiddetto “lodo Mondadori” (scontro tra Berlusconi e De Benedetti), rovescia il precedente verdetto e in più condanna, per aver allora corrotto i giudici, gli avvocati Cesare Previti, a risarcire 23 miliardi di lire, Attilio Pacifico, 33 miliardi, e Giovanni Acampora, 13 miliardi. 

Ma, non finisce. Poiché il giudice corrotto, Vittorio Metta, e l’avvocato Acampora, risultano insolvibili. Di conseguenza, a far fronte alle spese giudiziarie sarà chiamata la Presidenza del Consiglio dei Ministri per i 173 milioni di euro riconosciuti  a Intesa Sanpaolo.

Schimberni e l’idea di Montedison come public company

Partito Cefis, per la Montedison si apre una nuova stagione. La presidenza va a un ex ministro democristiano, Giuseppe Medici, che poi si dimette per contrasti con Eni e Mediobanca, a cui segue Mario Schimberni, un manager romano fuori dai giochi di potere fino allora condotti.

Con l’inizio degli anni ’80, dopo l’assassinio di Moro (1978) da parte delle Brigate rosse e la fine del compromesso storico tra la Dc e Partito comunista di Enrico Berlinguer, cambia il quadro politico con i governi laici guidati prima dal repubblicano Giovanni Spadolini, poi da Bettino Craxi.

Nella nuova situazione generale, Mario Schimberni ha la possibilità di avviare un innovativo esperimento finanziario, portare la Montedison fuori dalla chiesa del capitalismo di famiglia e farne una grande public company, la prima in Italia a capitale diffuso. 

Schimberni: Montedison la “ristrutturazione concertata” e lo scontro con Cuccia

Schimberni ha una visione nuova, ponendo in risalto l’aspetto industriale rispetto a quello puramente finanziario; punta sulla “ristrutturazione concertata” (se ne dirà poi di seguito) e attraverso una serie di interventi di razionalizzazione porta, nel 1984,  al pareggio di bilancio il più disastrato gruppo italiano dagli anni ’70. Tre anni dopo, nel 1987, il fatturato è salito a 13.791 miliardi di lire e l’utile sale a 586 miliardi, il più alto risultato di sempre.

Ecco la “ristrutturazione concertata” che va di pari passo con quella praticata a Torino con la marcia dei 40 mila organizzata dalla Fiat guidata da Cesare Romiti. C’è però un netta differenza, mentre alla Montedison di Schimberni i 33 mila esodi (su 117 mila dipendenti) vanno via via ricollocati nell’indotto, alla Fiat di Agnelli e Romiti 50 mila (su 200 mila) dipendenti conoscono solo licenziamenti e cassa integrazione.

Su Cesare Romiti ha scritto a sufficienza Stefania Conti e ai suoi articoli si rimanda. 

Sulla Montedison risanata si accendono più interessi e, soprattutto, il riflettore di Enrico Cuccia che vede peggio del fumo negli occhi Schimberni e la sua public company che rischiano di scombinare il “salotto buono” della finanza italiana, dove le carte sono sempre distribuite da Mediobanca in un gioco che somiglia a ruba mazzo e dove a vincere sono sempre i soliti noti. 

l vecchio patron Cuccia che, non si dimentichi, era stato disconosciuto dal padre putativo e promotore di Mediobanca, Raffaele Mattioli, perché troppo ardito nel gioco di potere rispetto al mandato di sostegno finanziario a medio termine delle attività produttive, non sopporta l’autonomia del manager romano e cerca, invano, di ostacolare l’acquisizione della compagnia assicurativa Fondiaria da parte di Montedison. E allora si mette di traverso, d’altro canto è lui che, dal 1981, ha guidato la privatizzazione della Montedison mediante la composizione di un consorzio partecipato dai gruppi Agnelli, Pirelli, Bonomi, Orlando, che ha acquisito il pacchetto di controllo del gruppo.

A seguito di “attriti” con Schimberni, i maggiori soci escono da  Montedison. Entrano gli emergenti, i gruppi Varasi (vernici), Inghirami (abbigliamento), Maltauro (costruzioni), Ferruzzi (agroalimentare). Il più attivo è il gruppo Ferruzzi che vede l’occasione per lanciare la chimica verde legata al settore agroalimentare. Nel 1987, dopo un serie di acquisti, Ferruzzi giunge a detenere il pacchetto di controllo (40%) di Montedison. Schimberni lascia il gruppo e alla presidenza si insedia Raoul Gardini, genero del vecchio Serafino Ferruzzi. Montedison diventa il primo gruppo industriale italiano.

Nel 1988 nasce Enimont (40% Montedison, 40% Eni, 20% flottante). Segue, nel 1990 la cessione all’Eni.

La fine tragica e ancora oscura di Gardini, alla vigilia di una chiamata dei pm milanesi, chiude una pagina controversa della storia italiana. 

Nel panorama economico finanziario ancora di quegli anni, essere diventato il “primo gruppo privato italiano” dava disturbo a Torino, dove però non si disprezzava un buon boccone. Così, nel 2001, in accoppiata con EDF, il colosso statale francese dell’energia, Fiat scala Montedison, per poi smembrare il gruppo, venderne le diverse componenti, lasciando la sola parte energetica, Edison, sotto il controllo di EDF e della comunale milanese AEM.  

Per concludere una piccola riflessione sul ruolo giocato per quasi mezzo secolo da Guido Carli, prima come governatore della Banca d’Italia, poi come presidente di Confindustria in sintonia con il predecessore, e presidente della Fiat, Gianni Agnelli

Che sia stato eccellente nei ruoli esercitati è fuori dubbio, resta da dire se fu neutrale o meno nella scena politica sulla quale rimase a lungo come uno, se non addirittura il principale, dei grandi protagonisti. A cavallo degli anni ’70 guidò e determinò la politica valutaria in modi che, al vedere modesto di chi qui scrive, favorì le svalutazioni successive della moneta nazionale, la lira. Ciò contribuì alla caduta del sistema produttivo italiano, anziché spingerlo verso l’innovazione tecnologica e la crescita della produttività, favorendo sul mercato interno la crescita dei prezzi  e l’esplosione dell’inflazione, con riflessi negativi sulla scala mobile e conseguenze pesanti sulle relazioni sindacali sociali e politiche. Certo, un gran commis dello Stato,  ma di uno Stato che anche in virtù degli esercizi di così tanti e valenti “grand commis”, e insieme a loro di quei politici, un nome su tutti Beniamino Andreatta, che partorirono la geniale idea del “divorzio” tra banca d’Italia e Tesoro per il sostegno ai titoli del debito pubblico, oggi è finito come si conosce.

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