giovedì 12 Dicembre 2024
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Elena Sciascia. Ad memoriam

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È una storia di amicizia quella di Elena Sciascia.

Una storia di amicizia e di coraggio, grande come sono grandi le storie che capitano alle persone normali.

Una storia degli anni in cui la pace, in Europa e nel mondo, si chiamava guerra fredda e aveva il suo palcoscenico nella Germania divisa e nella città che, di quegli anni, è diventata simbolo, Berlino che non è solo una città, ma è, anche e soprattutto, il suo Muro, linea grigia che taglia terra e palazzi, ferisce anime e come un’ara pagana raccoglie vittime e sangue e dolore.

Elena è una ragazza italiana di madre tedesca, con un nome che echeggia il sole e il mare di Sicilia, ma con il destino di nascere a Berlino, nel 1935, dove il padre lavora al Consolato Generale d’Italia.

Da bambina, Elena attraversa la guerra, quella vera, quella del fuoco, del ferro e dell’acciaio e negli stessi giorni in cui conosce la paura, impara il coraggio.

Elena sogna una vita normale.

Quando viene il tempo della pace, il sogno le sembra a portata di mano.

Studia, lavora come indossatrice, si laurea negli anni cinquanta, per dieci anni è interprete al Consolato Generale d’Italia e proprio grazie a questo lavoro può viaggiare con una certa libertà tra le due Germanie.

Repubblica Federale e Repubblica Democratica sono nomi che oggi occhieggiano solo su vecchie cartine geografiche ma che, allora, segnavano una distanza siderale tra due mondi.

Uno spazio-tempo fatto di differenze che passano sotto gli occhi di Elena, giovane e con tutta la vita davanti.

Ha ventiquattro anni Elena quando, nel 1959 alla Fiera del Libro di Lipsia, in Sassonia, allora Germania dell’Est, incontra nuovamente il suo destino.

Un destino che ha il volto dell’amicizia e il nome di Eva Solingen, berlinese che vive a est. Diventano amiche, Elena ed Eva, amiche con il sorriso e la complicità della gioventù.

Un’amicizia che una notte d‘estate travolgerà come una tempesta.

Due anni dopo, la notte del 13 agosto 1961, soldati ed operai della Repubblica Democratica di Germania iniziano a stendere un filo spinato che disegna un confine da non oltrepassare.

Il filo spinato diventerà una rete e poi un Muro, prima basso e poi alto e intorno c’è una terra di nessuno con riflettori, cani e torrette con mitragliatrici.

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Presto però quella non sarà più una terra di nessuno, ma apparterrà alle croci che come un rosario la andranno a rendere terra amara di sogni infranti e grida soffocate, terra dove la paura si chiama fuga e la strega cattiva si traveste da soldato, da vopos, e  non offre mele avvelenate, ma piombo che brucia e strazia la carne.

Ma nessun Muro uccide la speranza.

Per dieci anni, Eva ed Elena, si scrivono: la vita continua, l’affetto non passa.

Il 1971 segna un anno di svolta: l’Ostpolitik del cancelliere Willy Brandt sembra concedere una speranza in più ai berlinesi dell’ovest che possono riprendere a spostarsi dall’altra parte del confine.

Elena ed Eva, a cui il tempo ha tolto solo un po’ di gioventù, tornano ad incontrarsi. Sono donne e sono forti come sanno esserlo le donne, sfidano il futuro, guardano avanti ed Eva si vede libera, libera di sognare e di avere un’altra vita.

Una vita con il Muro alle spalle e non davanti.

Il pensiero a lungo coltivato inizia a prendere forma e contorno: si va via.

Con grande cura, la fuga viene preparata.

Ma una fuga richiede tempo e passano due anni.

E una fuga non si prepara da soli ed Elena deve parlarne con qualcuno e parlarne ancora con Eva.

Tempo che passa, occhi che guardano, orecchie che ascoltano.

Ma Elena ha coraggio, non scorda la sua vita da bambina e la guerra di adesso forse le sembra poco più di un gioco.

È il giorno dedicato all’amore, il 14 febbraio del 1973, che tutto si compie.

Vita, speranza, illusione, futuro.

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Elena passa il confine con il suo maggiolino e si dirige verso casa di Eva.

Parcheggia sotto casa, sale le scale con un cuore che palpita in gola e che si ferma davanti ad una porta chiusa a cui non può bussare.

La porta è sigillata.

Qualcuno è arrivato prima di lei, qualcuno che non doveva arrivare.

Capisce Elena.

Capisce che deve andare via, subito, non pensare, rendersi invisibile come nelle favole per ritrovarsi d’incanto nel bosco fatato dove tutto è possibile.

Pensa a questo mentre scende le scale e il cuore non la lascia, pensa a questo mentre guida verso il Check Point Charlie.

Pensa a questo mentre una macchina le si avvicina, la stringe e la costringe a fermarsi.

Le chiedono i documenti, ma è una finzione; sanno benissimo chi è.

Elena mostra il passaporto, è verde con una stella dorata impressa sopra; è italiano il suo passaporto.

Non basta.

Gli uomini in impermeabile le dicono che deve seguirli, è un controllo, ci vorrà poco le dicono ancora, ma il tempo, a Berlino Est, scorre a modo suo.

La Stasi la terrà in isolamento per sei mesi e la interrogherà ogni giorno, a ogni ora del giorno e per più ore di seguito.

Sempre con le stesse domande che non trovano risposte.

Elena viene accusata di traffico di persone.

Un processo farsa la condannerà e la farà rimanere in prigione per due anni e mezzo, provata nel fisico e nello spirito. 

In carcere, a Bautzen in Sassonia, arriverà a pesare cinquanta chili.

Uscirà solo perché qualcuno pagherà per lei una cauzione o, meglio, un riscatto. Ottantamila marchi la faranno tornare al mondo libero nel marzo 1976; sarà così anche per Eva, ma solo nel dicembre 1977.

Ottantamila marchi pagati dalla Repubblica Federale di Germania per una cittadina italiana rapita e torturata.

L’ Italia non paga, l’Italia non ascolta, l’Italia dimentica.

Gli anni in cui l’Italia pagherà per liberare suoi cittadini rapiti all’estero sono ancora lontanissimi.

In Italia, anzi, la storia di Elena trova pochissima eco.

Elena sconterà sulla sua pelle non solo gli anni del carcere e le torture, ma anche l’impronta indelebile di quegli anni; dopo pochi mesi dal suo ritorno alla libertà sarà colpita da un ictus e la sua vita non sarà più quella di prima, andrà solo vicino a quella che aveva sognato.

Si sposa nel 1983 e il matrimonio le darà la serenità per continuare a vivere sino a quando, nel 1996, il destino le presenterà il suo conto.

Un nuovo ictus la colpisce e il suo sonno senza ritorno durerà sino al 14 ottobre del 2003.

Sette anni di silenzio: l’ultima prigione di Elena.

Sette anni di silenzio, certo, ma non di buio perché ci piace pensare che i suoi sogni l’abbiano accompagnata e le abbiano dato luce anche allora.

A Elena Sciascia e alle storie dimenticate di altri sedici italiani imprigionati e torturati per aver lanciato sogni e coraggio oltre il Muro, rendiamo omaggio, qui e adesso, quarantuno anni dopo la notte del 9 novembre del 1989 che quel Muro si è portato via.

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