giovedì 21 Novembre 2024
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Guareschi: più vivo che mai

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Per me Don Camillo e l’Eur, da ragazzo, mi facevano lo stesso effetto: ne ero attratto, però la mia cultura non me lo faceva ammettere. Mi piaceva il Palazzo della Civiltà del Lavoro, che noi romani avevamo ribattezzato “il Colosseo quadrato”, mi piaceva il Palazzo dei Congressi, mi piacevano le larghe  vie con i portici che ti davano la sensazione di essere in una città irreale, quasi avveniristica, ripresa da un quadro metafisico di De Chirico. Mi piaceva anche il Foro Italico, con i suoi stadi monumentali, i suoi pavimenti in mosaico e i palazzi dipinti in rosso pompeiano.

Mi piaceva Don Camillo e mi piaceva soprattutto Peppone, mi piaceva quella loro competizione infinita su cui riuscivano a trovare sempre un accordo di fondo. Si faceva presto a capire che Don Camillo e Peppone erano due italiani, mossi dalle stesse passioni e dagli stessi sentimenti, divisi soltanto dalla politica. Ma uniti nel loro stare dalla parte dei deboli, degli umili, contro il potere, la rendita passiva e lo sfruttamento bieco dell’uomo sull’uomo. I due soggetti-rivali si capiva che, pur rispondendo a due chiese diverse (la cattolica e la comunista), in realtà nelle cose fondamentali si trovavano sempre d’accordo. E che tutti e due avevano la loro voce della coscienza a riportarli sulla giusta strada: Don Camillo il Cristo in croce che lo riprende continuamente e Peppone l’educazione che ha ricevuto nella sua infanzia, e qualche volta la saggezza contadina della moglie. Memorabile la battuta della signora Bottazzi al marito che è stato eletto al Parlamento e che sta per partire per Roma, “quando si ha moglie e figli non si va in giro a fare il deputato”.

Insomma, mi appariva chiaro che nel suo Mondo Piccolo, Guareschi intendeva rappresentare il più vasto, il grande mondo italiano.

E mi era sembrato di capire che le simpatie di Guareschi andassero non al pretone prepotente ma al sindaco sanguigno e un po’ coglione, che sogna di fare nella Bassa Emiliana il paradiso dei proletari, come l’avevano fatto in Russia, dove però si guarda bene dall’andare.

La stessa intuizione l’avevano avuta il regista e il produttore del film che avevano offerto, proprio a Guareschi, la parte di Peppone. Guareschi girò la prima scena per 14 volte, poi alzò le braccia e disse “recitare non è mestiere mio” e aprì la strada a quello straordinario attore che era Gino Cervi.

Poi, quando sono maturato, mi sono detto: l’Eur con la sua architettura razionalista è bellissimo, è un capolavoro che si aggiunge ai millenni di storia dell’arte che convivono nella Città Eterna, così Don Camillo ci racconta  una Italia unica e irripetibile, che cerca una sua unità e anche una sua concordia nazionale.

Oltre ai film, lessi i racconti e poi imparai a conoscere il personaggio Giovannino Guareschi, un tipo tosto, uno che non si arrendeva mai, neppure quando, da miliare italiano che si rifiutò di aderire alla repubblica di Mussolini, si ritrovò internato in un lager nazista. “Non muoio nemmeno se mi ammazzano” disse a se stesso e fu così perché visse quel terribile periodo della sua vita da uomo libero, dentro. E quella esperienza ce la raccontò in un libro bellissimo, Diario clandestino, dove dice “io servo la Patria facendo la guardia alla mia dignità di italiano e se muoio di polmonite o di fame o di tifo petecchiale, non sono meno morto di chi muore per un colpo di 381, perché la fame, il freddo, la tbc, la sporcizia, le pulci, i pidocchi non sono meno micidiale delle palle di fucile”. Due anni di internamento che lo ridussero pelle e ossa fu il costo di quella coerenza.

Oppure come quando fu sfidato dai compagni di Reggio a un pubblico dibattito. Giovannino si presentò solo nel teatro comunale, che brulicava di compagni e di bandiere rosse. Quando i compagni lo videro, lo subissarono di applausi in onore al suo coraggio. Giovannino si commosse e le prime parole che pronunciò furono: “compagni mi avete fregato!”. Ma riuscì, nonostante l’emozione, a reggere il confronto con dovizia di argomenti, affermando tra l’altro, “io sono riuscito in una impresa mai riuscita a nessuno prima di me; rendere simpatico un comunista”. Alludeva, ovviamente, al suo amato sindaco Peppone.

O quando, da direttore di Candido, si trovò a pubblicare lettere, che calunniavano De Gasperi, per le quali fu condannato, prese la sua sacca e se ne andò in carcere a scontare la condanna, senza fare appello alla sentenza di primo grado. E nella storia d’Italia rimase l’unico giornalista ad andare in prigione, dove stette per più di un anno, per un reato a mezzo stampa.

Per dire che personaggio fosse Guareschi, basta leggere quello che scrisse tre anni dopo la vicenda giudiziaria e dopo l’anno di carcere scontato interamente, nel 1957, e quando De Gasperi era morto da tre anni: “Non voglio rivangare vecchie storie che sono diventate polvere di tribunale e di galera: Dio sa come effettivamente sono andate le cose e questo mi tranquillizza in pieno. Voglio soltanto rendere omaggio alla verità e riconoscere che, al confronto dei campioni politici di oggi, De Gasperi era un gigante”. Insomma rendeva omaggio, quando ancora le ferite erano aperte, a colui che lo aveva mandato in galera.

A questo punto viene legittimamente da domandarci a che cosa paragonerebbe Guareschi, quel suo De Gasperi se confrontato con i politici di oggi. Ma questi confronti la Storia, si sa, non ce li consente, anche se noi li possiamo tranquillamente immaginare.

Ma quella vicenda lo segnò profondamente anche nel fisico e influì sul suo cuore molto più degli anni della guerra e della prigionia.

Quando morì, il quotidiano comunista L’Unità fece un titolo vergognoso “E’ morto uno scrittore mai nato”. Viene facile ricordare che quel giornale non esiste più e che Guareschi è più vivo che mai, con i suoi libri venduti a milioni in tutti i paesi del mondo in cui è stato tradotto.

Alla fine degli anni Settanta, gli anni di piombo e della follia politica, dove tanti, troppi, giocavano alla rivoluzione e alla controrivoluzione, mi ritrovai, insieme al mio amico e sodale Franco Bonvicini, il grande cartoonist che si celava dietro il nome di Bonvi, a leggere a Lucca, durante il Salone dei Comics, una recensione di Don Camillo, ripubblicato dopo diversi anni dalla Rizzoli, che incominciava così: “Prendere in mano questo libro è come averlo raccolto da una pozzanghera…”.

Bonvi e io, giovani di sinistra che avevano letto e apprezzato Guareschi, fino a quel momento quasi “clandestinamente”, decidemmo di uscire allo scoperto e proponemmo alla direzione del Salone di dedicare una grande mostra a Giovannino Guareschi, che era anche vignettista e disegnatore.

La nostra proposta cadde nel silenzio più imbarazzato e Bonvi ed io abbandonammo la riunione indignati.

Oggi, dell’autore di quella recensione si è perso persino la memoria (io stesso non ricordo neppure il nome e neppure la testata che lo pubblicò, tra quelle che non esistono più), mentre l’opera di Guareschi continua a vivere con i suoi libri e con i suoi film, che sono più replicati dei film della Walt Disney. E mi piace pensare che, se Peppone e Don Camillo avessero continuato a vivere anche nella realtà, il Comune di Brescello non sarebbe stato  “commissariato per mafia”, come sciaguratamente è successo.

Mentre a noi, più vecchi, che quella Italia l’abbiamo vissuta, rimane la nostalgia per il mondo piccolo di Giovannino Guareschi, con i cristi parlanti a riportare sulla via della saggezza i preti maneschi e i sindaci comunisti che si commuovono quando sentono cantare “La leggenda del Piave”.

Per fortuna ci rimane la lettura dei libri di Giovannino Guareschi e i film che se ne fecero, con gli immortali Gino Cervi nella parte di Peppone e di Fernandel nella parte di Don Camillo, che nella realtà non esistono più: Peppone cancellato anche come partito e Don Camillo profondamente ridimensionato nella vita pubblica.






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