Il cibo, oggi, fa spettacolo: tutti parlano di cibo, imperversano guide e programmi tv, i ristoranti sono diventati luoghi di culto e gli chef delle vere star.
Il cibo è tema per congressi e meeting, è ragione di incontri e di dibattiti, attraverso il cibo conosciamo gli uomini, i popoli e la loro storia.
Il cibo è un diritto, tutti i bambini del mondo hanno diritto di mangiare e i governanti dovrebbero impegnarsi perchè tutti possano sedersi intorno a una tavola.
Ma è un diritto mangiare un cibo sano e nutriente. Un cibo buono.
Il cibo eccellente può renderci felici: può rendere felice il consumatore perchè profumi, sapori, relazioni umane, storia possono arricchire la sua vita e fargli provare sensazioni coinvolgenti. Può rendere felice il produttore nel momento in cui si affranca da una visione puramente commerciale per passare a quella creativa dell’artigiano-imprenditore.
Esiste una grafico, tratto dagli studi del Museo di Medicina della Università La Sapienza di Roma, che mostra l’andamento dell’indice di aspettativa di vita alla nascita. La curva sale verticalmente dopo circa 20.000 anni di andamento in leggera crescita: è in corrispondenza della ” rivoluzione agricola” che si impenna, quando la tecnologia, e quindi il pensiero dell’uomo, è entrato prepotentemente all’interno del processo produttivo rendendo il cibo sano, abbondante e nutriente.
Come la “Dieta Mediterranea, quel patrimonio immateriale dell’Umanità che sta dentro quello straordinario processo che ha portato l’uomo a creare prima l’agricoltura come elemento di sopravvivenza e poi il cibo come piacere. Una svolta che ha separato l’uomo dalle altre specie animali in aperto contrasto con l’idea che agricoltura vuol dire naturale. Naturale sarebbe raccogliere dalla terra quello che spontaneamente produce, mentre l’uomo si è industriato a coltivare, cambiare, trasformare per alimentarsi. Ha dovuto memorizzare quello che poteva essere buono da quello che buono non era; ha dovuto imparare prima a condividere con la comunità poi a conoscere per innovare per produrre meglio e di più. Le comunità si sono formate, allargate e organizzate attorno alla coltivazione della terra per passare dal bisogno di nutrirsi al cibo, al piacere, al gusto. Un lungo percorso che ha attraversato la storia, che si è nutrito di cultura, che ha consentito all’agricoltura di usare i prodotti della scienza e della tecnologia. L’hanno chiamata “Rivoluzione agricola”, quella che ha consentito alla mente ormai nutrita di nutrire il corpo.
Il luogo è l’impresa artigiana, lo strumento è il racconto. Il narratore del gusto ci parla dell’arte, dell’identità e della tradizione del territorio che usa il cibo come “filo d’Arianna” e che si serve del racconto affinché l’informazione diventi emozione e cultura. Il cibo racconta il lavoro dell’uomo nella coltivazione dei prodotti della terra, raccontano la creatività con cui l’uomo è capace di trasformare un prodotto della natura, raccontano di come sapori, paesaggio e architetture formino l’identità di un paese e di un popolo.
L’identità delle terre che si bagnano nel mediterraneo è un albero: l’olivo è una pianta e un simbolo, un mito e una storia. Se dovessimo spiegare a qualcuno non esperto di filosofia del linguaggio o di storia delle religioni, o di storia dell’arte cosa sia un “segno”, ossia qualcosa delegata a rappresentare altro da se, l’olivo, il ramo o l’albero, diventerebbero l’esempio migliore e di più facile comprensione. Questo semplice incipit chiarisce che l’olivo è prima di tutto una cultura, pianta orientale, in origine, segno poi della storia sacra e profana dell’occidente. Come segno metaforico è entrato in una infinità di strutture narrative che si sono talmente intrecciate da diventare il contesto del nostro comportamento quotidiano. Bello da vedere, monumentale come può essere un manufatto millenario, intrigante nell’aspetto, costretto a dotarsi di fascino. Riempie di sé il luogo che lo circonda, connota inequivocabilmente il paesaggio, ispira nei secoli forme e architetture, attraversa indenne la storia degli uomini, ed è generoso come pochi, altrettanto belli e imponenti, ma sterili. L’olivo no. Genera un frutto straordinario che da sempre l’uomo ha cercato, apprezzato, condiviso, usato. Dall’olivo all’olio, dall’olio per illuminare le strade di Roma imperiale all’olio per conciare le pelli, dall’olio per la bellezza delle donne all’olio per i banchetti. Un processo che ha accompagnato non solo lo sviluppo delle colture e le tecniche di lavorazione, ma anche l’evoluzione del pensiero e quindi l’evoluzione dell’uomo e della sua cultura. Ma l’olivo non è solo un alimento o una coltura: la sua biodiversità è salvezza del pianeta-terra. La diversità come valore e non come ostacolo, una diversità che da sempre è alla base della civiltà di un Paese come il nostro che ha convissuto con culture, popoli e tradizioni diverse.
Senza la cultura Italiana tutto questo non esisterebbe. E non si potrebbe raccontare.
“Quando lo sguardo si appoggia su di lui gli occhi si riempiono di un verde che imprigiona i bagliori iridescenti dello smeraldo attraversato da raggi di luce come se un sole caldo si smembrasse in particelle d’oro…” Così il Mastro Oleario racconta l’emozione dell’olio, incanta i suoi ospiti in visita al frantoio e invita all’assaggio per godere delle loro espressioni stupite come chi ha scoperto qualcosa che non sapeva ma che usava. L’olio di eccellenza ha bisogno di stare nel cibo, e non con il cibo, in modo che si possa apprezzare la sua funzionalità sensoriale: l’olio non si beve, si mangia. L’olio è un ingrediente di pregio, come il tartufo: pochi grammi cambiano il profilo sensoriale del cibo. Non basta la qualità, oggi è fondamentale l’unicità dei prodotti artigianali e di eccellenza. La qualità è il soddisfacimento delle esigenze base del consumatore. L’unicità esprime altro: sensazioni, emozioni, cultura, storia.
Del cibo non ci si informa, il cibo si racconta. Li hanno chiamati narratori del gusto. Hanno raccolto storie e leggende, fin da quel passo della Bibbia: “Il Signore parlò a Mosè e gli disse: Il primo giorno del primo mese erigerai la Dimora, la tenda del convegno. Dentro vi collocherai l’arca della Testimonianza, davanti all’arca tenderai il velo. (…) Poi prenderai l’olio dell’unzione e ungerai con esso la Dimora e quanto vi sarà dentro e la consacrerai con tutti i suoi arredi; così diventerà cosa santa. (…) Farai indossare ad Aronne le vesti sacre, lo ungerai, lo consacrerai e così egli eserciterà il mio sacerdozio. Farai avvicinare anche i suoi figli e farai loro indossare le tuniche. Li ungerai, come il loro padre, e così eserciteranno il mio sacerdozio; in tal modo la loro unzione conferirà loro un sacerdozio perenne, per le loro generazioni”.