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venerdì 29 Marzo 2024
Inventario storicoDino Grandi: maestro dell'intrigo politico

Dino Grandi: maestro dell’intrigo politico

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Dino Grandi fu un vero maestro dell’intrigo politico italiano nella prima metà del novecento. Fascista, braccio destro di Mussolini, nazionalista, imperialista e colonialista convinto, entrò poi in contrasto con il duce, fu costretto a fuggire dall’Italia e si rifece una vita in Brasile.

La marcia su Roma, con a capo Dino Grandi

Roma, 28 ottobre 1922, quattro colonne di militanti fascisti al comando rispettivamente di Cesare De Vecchi, Michele Bianchi, Emilio De Bono e Italo Balbo marciano su Roma. Nel Partito nazionale fascista hanno prevalso le correnti favorevoli all’insurrezione contro il Governo Facta.

Cinque giorni prima, il 23 ottobre Mussolini aveva avuto a Roma un incontro con Antonio Salandra in vista della formazione di un governo presieduto dal vecchio uomo politico liberale, Presidente del Consiglio dal 1914 al 1916 e fautore di una Destra nazionale che consentisse ai liberali, con l’appoggio dei fascisti e dei nazionalisti, di sconfiggere cattolici e socialisti e di riprendere la guida del Paese.

Era però solo una mossa strategica: Mussolini voleva essere lui stesso il nuovo Presidente del Consiglio.

Il Governo Facta doveva essere costretto alle dimissioni ma al tempo stesso occorreva evitare uno scontro frontale che avrebbe visto i fascisti sicuramente soccombenti. Era necessario dunque mantenere aperta la strada anche a soluzioni politiche diverse da quelle di un Governo Mussolini e che tuttavia segnassero la sconfitta definitiva di Giolitti e delle forze politiche che a lui continuavano a fare riferimento.

Il 26 ottobre Mussolini, proseguendo nella politica del doppio scenario, aveva fatto sapere al Presidente del Consiglio Facta che i fascisti erano disposti ad entrare a far parte di un Governo da lui presieduto: era una mossa che serviva a rassicurare il Governo sul significato non eversivo della manifestazione programmata per due giorni più tardi.

Il 27 ottobre i concentramenti di fascisti in molte città dell’Italia settentrionale dimostrarono chiaramente che la marcia su Roma non sarebbe stata una qualsiasi manifestazione politica. All’alba del giorno successivo Vittorio Emanuele III si rifiutò di firmare lo stato d’assedio. il Governo Facta si dimise, le colonne fasciste entrarono nella capitale.

Capo di Stato Maggiore dei Quadrunviri, cioè dei quattro comandanti delle altrettante colonne fasciste era Dino Grandi, che per un quasi paradossale scambio di parti, segnato peraltro da una rigida logica politica, fino a poche ore prima aveva trattato con Salandra e con Vittorio Emanuele Orlando per una soluzione legalitaria della crisi politica e per la formazione di un Governo con la partecipazione dei fascisti.

Il 29 ottobre Salandra ricevette dal re l’incarico di formare il nuovo Governo ma il giorno successivo si recò al Quirinale per declinarlo, dopo aver constatato la volontà di Mussolini di rifiutare ogni tipo di collaborazione e di voler formare egli stesso il nuovo Governo.

L’incarico gli fu affidato dal re il giorno stesso: il 31 ottobre cinquantamila camice nere sfilarono a Roma davanti al re ed al nuovo Presidente del Consiglio, al fianco del sovrano nel balcone del Palazzo del Quirinale.

Avrebbe dovuto essere l’inizio della fortuna politica di Grandi: fu invece l’inizio di un suo breve allontanamento dalla scena politica dovuto alla posizione indipendente, anche se mai giunta fino alla rottura, da lui assunta nel movimento fascista, fino a segnarne il 25 luglio 1943 le sorti.

Chi era Dino Grandi

Nato il 4 giugno 1895 a Mordano di Romagna, vicino Imola, figlio di un piccolo proprietario terriero e di una maestra elementare, Grandi crebbe in una atmosfera familiare di propensione per la politica. Suo padre era un mazziniano ma, al tempo stesso, di fede monarchica, amico di Andrea Costa, che frequentava la sua casa.

Al liceo classico “Ariosto” di Ferrara conobbe Italo Balbo. Il patriottismo risorgimentale ereditato dal padre presto si trasformò in un nazionalismo di tipo radicale.

Letture preferite, come scrisse nella sua autobiografia, erano in quel periodo la rivista “Pagine libere”, di Arturo Labriola e Paolo Orano, che lo avvicinò al pensiero di Gorge Sorel ed alla filosofia dell’azione, oltre a “La voce” di Prezzolini e a l'”Unità” di Salvemini. Lesse anche “La rivolta ideale” di Alfredo Oriani e ne rimase vivamente colpito.

Nel pensionato di studenti cattolici in cui era ospitato conobbe Romolo Murri, fu attratto dalla Lega democratica nazionale da lui fondata e divenne segretario di redazione de “L’azione”, settimanale del movimento.

Nel 1913 si iscrisse alla facoltà di Giurisprudenza dell’università di Bologna. Iniziò la collaborazione al “Il resto del Carlino”: sarà un legame destinato a durare moltissimi anni ed a segnare una svolta decisiva nella vita politica di Grandi.

E’ a “Il resto del Carlino” infatti che conobbe Mario Missiroli, dalla cui “monarchia socialista” restò profondamente attratto, e Nello Quilici, che lo portò con se a Roma alla vigilia della prima guerra mondiale affidandogli l’incarico di resocontista parlamentare e fornendogli così l’occasione per conoscere da vicino nei corridoi di Montecitorio i protagonisti della scena politica del tempo.

L’interventismo di Grandi nella prima guerra mondiale

La questione centrale del dibattito politico era in quel periodo l’intervento dell’Italia in guerra. Grandi si schierò subito fra i favorevoli all’intervento, nella prospettiva di un nuovo ordine europeo.

Nello stesso tempo però tendeva a distinguere la sua posizione da quella dell’interventismo democratico: la guerra doveva essere non contro il capitalismo ma contro il positivismo che ignorava il sentimento nazionale e l’unità spirituale (e non solo statale) dei popoli.

Iniziò la maturazione politica del giovane studente bolognese, centrata sulla rivoluzione nazionale del popolo (e di ciascun popolo), sulle orme della concezione mazziniana.

Al tempo stesso Grandi si pose in posizione critica nei confronti del socialismo: la questione sociale doveva annullarsi nella più ampia questione nazionale risolvendo la crisi di trasformazione dello Stato nel rafforzamento dello Stato del Risorgimento.

Ne derivava una concezione necessariamente autoritaria, anche se non totalitaria, dello Stato, ed il favore per un accentuato liberismo economico quale fattore di sviluppo da cui le masse, integrate nello Stato, non avrebbero avuto che benefici.

La rivoluzione russa era vista paradossalmente da Grandi come un fatto positivo in quanto, a prescindere dalle sue motivazioni politiche specifiche, era una rivoluzione nazionale: alcuni anni più tardi valutò positivamente l’impresa fiumana di D’Annunzio in quanto costituente per l’Italia l’equivalente della rivoluzione russa.

L’avvicinamento al fascismo

L’avvicinamento al fascismo fu molto lento: iniziò nel 1914, quando il 17 novembre inviò una lettera di solidarietà a Mussolini, espulso dal P.S.I. in quanto favorevole all’intervento dell’Italia in guerra che, per Grandi, era “un fatto sociale a cause economiche”, una lotta di classe tra nazioni.

Nel 1915 chiese di essere arruolato come volontario ma il 1° giugno arrivò il richiamo: il 27 settembre divenne sottotenente degli Alpini e restò nelle trincee fino alla fine della guerra, ottenendo la promozione a capitano, una medaglia d’argento, una di bronzo, un encomio solenne e il cavalierato della Corona d’Italia.

Dopo il fronte, il giovane ufficiale fu assegnato prima al Ministero della guerra e poi al tribunale militare di Bologna, dove si iscrisse all’Ass. Naz. Combattenti ed entrò in contatto con Alberto Giovannini, un economista fondatore e direttore della rivista “La libertà economica”, organo del fascio delle forze economiche che era espressione della borghesia locale.

Tra la fine del 1919 e l’inizio dell’anno successivo si laureò in giurisprudenza con una tesi su “La Società delle Nazioni e il libero scambio”, centrata sulla necessità della liberalizzazione degli scambi internazionali, divenne procuratore legale, venne finalmente collocato in congedo ed aprì uno studio di avvocato penalista ad Imola.

Il 1920 fu anno di grandi conflitti sociali in Emilia, con i socialisti intenzionati a profittare della scadenza dei capitoli di colonia e dei concordati bracciantili, che interessavano un grandissimo numero di lavoratori della terra, per ottenere una vittoria decisiva contro i proprietari terrieri.

Vi furono numerose esplosioni di violenza che provocarono anche l’intervento dell’esercito per ripristinare l’ordine pubblico. fino a quando l’intervento mediatore del Governo presieduto da Giolitti (decreto Solari, 27 luglio 1920) non pose le basi per un’intesa fra le parti, lasciando però un forte desiderio di rivolta nei proprietari terrieri.

Grandi non prese immediatamente posizione: solo nel mese di ottobre scrisse un articolo pubblicato nella rivista “La libertà economica” in cui sosteneva che spettava ai socialisti riformisti che si riconoscevano nelle posizioni di Turati e di Treves trasformare la monarchia da liberale in socialista, secondo la formula cara a Missiroli, unendo la nazione e il proletariato in una nuova “democrazia del lavoro”, fondata sulla associazione di tutti i produttori (intendendo per tali anche i lavoratori dipendenti) nel quadro di un liberalismo che assorbisse il socialismo senza nulla concedere al marxismo.

L’attentato a Grandi e la sua iscrizione al Fascio di combattimento

Il 17 ottobre 1920 a Imola alcune persone riconducibili alle correnti massimaliste locali tentarono di ucciderlo a colpi di pistola: era reazione a quanto avvenuto il giorno prima a Bologna, dove fascisti e nazionalisti avevano, in una spedizione contro Palazzo d’Accursio, ucciso un colono ed incendiato un’edicola del P.S.I.

II 23 novembre successivo Grandi pose fine agli indugi: si iscrisse al Fascio di combattimento, chiuse lo studio a Imola, si trasferì a Bologna e sull’organo dei fascisti bolognesi “L’assalto” di cui divenne il direttore, dichiarò il 1 dicembre guerra aperta ai bolscevichi.

Negli articoli pubblicati nei mesi successivi sulla rivista Grandi andò via via precisando la sua visione del fascismo: restauratore dell’autorità dello Stato contro il “neofeudalesimo” della piccola borghesia socialista e la “strapotenza” dell’individuo, il fascismo avrebbe realizzato una nuova democrazia economica dei “produttori” per poi smobilitare e lasciare spazio alla dialettica politica all’interno del nuovo assetto politico ed economico.

Certamente era da escludersi per Grandi – così come per Mussolini e, per quanto riguarda in particolare il fascismo emiliano, per Farinacci e Arpinati – che i fascisti dovrebbero essere i garanti del sistema (e del padronato in particolare) nelle lotte sindacali, come avrebbero voluto alcune correnti fasciste nella provincia di Bologna.

Gradi operò con successo per una mediazione nel fascismo bolognese fra le tesi contrapposte ed entrò a far parte del direttorio del Fascio con la responsabilità dell’indirizzo politico.

In preparazione del convegno regionale dei Fasci dell’Emilia Romagna (1921), Grandi si schierò nettamente con coloro – ed erano la maggioranza – che si ritenevano vittime delle misure adottate dal Governo, e sul piano locale dal Prefetto di Bologna Cesare Mori, per contenere le violenze fasciste nella zona.

Difese pertanto il comportamento delle squadre fasciste senza giungere alla esaltazione della violenza, come facevano invece nella zona Balbo, Farinacci e Arpinati, o partecipare ad operazioni violente.

Anche Grandi si andò man mano attestando sulle posizioni di chi all’interno del fascismo legava le sorti del progetto politico fascista a quello delle camice nere, che erano in quel momento lo strumento più immediato per determinare l’adesione delle masse a quel progetto.

Inizia la scalata al Partito Fascista

Al termine del congresso regionale del 2 – 3 aprile 1921, Grandi divenne segretario regionale dei Fasci emiliano – romagnoli. Il modo di intendere il fascismo del nuovo Segretario regionale non coincideva pienamente con quello di Mussolini, che si riteneva l’ideatore dell’ideologia e del movimento, rivendicando conseguentemente a se la responsabilità di tracciarne le linee politiche.

Grandi, e con lui Balbo, sosteneva invece che vi dovesse essere spazio per un adattamento del progetto politico alla specificità della situazioni locali, con chiaro riferimento alla questione agraria in Emilia – Romagna, dove la destra fascista era duramente ostile a qualsiasi progetto di spartizione della terra in attuazione del principio “la terra a chi lavora” enunciato nel programma originario dei fasci.

La proposta emiliana di un’ampia diffusione della proprietà rurale, garantendo ai contadini più capaci l’accesso alla proprietà, nel quadro di un’economia cooperativistica capace di educare alla conduzione della terra, trovò anche l’adesione di Mussolini, data anche la indeterminatezza del programma, che non implicava nessuna scelta precisa ed al tempo stesso stroncava sul nascere qualunque tentazione di costituire un partito agrario nazionale che avrebbe fatto perdere al fascismo l’appoggio (molto importante in quegli anni) dei proprietari agricoli della valle padana.

L’elezione alla Camera dei deputati, Grandi è il più votato dopo Mussolini

Alle elezioni per la Camera dei deputati del 15 maggio 1921 Grandi venne eletto con un numero di voti di preferenza (18.641) inferiori solo a quelli ottenuti da Mussolini (21.393). Quindici giorni prima, il 30 aprile, aveva sposato Antonella Brizzi, erede di una ricca famiglia di agricoltori di Castenaso, un paese in provincia di Bologna, con una cospicua dote: anche i problemi economici di due anni prima erano superati.

Per decisione di Mussolini, condivisa da tutti gli esponenti di primo piano del Partito, da Grandi a Balbo, da Farinacci ad Arpinati, i deputati fascisti si astennero dal partecipare alla seduta di inaugurazione della legislatura, in cui il re pronunciava il discorso della corona, per attestare la tendenza repubblicana del fascismo.

Grandi divenne segretario del Gruppo parlamentare fascista e il 21 luglio 1921 intervenne per la prima volta in Assemblea in occasione della discussione delle interrogazioni presentate sui fatti di Sarzana (21 luglio 1921) dove i carabinieri avevano reagito duramente ad una spedizione dei fascisti uccidendone tre, mentre altri quindici erano stati linciati dalla folla.

Meno di un anno più tardi (2 giugno 1922) la sua elezione fu però annullata in quanto al momento della avvenuta elezione non aveva compiuto i trenta anni richiesti dall’art. 40 dello Statuto del Regno.

L’intenzione di Mussolini, espressa nel giugno – luglio 1921, di arrivare ad un patto di pacificazione con i socialisti fu subito avversato dal gruppo dei fascisti emiliani (Farinacci, Balbo, Grandi, Rossoni) in nome del sindacalismo nazionale, pilastro del nuovo Stato contemporaneo: la C.G.I.L. andava distrutta.

Il radicalismo fascista era fermamente deciso a non consentire ad una pacificazione che avrebbe comportato la rinuncia alla milizia, ai sindacati nazionali, agli ideali della rivoluzione nazionale ed al mito del rinnovamento nazionale delle masse.

La riunione dei Fasci contrari al patto che si svolse a Bologna il 16 agosto portò Mussolini a presentare due giorni dopo le sue polemiche dimissioni dalla Commissione esecutiva dei Fasci, dimissioni che furono naturalmente respinte.

Il 23 agosto in un articolo su “Il popolo d’Italia” Mussolini lasciò chiaramente intendere di voler rinunciare al “patto di pacificazione”: al tempo stesso però propose di trasformare il movimento fascista in partito in modo da ridimensionare lo squadrismo inserendolo in una precisa gerarchia politica, di cui al vertice non poteva non essere lo stesso Mussolini.

Il congresso nazionale dei fasci che si aprì al teatro Augusteo di Roma il 7 novembre 1921, sancì, con un abbraccio tra Mussolini e Grandi, non solo l’abbandono del patto, ma anche la (almeno provvisoria) riconciliazione tra i due esponenti fascisti.

Dal movimento dei fasci al partito nazionale fascista

Il movimento dei fasci divenne il Partito nazionale fascista. Michele Bianchi ne divenne il segretario e Grandi entrò a far parte della direzione e vi rimase fino al 1924: fu uno dei pochi capi del fascismo provinciale (Baroncini, Marsich, Caradonna) ad entrare a far parte degli organi direttivi del nuovo partito.

Il discorso di Mussolini all’Augusteo collocò nettamente il partito alla destra dello schieramento politico, accanto ai nazionalisti, superando la pregiudiziale rivoluzionaria e repubblicana.

Iniziò l’organizzazione centralizzata del partito, che però rifiutò, malgrado le misure per l’ordine pubblico adottate dal governo Bonomi negli ultimi mesi del 1921, di sciogliere le squadre d’azione, orientamento questo condiviso anche da Grandi che temeva la permanenza in vita del sistema di potere degli avversari politici (leghe, amministrazioni locali) soprattutto in Emilia.

Il 24 gennaio 1922 venne fondata a Bologna la Confederazione nazionale
delle corporazioni sindacali e Grandi ne divenne membro del direttorio. La contrapposizione tra la tesi dell’autonomia del sindacato dal partito sostenuta da Balbo e da Rossoni e quella di senso contrario di Bianchi venne superata dalla proposta di Grandi di garantire il collateralismo (che in pratica significava il controllo) dell’organizzazione sindacale attraverso la nomina riservata al partito fascista dei suoi capi.

L’intenso impegno a favore del movimento sindacale lo portò anche a rappresentare i sindacati fascisti alle conferenze internazionali del lavoro di Ginevra del 1922 e 1923. Nel 1922, dopo che era stato dichiarato decaduto dal mandato parlamentare, fu nominato Vice Commissario Generale dell’emigrazione, carica che rifiutò di fatto e mantenne formalmente per alcuni mesi.

Furono gli anni della svolta decisiva nelle convinzioni politiche di Grandi e del suo lento e costante avvicinamento al parlamentarismo, anche se animato da spirito rivoluzionario.

La conquista dello Stato per i fascisti era ormai vicina, non erano più consentiti errori ed era necessario rafforzare la disciplina del partito. Un successo in questo senso fu l’ingresso, che Grandi ottenne da Mussolini, dell’amico Balbo nella direzione del partito, ciò che significava il controllo della milizia, che continuava ad essere sottoposta a Balbo.

Al tempo stesso però Grandi (in ciò assolutamente d’accordo con Mussolini) continuò a sostenere il massimalismo sindacale fascista e l’offensiva da esso lanciata nelle campagne nell’estate del 1922, nel quadro di una strategia che mirava al rafforzamento dei sindacati nazionali e al tempo stesso ad indurre ad un accordo con il fascismo la classe dirigente (e soprattutto i ceti medio – alti), intimiditi dalle violenze e direttamente colpiti nei loro interessi dall’incertezza della situazione politica.

Grandi braccio destro di Mussolini

Con simili premesse non era facile mettere un limite all’azione violenta delle squadre fasciste, specie in Emilia, come dimostrò l’occupazione di Ravenna del luglio 1922, decisa dagli squadristi locali, e da Balbo in particolare, senza nemmeno consultare la direzione del P.N.F. Seguì una nuova ondata di violenze nella regione: Grandi difese gli squadristi ma, proseguendo nella mediazione, fece appello alla ”riconciliazione nazionale” e chiese nuove elezioni e la successiva partecipazione dei fascisti al Governo.

La scelta di Mussolini fu parzialmente diversa: potenziamento delle squadre e, al tempo stesso, intensificazione delle trattative con Orlando, Nitti, Salandra, Giolitti e il Presidente del Consiglio Facta per verificare la possibilità di percorrere una strada parlamentare per la conquista del potere.

Grandi e la sua contrarietà allo squadrismo fascista

Nel luglio 1922 Grandi, favorevole alla “parlamentarizzazione” del fascismo, si dimise dalla direzione del partito in quanto contrario al potenziamento della organizzazione squadristica. Ai primi del mese di ottobre incontrò Mussolini che si dichiarò d’accordo sul pericolo che poteva costituire per il Partito uno squadrismo che poteva fagocitare il partito stesso ma che restava tuttavia per Mussolini un’arma di cui il fascismo in quel momento non poteva privarsi.

L’incontro segnò un momento importante nella vita politica di Grandi: costretto a riconoscere la superiorità politica di Mussolini, più duttile rispetto alle situazioni che via via si determinavano, divenne forse il più mussoliniano dei capi fascisti, convinto però della transitorietà del fascismo, che non avrebbe più avuto motivo di esistere dopo la costituzione del nuovo Stato.

La marcia su Roma segnò la sconfitta della linea politica di Grandi, accusato dall’ala intransigente del Partito (Bianchi, Farinacci, Teruzzi) contraria alla “normalizzazione” della vita politica ed alla scelta parlamentare del fascismo, di essere ormai fuori dalla linea politica fascista: fu pertanto escluso dal marzo 1923 dal Gran Consiglio del fascismo di cui faceva parte dalla fondazione (15 dicembre 1922).

L’idea di “normalizzare” il fascismo

Grandi accettò senza proteste la emarginazione, si astenne dall’intervenire nelle lotte che divampavano tra i capi del fascismo emiliano e si preoccupò di elaborare le basi ideologiche del processo di normalizzazione del fascismo voluta da Mussolini: la rivoluzione delle camice nere, in quanto rivoluzione delle coscienze, doveva mirare alla conquista morale di tutti gli italiani, nel quadro di una sintesi di tutto il pensiero politico italiano che aveva il suo snodo fondamentale nella legittimazione della aristocrazia del pensiero, della imprenditoria, del lavoro, della cultura, ciò significava implicitamente la teorizzazione dello Stato autoritario e la condanna politica della democrazia in quanto “Governo di tutti”.

Nel 1924 Grandi venne nuovamente eletto nel “listone” fascista alla Camera dei deputati collocandosi per numero di preferenze dopo Balbo, Rossoni ed Oviglio, ciò che, dopo il pur breve periodo di emarginazione nel fascismo emiliano costituiva indubbiamente un successo.

Eletto Vice presidente della Camera, intervenne per la prima volta in Assemblea il 13 giugno 1924 a nome della maggioranza in occasione della discussione delle interrogazioni presentate sull’uccisione di Giacomo Matteotti.

Grandi condannò duramente il delitto, ed indicò nel radicalismo provinciale fascista e nell’antifascismo estremista i responsabili morali del clima di violenza esistente nel Paese, ma al tempo stesso affermò che si trattava solo di un delitto i cui responsabili dovevano essere puniti in base al codice penale, senza che nessuno potesse illudersi di utilizzare l’omicidio per processare il fascismo: era nella sostanza la tesi ufficiale del Partito e di Mussolini.

Al di là delle preoccupazioni per l’ordine pubblico, il problema più impellente per i fascisti era di garantire la governabilità del Paese. Già all’indomani del suo ingresso alla Camera Grandi aveva mostrato la preoccupazione che alla maggioranza di Governo fosse impedito di attuare il nuovo indirizzo politico utilizzando come strumento il regolamento interno della Camera, ampiamente modificato due anni prima per adeguarlo al sistema elettorale proporzionale adottato nel 1919.

Nella seduta del 24 maggio 1924 Grandi propose pertanto la soppressione delle Commissioni parlamentari ed il ritorno al sistema degli Uffici per l’esame dei progetti di legge, ciò che facilitava la loro discussione in Assemblea (in modo da poter fare valere la disciplina di partito più efficacemente che nel chiuso delle Commissioni) e risolvere così “il problema dell’equilibrio tra i diritti della rivoluzione e i diritti della tradizione”. La proposta di Grandi, malgrado la tenace resistenza dei gruppi parlamentari di opposizione, fu alla fine approvata.

Era il segnale più evidente che la maggioranza parlamentare che sosteneva il governo era tutt’altro che solida.

Il pericolo da evitare era che il delitto Matteotti e i perduranti disordini nel Paese provocassero una spaccatura tra gli eletti nel “listone”, con la possibile formazione di un Governo di destra moderata presieduto da un uomo politico di primo piano come Salandra, Orlando o lo stesso Giolitti. Mussolini si rese conto del pericolo e con un rimpasto di Governo tra la fine di giugno e i primi di luglio successivo affidò il Ministero dell’Interno a Federzoni, sostituì il Capo della polizia De Bono con un funzionario, Crispo Moncada, di simpatie nazionaliste, ed il 3 luglio nominò Grandi Sottosegretario agli Interni e lo reintegrò nel Gran Consiglio del Fascismo.

Grandi si dimostrò degno della fiducia in lui riposta da Mussolini e ne attuò pienamente le direttive a proposito della “normalizzazione”, da una parte colpendo l’antifascismo radicale e dall’altra tenendo sotto pressione quello fascista in base all’equazione antifascismo antinazione e ribadì il principio della subordinazione del Partito allo Stato ed alle autorità espressione di esso, a cominciare dai prefetti.

Il discorso di Mussolini alla Camera dei Deputati del 3 gennaio 1925 segnò una ulteriore svolta del fascismo: le opposizioni venivano colpite con durezza ma al tempo stesso veniva imbrigliata l’azione delle residue squadre fasciste, coerentemente alla decisa “normalizzazione”, per rassicurare il Paese e le forze politiche moderate.

La presenza di squadre d’azione di fascisti in alcune regioni come l’Emilia non disposti ad abbandonare la pratica della violenza era tuttavia una realtà che Mussolini non poteva ignorare; per attenuare la loro opposizione al rientro nella normalità fu costretto a nominare (12 febbraio 1925) Roberto Farinacci Segretario del P.N.F.

Il nuovo segretario era fra i fautori della legalizzazione dell’illegalità squadrista: entrò presto in rotta di collisione con Grandi, che perseguiva tutt’altre finalità. Il 14 maggio 1925 Mussolini, che in quel momento non poteva entrare in contrasto con il mondo fascista che Farinacci rappresentava, pena l’indebolimento del partito, nominò Teruzzi Sottosegretario agli Interni al posto di Grandi, che divenne sottosegretario agli esteri.

Benché lo avesse accettato inizialmente di malavoglia, Grandi si appassionò presto al nuovo incarico, convinto della superiorità della statura politica di Mussolini (che ricopriva anche la carica di Ministro degli Esteri) rispetto agli altri esponenti fascisti e, al tempo stesso, di essere l’unico tra essi in piena sintonia con il Capo e con la sua volontà.

Accolse pertanto favorevolmente la decisione di Mussolini di congedare Salvatore Contarini, potente Segretario Generale del Ministero degli Esteri, fautore di una politica filo jugoslava che per Mussolini (e per Grandi) significava accettazione del trattato di Rapallo che aveva consegnato la Dalmazia alla Jugoslavia. L'”Italia nuova”, che il fascismo aveva fatto emergere come grande potenza, doveva per Grandi avere una politica estera che guardasse al mondo intero senza nessun senso di inferiorità nei confronti delle altre potenze europee.

Per realizzare questi obiettivi occorreva uno svecchiamento anche di uomini: nei ruoli del Ministero degli esteri fu immesso un gran numero di dipendenti indicati dal PNF, al quale fu però negata ogni intromissione nella politica estera: Grandi condusse e vinse una dura battaglia contro coloro che sostenevano la necessità di una subordinazione dei consoli ai fiduciari dei Fasci italiani all’estero, che furono invece inquadrati nella carriera consolare.

Diplomatici e militari dovevano però per Grandi ben guardarsi dall’intervenire nella politica interna: il fascismo era cosa diversa dall’autoritarismo delle caste militari, nei confronti delle quali il Sottosegretario agli esteri nutriva scarse simpatie.

Quella italiana in particolare, a cominciare da Badoglio, era per Grandi piuttosto mediocre e non adeguata agli obbiettivi del fascismo, valutazione questa che lo porterà, il 25 luglio 1943 a sottovalutare il legame tra il re e gli alti gradi militari ed a perdere così la partita della successione a Mussolini.

Grandi e la politica estera fascista: il colonialismo

Andò man mano maturando nel binomio Mussolini – Grandi una nuova strategia di politica estera che aveva quali punti di forza la missione dell’Italia nel mondo e il suo diritto ad avere un impero.

La prima mossa fu il tentativo di inserirsi nel contrasto tra Francia e Germania a proposito dell’indipendenza dell’Austria, seguendo una politica di equidistanza tra i due contendenti per costringere la Francia ad una intesa su posizioni di assoluta parità.

I trattati italo – albanesi del 1926-27 furono visti da Grandi quale strumento per far emergere una autonoma iniziativa italiana nell’area danubiano – balcanica, mentre la Francia aiutava la Jugoslavia affinché facesse sentire la sua pressione sull’Italia con le sue pretese egemoniche in quell’area.

Uguale motivazione ebbero l’appoggio italiano al separatismo croato e macedone e l’instaurazione di rapporti amichevoli con i Paesi dell’est europeo e con la Turchia. Al tempo stesso l’amicizia con la Germania aveva lo scopo di far deteriorare i rapporti franco – tedeschi in modo da costringere la Francia ad una spartizione con l’Italia delle aree di influenza nel Mediterraneo.

Grandi, che pure aveva rappresentato l’Italia a Locarno per la stipulazione del patto (1 dicembre 1925) tra le potenze europee per la definizione delle questioni restate insolute dopo la I° guerra mondiale, non condivideva il patto proprio in quanto fondato su un accordo franco – tedesco che poteva condurre alla emarginazione dell’Italia in Europa.

Iniziava a delinearsi la diversità della strategia italiana e tedesca in politica estera, tesa la prima alla realizzazione di un equilibrio europeo di cui l’Italia fosse l’elemento determinante, e la seconda a sconvolgere invece quell’equilibrio.

In questo quadro acquistava grande importanza per l’Italia, secondo Grandi, la Società delle nazioni, presso la quale era il secondo delegato italiano (il primo era restato Vittorio Scialoja) non solo per la funzione di mediazione da essa svolta ma anche per il vantaggio che poteva derivare ad un Paese come l’Italia, alla ricerca di un nuovo e più importante ruolo nell’assetto mondiale, da una maggiore articolazione dei rapporti internazionali rispetto ad un sistema fondato su accordi tra singoli paesi.

Presidente della delegazione italiana a Wahington e a Londra per la regolazione dei debiti di guerra cogli Stati Uniti e con l’Inghilterra (1925 – 26), Grandi continuò a tessere una fitta rete di amicizie al di qua e al di là dell’Atlantico che ne fecero il candidato naturale alla successione a Mussolini nella titolarità del Ministero degli esteri (12 settembre 1929).

L’originale disegno politico di Grandi si andò arricchendo, sulla traccia dell’antico nazionalismo, di una nuova componente: una politica estera di potenza che esaltasse la nazione e le garantisse un più importante ruolo nell’assetto internazionale. Da ciò la necessità che la politica estera italiana fosse unitaria ed organica, con l’obbiettivo di ottenere, d’accordo con Francia e Inghilterra, un impero e possibili vantaggi nell’area danubiana.

Condizione irrinunciabile era la pace in Europa: l’Italia era militarmente troppo debole puntare sui conflitti armati con gli altri Paesi ed aveva tutto da guadagnare da sottili giochi diplomatici nei quali costituisse sempre l’ago della bilancia.

Negli incontri avuti con il Commissario agli esteri dell’U.R.S.S. Lituinov a Milano (24 novembre 1930) e a Ginevra (22 maggio 1931) Grandi, ben lontano da considerare le differenti ideologie dei due regimi, mostrò di voler stabilire proficui rapporti diplomatici con l’Unione Sovietica in funzione anti francese.

Era una linea di politica che richiedeva molto impegno ed una costante presenza sulla scena internazionale per profittare di ogni occasione favorevole al perseguimento degli obbiettivi prescelti.

Grandi, oltre che rappresentante permanente per l’Italia al Consiglio e all’Assemblea della Società delle Nazioni, nel periodo (1929 – 1932) che fu ministro degli esteri fu a capo delle delegazioni italiane alla conferenza navale di Londra (1930), alla conferenza di Parigi e di Londra per l’applicazione della proposta Hoover (1931), a Washington per la preparazione della conferenza generale sul disarmo (1931), alla conferenza sul disarmo di Ginevra (1932), alla conferenza di Londra delle quattro potenze (1932), ed infine vicepresidente della delegazione italiana alla conferenza di Losanna per le riparazioni di guerra (1932).

Per l’appena trentaquattrenne Ministro degli esteri era essenziale per l’Italia uscire dall’isolamento diplomatico, con l’occhio rivolto anche agli Stati Uniti, Paese con il quale furono avviati ottimi rapporti ed in cui Grandi si fece un lungo viaggio (ottobre – novembre 1931).

Le polemiche diplomatiche che seguirono il concordato con la Santa Sede, con ripetute proteste diplomatiche vaticane per una pretesa non corretta applicazione del trattato chiamando talora in causa, sia pure indirettamente, la monarchia, rafforzarono il legame tra Grandi (mai entusiasta del patto stipulato in quanto sottraeva le organizzazioni cattoliche alla fascistizzazione) e il re che nel gennaio 1930 lo insignì del gran cordone di San Maurizio e Lazzaro.

A Ginevra, presso la Società delle Nazioni, Grandi svolse una intensa opera per accreditare all’estero una immagine rassicurante dell’Italia fascista e della sua volontà di pace, indicando indirettamente la Francia come il paese più interessato alla destabilizzazione in Europa.

La Conferenza di Londra sul disarmo navale (21 gennaio 1930) lasciò però intravedere la estrema difficoltà di realizzare un’intesa, su un piano di parità con la Francia, insieme con la possibilità di un riavvicinamento franco – inglese, che era ciò che l’Italia temeva di più.

Al tempo stesso però Grandi era convinto – e Mussolini concordava con lui – che un’alleanza con la Germania era incompatibile con la sicurezza dell’Italia, molto più debole.

Grandi e Mussolini: i primi dissidi

In Italia la linea politica di Grandi, favorevole alla pace ed alla trattativa, incontrò scarso successo nel fascismo più ortodosso, più incline ad una accentuazione nazionalistica e (Farinacci, Balbo) ad una politica estera che ben esprimesse il carattere rivoluzionario del regime.

Lo stesso Mussolini nei primi mesi del 1930 sembrò, con i discorsi di Livorno, (11 maggio) e Firenze (17 maggio), voler accreditare l’immagine di una Italia che si andava riarmando.

Iniziarono a profilarsi le prime ombre tra Mussolini e Grandi, decisamente contrario il primo al progetto di equilibrio europeo di Briand e favorevole invece il secondo ad inquadrare la proposta francese in un congresso mondiale.

La divergenza di opinioni fu superata con l’invito di Mussolini a Grandi a studiare la questione ma tornò ad emergere quando Mussolini espresse soddisfazione per la vittoria alle elezioni politiche tedesche (1930) degli Stalhelm e di Hitler, atto che a parere di Grandi inficiava il rapporto di equidistanza tra Parigi e Berlino sul quale aveva fatto perno la politica estera italiana negli ultimi anni.

La conclusione dell’accordo navale italo – francese del febbraio 1931 sembrò un successo della linea seguita da Grandi, ma l’approvazione di Mussolini fu incerta e piena di riserve, costringendo Grandi ad un discorso illustrativo (14 marzo) alla Camera dei deputati che, per la sua ambiguità, suscitò ampie critiche all’estero.

L’unione doganale austro – tedesca del 20 marzo 1931, conclusa dall’Austria in violazione delle trattative in corso per l’unione doganale Austria – Italia – Ungheria, suscitò le proteste italiane ma soprattutto significò il mancato successo della politica estera seguita fino a quel momento: l’Italia non poteva avvicinarsi alla Germania senza urtare la suscettibilità francese e al tempo stesso non poteva contare sull’appoggio di Parigi contro Berlino.

L’unica via d’uscita sembrò il rinvio alla Società delle nazioni, con l’appoggio inglese, di tutta la questione dell’accordo, ma il piano fallì, anche per la pretesa inglese di svolgere un’azione mediatrice tra Francia e Italia, che significava implicitamente un riavvicinamento franco – inglese in contrasto con la strategia italiana di acuirlo.

Con grande fatica Grandi finì per ottenere (giugno – luglio 1931) la rinuncia austriaca all’unione doganale anche per il mutato atteggiamento inglese, divenuto dopo intense trattative diplomatiche favorevole all’Italia.

La adesione italiana al piano Hoover per una moratoria del debito di guerra tedesco intensificò i rapporti tra Italia e Stati Uniti. Grandi era convinto che quei rapporti potessero essere proficuamente utilizzati dall’Italia in funzione antifrancese: Mussolini era però di contrario avviso e pubblicò un articolo su “Il Popolo d’Italia” del 12 gennaio 1932 nettamente filotedesco e ostile agli Stati Uniti e all’alleata Inghilterra.

L’ostilità di Mussolini ad un accordo con la Francia, sostenuto da Grandi, che consentisse una tregua all’Italia, accentuò la diversità di opinioni a proposito della politica estera italiana: l’accordo franco – tedesco del luglio 1932, che segnava la fine del tentativo dell’Italia di rappresentare il punto di equilibrio in Europa, portò Mussolini a comunicare a Grandi la sua volontà di riassumere la titolarità del Ministero degli esteri (19 luglio 1932), anche per le pressioni di Balbo, divenuto accanito avversario politico di Grandi.

Due giorni più tardi Grandi fu nominato ambasciatore ed il 28 luglio destinato a Londra, dove, per esplicito ordine di Mussolini, seguì da vicino, anche con cospicui finanziamenti, il fascismo inglese di Mosley, sorto nell’ottobre 1932, nel tentativo (presto fallito) di costituire una Internazionale fascista sul modello di quella comunista.

Malgrado questo impegno politico non usuale per un ambasciatore, in Inghilterra Grandi strinse molte amicizie e le utilizzò per cercare di rendere più duttile la posizione inglese verso l’Italia nella prospettiva indicata da Mussolini di un’asse Roma – Londra equidistante dalla Francia e dalla Germania.

Il patto italo – francese del 7 gennaio 1935 fu inteso da Grandi non solo come coronamento della sua politica negli anni precedenti ma anche in funzione antitedesca e dell’isolamento della Germania.

Ignorava che alla base del patto c’era l’assenso francese alla conquista dell’Abissinia: mancava però quello inglese e Grandi non riuscì ad ottenerlo malgrado l’intensa campagna propagandistica, attuata anche con materiale documentario inviato da Roma dall’Istituto Luce e distribuito dalla British Paramount News.

Non si rese però conto – o preferì ignorare nei suoi rapporti inviati da Londra a Mussolini – che l’Inghilterra era decisa a provocare le sanzioni della Società delle nazioni contro l’Italia.

Nel dicembre 1935, d’accordo con Vansittart, sottosegretario permanente e capo del Foreign Office, si adoperò per un protettorato italiano sull’Etiopia garantito da un patto franco – inglese Laval Hoore che però non fu stipulato per l’opposizione di una parte della diplomazia inglese, che vedeva minacciati dall’azione italiana in Abissinia gli interessi dell’impero britannico.

Nel 1936, quale rappresentante italiano alla Società delle nazioni, malgrado le diverse istruzioni avute da Mussolini, Grandi votò (19 marzo) a Ginevra contro la Germania a proposito della militarizzazione della Romania, giudicando pericolosa l’alleanza con Berlino voluta da Ciano e Mussolini in quanto avrebbe comportato un indebolimento della posizione italiana in Europa e dato motivo ad una ostilità franco – inglese verso l’Italia.

Scoppiata (1936) la guerra civile spagnola, Grandi mise più volte in guardia Mussolini nei confronti di Hitler, che spingeva l’Italia ad intervenire nella guerra civile spagnola per poi presentarsi a Londra nelle vesti di mediatore: per sventare la manovra Grandi cercò di indirizzare verso Franco le simpatie dei conservatori inglesi ed al tempo stesso sottolineò alla autorità inglesi i pericoli derivanti dall’appoggio comunista ai repubblicani spagnoli.

Il risultato fu il blocco delle iniziative dei governi francese e inglese, sorpresi dalle dichiarazioni italiane nel comitato del non intervento della Società delle nazioni, favorevoli al non intervento delle grandi potenze nel conflitto civile spagnolo, e dall’assicurazione fornita agli inglesi che l’Italia avrebbe ritirato i “volontari” appena garantita la vittoria dei ”franchisti”.

Altro successo di Grandi fu l’invito del Primo Ministro inglese Chamberlain a Mussolini ad intervenire su Hitler, dopo l’annessione dell’Austria, per indurlo ad un negoziato: il risultato fu la conferenza a quattro (Italia, Germania, Inghilterra e Francia) che si svolse a Monaco il 29 – 30 settembre 1938 ed in cui Mussolini ottenne il successo sperato, tanto da fargli ritenere gli accordi di Versailles ormai superati da un nuovo equilibrio europeo in cui l’Italia avrebbe avuto ruolo centrale.

Un successo della sua linea fu la firma (gennaio 1937) del Gentlemen’s Agrement e degli “accordi di Pasqua” (aprile 1938) che garantirono il riconoscimento inglese dell’impero italiano e la mutua garanzia italo – inglese dell’equilibrio nel Mediterraneo.

Il 12 luglio 1939 Grandi fu richiamato a Roma per essere nominato Ministro di Grazia e Giustizia. E’ probabile che a determinare il suo richiamo furono le pressioni di Ciano, Storace e Farinacci, preoccupati per l’atteggiamento anti – tedesco che Grandi andava maturando, oltre che l’irritazione di Mussolini per il rifiuto inglese alla stipulazione di un patto con l’Italia, la Francia e la Germania, in funzione di un nuovo equilibrio europeo.

Grandi accolse molto male il richiamo a Roma e l’affidamento del nuovo incarico. Perplesso se accettare o meno, si recò dal re a Sant’Anna dei Valdesi per chiedergli consiglio. Tornato a Roma, decise per l’accettazione come coscienza del re non più disposta ad ulteriori cedimenti delle prerogative regie sancite dallo Statuto”. Iniziò in quel momento il lento distacco di Grandi da Mussolini ed il suo avvicinamento alla monarchia: il 9 marzo 1937 il re gli aveva conferito il titolo di conte di Mordano, suo paese natale.

Punto focale della sua attività divennero la garanzia dell’indipendenza della Magistratura rispetto al Governo ed al Partito per garantire lo Stato di diritto e la emanazione dei nuovi codici (civile, procedura civile e navigazione) in sostituzione di quelli risalenti al 1865 (il codice di commercio, pure abrogato, era del 1885). completando la codificazione fascista iniziata con il codice penale (1930).

Nella Commissione ministeriale incaricata di predisporre i progetti dei nuovi codici Grandi chiamò anche giuristi antifascisti (come Calamandrei) e addirittura (nel 1939) ebrei (come Cesare Vivante). Punti qualificanti dei codici furono da una parte l’affermazione della funzione sociale della proprietà ed una nuova disciplina dei rapporti di lavoro e dell’impresa, recependo i principi della Carta del lavoro (che fu premessa al codice civile) e del corporativismo, e dall’altra la tutela della comunità familiare e dei minori.

I nuovi codici, emanati il 21 aprile 1942, suscitarono vasti consensi ed a Grandi fu offerta la cattedra (che rifiutò) di diritto civile all’Università di Roma.

Malgrado il divieto di Mussolini di continuare ad occuparsi di politica estera, Grandi continuò ad avere rapporti con personalità inglesi e con l’ambasciatore statunitense a Londra Kennedy, padre del futuro Presidente U.S.A.

Il 1° settembre 1939 in Consiglio dei ministri accusò la Germania di aver scatenato la guerra quattro anni prima di quanto era stato convenuto con il Patto d’acciaio e chiese perciò la denuncia del Patto: prevalse però l’ala filotedesca del PNF che faceva capo a Farinacci, contro il gruppo Grandi – Ciano – Bottai, chiaramente ostili alla Germania nella prospettiva di una guerra che giudicavano rovinosa per l’Italia.

Il 30 novembre 1939 Grandi fu nominato Presidente della Camera dei fasci e delle Corporazioni, mantenendo fino al 6 febbraio 1943 la titolarità del Ministero di Grazia e Giustizia: fu Galeazzo Ciano a chiedere che fosse proprio Grandi, a lui legato dal comune sentimento antitedesco, a prendere il posto del padre defunto.

Nei rapporti a Mussolini per gli anni 1941 e 1942 Grandi mostrò di mettere grande impegno nella nuova carica e di non ritenerla solo di facciata: esprimendo un giudizio positivo sull’attività svolta dalle Commissioni permanenti.

Negli stessi rapporti sottolineò anche l’esigenza di porre fine ai decreti legge, nel rispetto della funzione legislativa della Camera, demandando ai regolamenti le norme di dettaglio e di esecuzione delle leggi. Al tempo stesso si espresse contro la concezione della Camera quale organo del partito e delle corporazioni e ne riaffermò l’importanza politica, in chiara polemica con l’ala radicale del fascismo che individuava in Mussolini il solo centro di decisione politica dello Stato.

Grandi ed il contrasto aperto con Mussolini

Il 27 aprile 1940 Mussolini, alla Camera, nel discorso conclusivo della sessione, ribadì l’alleanza con la Germania e dichiarò che la politica italiana di non belligeranza era ormai all’epilogo. Il 10 giugno fu dichiarata la guerra alla Francia: fino all’ultimo momento Grandi cercò di evitare che accadesse ricercando invano anche l’aiuto del detestato Badoglio e scrivendo (21 aprile) una lettera personale a Mussolini.

Da gennaio ad aprile del 1941 Grandi fu in Grecia, tenente colonnello degli Alpini, nel quadro del richiamo alle armi di tutti i gerarchi. Rifiutò la carica di Governatore civile della Grecia e rientrò in Italia nel mese di ottobre.

Nel 1941 raccolse gli articoli scritti prima del fascismo in un libro (“Giovani”) con una introduzione in cui enunciava la tesi che, avendo il fascismo ormai compiuto la sua missione con la conquista dell’impero e la costruzione di una monarchia socialista, era opportuno liberare lo Stato costituzionale e corporativo dalle sovrastrutture della dittatura e del partito.

La rottura con l’ala filotedesca del fascismo, con l’attribuzione alla Germania della responsabilità di aver rotto gli equilibri occidentali contro il comunismo, fu totale. Grandi comincia a pensare al modo più opportuno per porre fine alla guerra, anche attraverso una pace separata.

I rapporti con il re si intensificano: nel marzo 1943 ricevette il collare dell’Annunziata e, tra l’insegna appartenuta a Di San Giuliano e quella che era stata di Giolitti, sceglie polemicamente la seconda, quasi ad indicare al Re la sua volontà di occupare la stessa carica – la Presidenza del Consiglio dei Ministri – dello statista piemontese.

Prese ad utilizzare i canali mantenuti sempre aperti con la diplomazia inglese per sondare le disponibilità alleate ad una pace separata ed al tempo stesso prese contatto con esponenti antifascisti (De Gasperi, Cappa, Gronchi, Solevi. Rossigni, Orlando) o ai margini del fascismo (Raffaele Paolucci, Carlo Del Croix, Alberto Pirelli).

Alcuni tra loro erano certamente massoni: c’è il dubbio che lo fosse – o lo fosse stato – anche Grandi e che il legame acquistasse in quei giorni anche una valenza politica.

Sicuro è che Ubaldo Cosentino, un funzionario della Camera dei deputati, indicato da Grandi nei diari come diretto collaboratore e suo tramite in quei giorni con Orlando, era stato tra i dipendenti inquisiti nell’inchiesta del 1925 sulle infiltrazioni massoniche alla Camera dei deputati senza che fossero trovate prove della sua appartenenza alla massoneria ma solo della sua collaborazione a giornali di opposizione.

Il progetto di Grandi era centrato sulla formazione di un Governo politico e non tecnico che avesse la fiducia del Parlamento e accompagnata dalla abolizione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato, dall’abrogazione delle leggi razziali, dal ripristino della Camera dei deputati, dalla ricostituzione dei partiti politici e da una nuova definizione delle attribuzioni del Capo del Governo.

Nell’udienza concessagli il 4 giugno, il re ascoltò Grandi che gli espose il suo progetto per la formazione di un governo presieduto dal Maresciallo Caviglia e composto da esponenti monarchici e cattolici e lo invitò a rivolgere un proclama alla nazione. Vittorio Emanuele III non prese impegni precisi, espresse preoccupazione per un rovesciamento repentino delle alleanze e invitò Grandi e coloro che erano sulla sua stessa linea politica ad aprire “costituzionalmente” una crisi di Governo.

Grandi ritenne che un rafforzamento della posizione del suo gruppo potesse venire dalla conquista della Presidenza del Senato, con la successione di Bottai a quella della Camera, ma Mussolini rinviò la decisione.

Lo scontro con il fascismo intransigente (Farinacci, Scorza) si fece più duro. Il 22 luglio Grandi ebbe un colloquio con Mussolini gli chiese la convocazione della Camera o del Gran Consiglio del fascismo e gli consegnò un documento che prevedeva la restaurazione della monarchia quale configurata nello Statuto del regno del 1848.

Farinacci rispose con un documento in cui si chiedeva l’attribuzione di tutti i poteri al partito, una epurazione negli alti gradi della Milizia e un comando unico italo – germanico.

Mussolini decise la convocazione del Gran Consiglio per il 24 luglio. Comprese che correva un pericolo serio ed elaborò una strategia di difesa rinunciando a far arrestare i suoi oppositori in quanto ciò avrebbe presupposto una richiesta di aiuto ai tedeschi. Il suo piano era diverso: rinuncia ai dicasteri militari e pace separata per l’Italia previo assenso tedesco.

Il 25 luglio, al Gran Consiglio del fascismo, l’ordine del giorno di cui Grandi era il primo firmatario, dopo una discussione durata dalle 17.15 del giorno 24 a circa le 3 della notte, venne da Mussolini posto in votazione prima di quello presentato da Farinacci e di quello proposto da Scorza e approvato con 19 voti favorevoli, 8 contrari e 1 astenuto (Suardo, Presidente del Senato).

Grandi durante la notte ebbe un incontro con il Conte d’Acquarone, Ministro della Real casa, e continuò ad insistere la nomina di Caviglia a Presidente del Consiglio e di Alberto Pirelli al Ministero degli esteri.

Alle 10 del giorno 25 Mussolini fece cercare Grandi per offrirgli il Ministero degli esteri in un governo presieduto dallo stesso Mussolini. Grandi non si fece trovare. Due ore dopo d’Acquarone gli comunicò che il re aveva affidato a Badoglio l’incarico di formare un nuovo governo.

La scelta del re lo sorprese e lo trovò decisamente contrario: a suo parere con un colpo di stato ad una dittatura se ne era sostituita un’altra in quanto si era operato al di fuori di quanto stabilito dallo Statuto del regno.

I tedeschi si rendono conto che Grandi continua a rappresentare un pericolo in quanto capace di aggregare un vasto consenso sul suo disegno di una pace separata e sorvegliano attentamente il palazzo di Montecitorio dove Grandi abita, come avviene dal 1873 per tutti i Presidenti della Camera.

L’appartamento ha un ingresso in Via dell’Impresa e tutti i portoni del palazzo sono chiusi ormai da mesi: Grandi, se decide di fuggire non può non uscire da quella porta. Le cose si svolgono diversamente.

Il 27 luglio Grandi incontra nuovamente d’Acquarone che si mostra ottimista sulla possibilità di concludere presto la pace con gli Alleati. Grandi non condivide il suo ottimismo: i tedeschi non consentiranno alla pace separata mentre i gruppi di estrema sinistra, che costituiscono una obiettiva minaccia per la monarchia, si vanno organizzando.

Il giorno successivo Grandi, ricevuto dal Re, torna ad esporgli le sue preoccupazioni, ma il sovrano, senza esprimere alcun parere, gli fissa un appuntamento con Badoglio per la mattina stessa.

L’incontro tra Grandi, che si reca da Badoglio con Federzoni, ed il nuovo Presidente del Consiglio non ha alcun risultato: Badoglio si dimostra sicuro di poter tenere a bada i tedeschi e di riuscire a fare la pace con gli Alleati.

Il 30 luglio Grandi viene, su sua richiesta, ricevuto da Papa Pio XII che ascolta in silenzio l’esposizione dei fatti che Grandi gli fa e le preoccupazioni che gli esprime.

La fuga dall’Italia

Il 31 luglio arriva a Roma dalla Turchia, dove era ambasciatore, Raffaele Guariglia, nuovo Ministro degli esteri ed ex collaboratore di Grandi. Guariglia ha un piano: Grandi è ancora nel ruolo degli ambasciatori e come tale può rappresentare l’Italia a Madrid come incaricato del Ministro degli esteri di trattare la pace.

Badoglio, informato da Caviglia, rifiuta il suo assenso. Il pericolo che il comando tedesco o lo stesso Badoglio, tutti al corrente della visita a Pio XII, diano l’ordine di arrestare Grandi, è grande. Il Ministro degli esteri e la direzione generale di pubblica sicurezza organizzano la sua fuga da Roma.

Il 17 agosto la famiglia di Grandi si trasferì in casa di amici. All’alba del 18 agosto Grandi, con falsi documenti intestati a Domenico Galli, corriere diplomatico, uscì dal palazzo di Montecitorio dal lato del palazzo opposto a quello ove era l’ingresso del suo appartamento. L’attendeva una automobile del Ministero degli esteri che lo condusse a Guidonia, dopo numerosi controlli superati fortunosamente. A Guidonia Grandi e la sua famiglia salirono su un aereo che li condusse a Siviglia da dove il 26 agosto raggiunsero Lisbona.

L’8 settembre il Ministro degli esteri Guariglia fu “dimenticato” a Roma dal Governo che si trasferiva a Bari. Il re incaricò Badoglio di richiedere il 29 settembre a Eisenhower, a Malta, l’autorizzazione al rientro di Grandi in Italia per nominarlo Ministro degli esteri, ma Rooswelt, con l’approvazione di Churchill, pose il veto e consentì invece il rientro di Sforza per ricoprire quella carica.

Grandi, condannato a morte al processo di Verona (1944) come tutti coloro che il 25 luglio 1943 avevano votato a favore del suo ordine del giorno, restò a Lisbona con problemi anche economici (il patrimonio confiscatogli dalla Repubblica sociale gli fu restituito, con un concordato, solo dopo alcuni anni), sotto stretta sorveglianza degli agenti segreti della R.S.I (i loro rapporti erano sottoposti direttamente a Mussolini per suo esplicito ordine).

La nuova vita di Grandi in Brasile come uomo d’affari

Il 1 dicembre 1947 fu assolto dalla Corte d’assise speciale per le sanzioni contro il fascismo. Emigrò a San Paolo del Brasile dove iniziò a svolgere la professione di avvocato e di uomo d’affari internazionale con l’aiuto di J. P. Kennedy per fondare poi una società per la vendita dei trattori FIAT in Brasile.

Successivamente divenne Vice – presidente di una grande società siderurgica, la Techint, dell’italiano Agostino Rocca, con molteplici attività nell’America del Sud.

Svolse anche opera di mediazione tra l’ENI e le compagnie petrolifere americane.

Negli anni ’50 cercò, attraverso l’ambasciatore statunitense in Italia (1953 – 1956) Clara Boothe Luce di rinsaldare i rapporti tra Italia e Stati Uniti intervenendo quando richiesto a favore di interessi italiani presso suoi amici inglesi e americani.

In occasione delle elezioni amministrative del maggio 1956 sostenne l’opportunità per i monarchici di votare per il P.L.I., in funzione anticomunista e contro le prospettive di un governo di centro sinistra.

Tornò stabilmente in Italia all’inizio degli anni ’60 e impiantò con risultati positivi una fattoria modello ad Albaredo, vicino Modena. Morì a Bologna il 21 maggio 1988.


Bibliografia

  • P. Nello, Dino Grandi, Il Mulino, 2003.
  • P. Nello, Dino Grandi – La formazione di un leader fascista, Il Mulino. 1987.
  • P Nello, Dino Grandi – Un fedele disubbidiente. Il Mulino, 1993. Dino Grandi, 25 luglio – Quarant’anni dopo, Il Mulino. 1983.
  • Dino Grandi. II mio paese. Il Mulino, 1985.
  • P. Nello, Dino Grandi – Voce in Dizionario biog. Ital., Roma, 2002.
  • P Nello, Dal nostro agente a Lisbona, Nuova Storia contemporanea, 1999. III.





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