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venerdì 26 Aprile 2024
Il piacere dei sensiForse che sì, forse che no

Forse che sì, forse che no

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La condizione principale per stabilire omonimia potrebbe essere data dall’affinità o meno di significato. Ma neanche l’affinità è elemento definitivo per la distinzione che interessa: se si indaga sui significati di ‘credenza’ (convinzione) e di ‘credenza’ (armadio da cucina), i due sostantivi si ritrovano storicamente collegati, anche se distaccatisi nel tempo in maniera notevole, tanto che oggi, a una lettura sincronica, non appare tra loro alcun nesso In realtà ‘credenza’ anticamente era detto l’assaggio precauzionale di cibi e bevande prima che questi fossero serviti ad un personaggio importante, il quale, così, avrebbe certamente potuto credere alla loro innocuità. Di qui al significato, ancora antico, di “tavola apparecchiata con piatti e vivande a uso della mensa” il passo è breve; un altro piccolo passaggio porta a indicare con ‘credenza’ anche il mobile di cucina.

Il ‘fiasco’ indica sia un contenitore di vetro che l’insuccesso (ad esempio, quello teatrale). Ma non si tratta di vera e propria omonimia: un attore bolognese del ’600, Domenico Biancolelli, eccellente interprete di Arlecchino, era impegnato in un monologo su di un fiasco di vino che reggeva in mano; non appena si accorse che il pubblico non rideva affatto, si rivolse al fiasco addebitandogli l’insuccesso di quella sera e se lo gettò dietro le spalle mandandolo in frantumi.

Al contrario, può darsi il caso di vocaboli che a prima vista sembrano avere un’unica derivazione, mentre la loro origine, in realtà, è completamente diversa. È il caso, ad esempio, di ‘filtro’, che, nelle significazioni di “dispositivo per filtrazione” e di “bevanda magica”, nasconde origini completamente diverse: [fr. filtre, di orig. germ.] e [vc. dotta lat. ‘phîltru(m)’, dal gr. ‘phíltron’, da ‘philéo’, “io amo”, perché il filtro avrebbe dovuto suscitare l’amore]. È ancora il caso di ‘accòrdio’ (“specie di antico organino”) e ‘accordìo’ (prolungata accordatura di strumenti musicali): in realtà non vi è alcun segno di armonia nell’«accòrdio», che trae il nome da quello del suo inventore, il tedesco Akkordion.

Alcuni studiosi, come John Lyons, esaminando il fenomeno di ambiguità verificantesi nel linguaggio e dovuto alla polivalenza di determinate parole che rinviano a più significati differenziati, considerano la polisemia un ineliminabile elemento di efficienza e di economia nel funzionamento della lingua e giudicano invece l’omonimia un fatto casuale, privo di vantaggi e, in alcuni casi, addirittura un elemento di equivoco e di disturbo della comunicazione. Reintroducendo la prospettiva storica e osservando la confluenza in un unico significante di due diverse parole originarie, ha finito addirittura per parlare di un banale «incidente di percorso» John Lyons (Lezioni di linguistica, Laterza, Bari, 1982).

Il tema della chiarezza espressiva è, infatti, particolarmente importante per le tecniche dell’argomentazione; gli stessi antichi retori, del resto, erano disposti se mai a concedere delle libertà in tal senso soltanto alla poesia, la quale per la sua stessa natura multiforme, può derivare molto del proprio fascino dall’oscurità di linguaggio; un’oscurità/ambiguità, che, anzi, può divenire un vero e proprio contrassegno della poesia rispetto alla comunicazione pratica, laddove, invece, è necessario essere chiari per evitare equivoci ed incomprensioni.

La capacità di stabilire collegamenti imprevisti, quella di giocare sul bisenso, sono comunque ingredienti dell’arguzia e l’equivoco può nascere dall’uso di parole polisemiche o di omonimi o anche, più semplicemente, dall’introduzione di elementi di ambiguità sintattica. Qualsiasi libro di retorica o di grammatica riporta l’ormai abusatissimo esempio de «la vecchia porta la sbarra», al quale, in verità molto debolmente, si continua ad affidare il cómpito di rappresentare l’equivoco sintattico, il quale sarebbe, invece, più chiaramente e nettamente dimostrato attraverso uno dei tantissimi riusciti esempi di “crittografia mnemonica”, quel tipo di combinazione enigmistica che bene a ragione ha suscitato e continua a suscitare l’interesse di linguisti e semiologi.

Il parlare equivoco è comunque di casa in molti altri luoghi, oltre che esempio letterario connaturato all’ambiguità della poesia:

  • è elemento predominante del calembour;
  • è trovata pubblicitaria, che può sfruttare a buon mercato l’effetto inquietante e inatteso di una semplice frase ripetuta con una diversa intonazione e accentazione: “vestìti per piacere / vèstiti!, per piacere!” (ma qui, naturalmente, il gioco non è dato da veri e propri omonimi);
  • è passatempo enigmistico, che può travasarsi in brevi composizioni epigrammatiche o in componimenti poetici di ampio respiro e di forte spessore dilogico.

Quello che qui interessa è maggiormente il significato lessicale delle parole, non tanto il loro significato di frase, il quale può variare a seconda della struttura sintattica o grammaticale.






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