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giovedì 28 Marzo 2024
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Dopo Coronavirus come il dopo guerra?

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Invocata, agognata, sognata, finalmente la pace arrivò. Dall’aprile 1945 gli italiani erano liberi dalla guerra, dalla paura, dalle bombe e dal dolore. Ma intorno a loro c’erano macerie e distruzioni. Fame quasi come prima e niente case. Eppure nel giro di pochi anni l’Italia rinasce. 

In questi giorni di coronavirus sentiamo ripetere che come nel secondo dopoguerra, il Paese si riprenderà e ricomincerà a marciare come allora.

Fare paragoni, però, è del tutto inadeguato. Usciremo da questa crisi sanitaria con una economia a pezzi, ma le condizioni di quegli anni non ci sono più. Non arriveranno i soldi degli americani (non gli serviamo più, la guerra fredda è finita, il mercato europeo è bello e conquistato) e l’Europa ha il braccino corto. Non ci sono più i grandi uomini che pur con posizioni politiche contrastanti, si rimboccarono le maniche per rimettere in piedi il Paese. E soprattutto avevano idee e ideali.

Non c’è più l’Iri e non c’è la grande industria privata (quelle rimaste si contano sulle dita di una mano) e non ci sono imprenditori, geniali, visionari, cocciuti come Mattei o Olivetti che hanno contribuito alla nascita del miracolo economico.

E allora vediamo come nasce e chi ha fatto nascere  questo straordinario quinquennio: dal  1958- 1963 sono state poste le basi per creare l’Italia in cui viviamo oggi e, se è vero che non si è ancora ripresa del tutto dalla crisi economica del 2008, è anche vero che non conosce la povertà dei nostri nonni e padri, quella che ti fa letteralmente morire di fame.

Andando in ordine cronologico, due sono i personaggi che hanno dato vita alla ricostruzione e al benessere successivo. Non si può non cominciare da De Gasperi.

A lui viene attribuita la frase “Un politico guarda alle prossime elezioni; uno statista guarda alla prossima generazione. Un politico pensa al successo del suo partito; lo statista a quello del suo paese”. In realtà pare che  la disse nell’800 James Freeman Clarke, predicatore e teologo statunitense, ma a De Gasperi si adatta perfettamente. Frugale, disinteressato al denaro, antepose sempre l’interesse dell’Italia al suo personale, anche a costo di mettersi contro il suo stesso partito, la Dc, e il Vaticano.

Noto è l’episodio in cui Papa Pio XII vuole imporgli l’alleanza con il Msi e i monarchici per le elezioni del 1952 a Roma, ma lui rifiuta. Quando chiede un’udienza al Pontefice per una benedizione per lui e la sua famiglia, gli viene negata. De Gasperi prende carta e penna e scrive all’ambasciatore della Santa Sede: “Come cristiano accetto l’umiliazione, benché non sappia come giustificarla; come presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, la dignità e l’autorità che rappresento e di cui non mi posso spogliare, anche nei rapporti privati, m’impone di esprimere stupore per un rifiuto così eccezionale e di riservarmi di provocare dalla Segreteria di Stato un chiarimento”. Se non è dignità e autonomia questa!

Winston-Churchill-e-Alcide-De-Gasperi
Winston Churchill e Alcide De Gasperi

Lui è un politico a tutto tondo che  ha saputo affrontare  il nostro dopoguerra con decisioni coraggiose cercando la più ampia partecipazione, come quando nelle famose elezioni del 18 aprile 1948 la Dc  stravince e ottiene  maggioranza assoluta dei seggi, ma lui vuole  comunque un governo di coalizione, con i repubblicani, liberali e i socialisti di Saragat.

Prende in mano una Italia poverissima. Nel 1946 c’è ancora il razionamento e sfamarsi con la tessera è un’avventura. La lira non vale niente e i prezzi sono alle stelle. Un chilo di carne costa 400 lire, uno di pane 40 e un operaio guadagna 1000 lire al mese. Bisognava fare tutto e subito. Ma lui non cede alla sinistra dossettiana (che allora contava moltissimo) della Dc che vuole un controllo dello Stato sulle decisioni strategiche in economia, anche passando sulla testa dei grandi industriali – come ovvio contrarissimi all’ipotesi. Non perché avesse idee poi  tanto diverse dai suoi compagni di partito , ma perché aveva capito che gli Usa erano disposti a dare soldi solo alle imprese di cui si fidavano. Fino all’inizio del 1947  c’erano ancora i comunisti al governo ed è il presidente americano Truman ad imporne l’uscita. Quando De Gasperi va a Washington ottiene solo un decimo di fondi che si aspettava di portare a casa. Lui però sa cogliere la domanda che veniva dal popolo italiano: tornare alla normalità, vedere rimesse in piedi al più presto case, fabbriche, scuole.

“La sagacia politica che consentì a de Gasperi di reggere il timone in un frangente così difficile – scrive Valerio Castronovo nel suo “L’Italia del miracolo economico “ – fu che egli comprese come, al di là delle forti contrapposizioni ideologiche che dividevano il paese, esistesse tuttavia un denominatore comune fra gli italiani ed era la voglia di fare e di agire, di migliorare le proprie condizioni”. Ma la voglia di fare non poteva bastare e, nonostante il presidente del consiglio considerasse i grandi imprenditori paludati, altezzosi e con i cordoni della borsa ben stretti (Castronovo) capì che bisognava assicurarsene la collaborazione, anche perché erano loro ad avere le competenze necessarie per far ripartire le fabbriche.

Dalla sua aveva Luigi Einaudi, altro gigante della ricostruzione, l’unico che poteva mettere in atto la cura da cavallo per rimettere a posto i conti dello stato e bloccare l’inflazione. E lo fa. Mediante una severa politica di restrizione creditizia.

Governatore della Baca d’Italia nel 45, deputato all’assemblea costituente nel 46 , nel 47 entra nel governo de Gasperi come vice presidente e ministro del Bilancio (mantenendo la carica di Governatore). Grazie alla sua politica economica, caratterizzata dalla diminuzione delle tasse e dei dazi doganali, pone la basi per il boom economico.  Strenuo ed efficace difensore della stabilità della lira, è lui a fare la politica economica. “Una politica dura ispirata al liberalismo e al monetarismo: la lira non vale più nulla e la premessa alla ripresa dell’Italia è darle una moneta stabile e affidabile, all’estero e in patria. Il prezzo da pagare è la rinuncia alla protezione sociale, ma per Einaudi prima bisogna creare ricchezza, poi distribuirla”, scrive Aldo Cazzullo in “Giuro che non avrò più fame”.

Ed è anche grazie a questo se il presidente del consiglio può dimostrare agli americani che l’Italia sarebbe stata in condizione di rimborsare i prestiti di cui aveva bisogno. Così stimato che nel 1955 l’università di Oxford gli conferisce  la laurea honoris causa per aver “fatto molto per la salvezza del suo Paese. Egli è oggi la più rispettata di tutte le figure d’Italia, e agli occhi degli stranieri simboleggia il risorgere di un Paese che, dopo vent’anni di dittatura ed i grandi disastri della guerra, ha ritrovato il suo posto onorevole fra le nazioni libere del mondo”.

Einaudi è anche un convinto fautore di un’unica politica economica europea – in pieno accordo, pure in questo con de Gasperi –  basata sulla libertà economica, per cercare di arginare le pressioni dei due grandi schieramenti mondiali.

Al suo posto in Bankitalia, mentre lui fa il ministro, c’è Donato Menichella (che poi gli succederà). Anche lui ha avuto un ruolo decisivo nel sostenere De Gasperi nell’opera di ricostruzione dell’Italia. Economista preparatissimo, viene chiamato “il mastino più ringhioso” che il pubblico denaro abbia mai avuto. Silenzioso e impenetrabile, antiretorico e modesto.  Quando nel 1960 lascia la Banca d’Italia per la pensione, si pensa a lui come candidato alla presidenza della Repubblica, ma lui non vuole saperne e rifiuta anche le offerte di chi lo voleva senatore o ministro del Tesoro (Paolo Mieli).  Quanti oggi farebbero cosi? Non solo, si dimezza anche la pensione da Governatore.

Nel 1948 Luigi Einaudi diventa presidente della Repubblica. Anche lui è modesto e parsimonioso. Celebre è restato l’aneddoto raccontato da Ennio Flaiano invitato a pranzo al Quirinale (tra l’altro, è Einaudi che lo sceglie per la residenza del presidente). Al momento della frutta, nel vassoio ci sono grandi pere e il presidente chiede: “ne vorrei una, ma sono troppo grandi. Chi la divide con me?”. Flaiano si offre, ma conclude il racconto “qualche anno dopo saliva alla presidenza un altro e il resto è noto. Cominciava per l’Italia la Repubblica delle pere indivise”.

(segue)






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