di Giuseppe Carro
Non era suo solito avere paura. È sempre stata una grande donna, una di quelle che soffre in silenzio e cammina a testa alta, una donna dall’alto senso del decoro. Ricordo che quando morì suo padre, mentre le sorelle si gettavano in lacrime ai piedi della bara, lei con un sorriso sul volto disse “ciao papà”. Lei, con un’intelligenza così spiccata da tener testa a qualunque “erudito” di turno, lei, con la sua “eleganza delle piccole cose”, lei, che rende il semplice atto di lavorare il pane una sorta di arcano mistero, affascinante quanto l’ignoto, lei, che leggendo i suoi piccoli romanzi serali riesce ancora a far volare la fantasia. Lei, che non è solita avere paura…
Adesso ha paura, paura di questo male invisibile, paura di un qualcosa che non sa controllare, paura di una quotidianità devastata, paura di non poter più regalare carezze e baci.
Ha paura, perché questo perverso nemico, minaccia di fare del male a tutti coloro il cui cuore non batte più come un tempo, la cui pelle non è più liscia, i cui capelli hanno ormai perso colore, e i cui occhi lucidi hanno il gusto di un tempo andato, di gioie passate e di un grandioso vissuto.
Non mi preoccupa la malattia di per sé, il virus non ha occhi, non sente, non fa distinzioni, è avvilente invece percepire il degrado morale di una società disposta a gettare nel baratro del dolore e del terrore i propri genitori e i propri nonni pur di sentirsi al sicuro. Ogni volta che alla notizia di una nuova morte direte “non importa, era vecchio e malato” ricordate che quella persona potrebbe essere vostra madre, vostro padre, vostra nonna, ricordate che gli anziani non sono la parte debole della società, e che, anzi, ne rappresentano il pilastro, ricordate che essi salvaguardano una sorta di “corrispondenza di amorosi sensi” con il passato.
Alla fine, l’insegnamento più grande che mia nonna mi abbia dato è che le farfalle arrivano più lontane dei bruchi.
Dalla rubrica “Diario di una quarantena”