giovedì 21 Novembre 2024
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I due piatti della bilancia nel giudizio su Craxi. Ripensare è un dovere della storia.

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Mario Soares, François Mitterrand, Bettino Craxi e Felipe Gonzales (Parigi, 23 maggio 1984)

Nell’esperienza decennale a Palazzo Chigi (direttore generale e capo dipartimento dal 1985 al 1995, con dieci governi) ho visto da vicino il tramonto della prima Repubblica;  ho visto la fiammata riformatrice del governo Craxi impaludarsi nel galleggiamento conflittuale della politica in quella fase degli anni ‘90; ho visto figure molto diverse assumere, abitualmente con una certa gravità, le funzioni di quella cosa severa e difficile che è l’arte di governo; ho visto alla fine una forte tensione trasformare paradigmi, giudizi e criteri di selezione delle classi dirigenti e mettere a nudo – più che nel passato – pregi e difetti dei leader.

In particolare ho visto cominciare ad affermarsi l’idea dell’antipolitica su cui sono cresciute due malattie: da un lato una forzata e purtroppo sempre più incompetente discontinuità; dall’altro l’esito, nel quadro internazionale, di un Paese scappato di mano (l’intervista del commissario europeo Gentiloni a Repubblica è l’ultimo drammatico segnale[1]).

Con Craxi presidente del Consiglio ho avuto – nominato dal suo governo nel giugno del 1985 – molteplici interlocuzioni. Raro che vi fosse posto per divagazioni o per argomenti diversi da quelli di governo. Sono stato in delegazione in viaggi importanti con lui, tra cui il G7 di Tokio (4-6 maggio 1986) e il viaggio in Cina (primi di novembre del 1986), viaggio dileggiato da alcuni media avversari ma in realtà precursore di una politica indispensabile per le posizioni internazionali che l’Italia andava assumendo. Nel quadro di questa storia ho scritto poi qualcosa, ripensando a vicende, anche partecipate con elementi di valutazione a disposizione[2].

Ed è nel quadro di questo tempo successivo, che permette un bilancio comparativo tra ciò che era avvenuto prima e ciò che è avvenuto dopo, che il direttore di questo giornale mi chiede di scrivere qualche riflessione, in questo gennaio 2020 in cui è aperto il dibattito sulla figura di Craxi a venti anni dalla scomparsa.

Provo a farlo con un necessario schematismo, cercando di derubricare la “storia a colori”, diciamo “regno e solitudini”, che è materia del film di Gianni Amelio di cui si parla e che vedrò con interesse. Storia che comprende la vicenda del lancio delle monetine davanti al Raphael il 30 aprile del 1993, comprende chi applaudì, chi non applaudì, chi applaudì al tempo ma poi fece ammenda considerando l’evento una vergogna. Craxi ora ha diritto ad un bilancio storico-politico fuori dal rancore spesso disinformato e qualunquistico e forse anche fuori dalla contraerea militante (dalla quale persino il figlio di Craxi, come leggo nei suoi interventi di questi giorni, si sottrae con sobrietà, senza far mancare argomentazioni solidali).

Finora, mescolato ad un certo pressapochismo della memoria, ha pesato di più il piatto critico della bilancia. Cresce nelle valutazioni responsabili il piatto della bilancia comparativo, con ciò che precedette e ciò che seguì la sua fase decisiva di esperienza.

4 giudizi che pesano sull’immagine di Craxi

Pesano sulla immagine di Craxi quattro sostanziali giudizi che si sono radicati (i primi due tra la gente, gli altri due tra gli addetti ai lavori), lasciando ben inteso vivi ma minoritari avvisi diversi:

  • avere contribuito a coltivare l’ineludibile pensiero – appartenuto a tutta la politica italiana – che, per fare politica attiva attraverso lo strumento costituzionale rappresentato dai partiti, sia ovviamente necessario provvedere al rifornimento finanziario del costo della politica, ma (questa la sottesa critica) trasformandolo a poco a poco da garanzia minima per la costruzione di necessari apparati di presidio democratico territoriale e nazionale a strumento di controllo dei partiti stessi e della loro linea politica;
  • avere deciso di non subire l’unilaterale scatenamento di indagini giudiziarie nella sostanza finalizzate a togliere di mezzo lui stesso e un Partito Socialista divenuto troppo oggetto dell’influenza del suo leader, scegliendo la via dell’esilio rispetto a quella dei processi nelle aule di giustizia;
  • avere contribuito a trasformare in senso autoritario il sistema decisionale collegiale di un partito politico evoluto in un secolo più nel solco della forma democratica che in quelle del “centralismo” ovvero del leaderismo senza contrappesi;
  • avere immaginato che l’originalità di una posizione originata nell’autonomismo politico (rispetto ai comunisti) e di apertura alla visione liberalsocialista, avrebbe potuto essere assolto dal solo Psi in crescita più che dalla creazione “realistica” di un blocco liberal-democratico (Psi-Pri-Pli-Psdi-Pr), territorio in verità di competizione e di conflittualità identitarie.

4 giudizi che danno luce all’immagine di Craxi

Danno luce alla sua immagine quattro sostanziali giudizi che, a confronto del peggio che la vicenda italiana ha mostrato, si sono fatti largo nell’opinione pubblica e in una parte anche importante di storici e opinionisti:

  • avere posto le condizioni per uscire dal galleggiamento degli anni ’70 – fatto di tatticismo e opportunismo della parte prevalente della politica italiana – che subì la stagione del terrorismo e dell’inflazione senza dare una risposta strategica né alla qualità della democrazia nazionale (con l’alternativa politica alla Dc e l’alternativa ideologica al Pci[3] che costituirono la bussola di Craxi) né alla politica delle necessarie riforme per favorire lo sviluppo del Paese;
  • avere ripreso il bandolo delle riforme del primo centro-sinistra degli anni ’60, possibile solo mantenendo la necessità non solo di adeguare specifici settori ma anche di riformare lo Stato e spingendo quindi il posizionamento dell’Italia nel cuore dell’Europa e delle sue culture al tempo prevalenti di orientamento socialista-democratico; in un impegno che avrebbe significato anche rinnovare profondamente i gruppi dirigenti dell’Amministrazione pubblica e non solo quelli della politica (in questo quadro, mi si consenta di dire, anche lo specifico della mia esperienza);
  • avere offerto al ceto medio italiano (lavoratori e imprenditori) una interlocuzione affidabile capace di assicurare welfare in cambio di permanenza ideale e culturale nel campo del progressismo moderato;
  • avere impresso un indirizzo “funzionale” del Paese su alcuni assi che poi si sono perduti per strada: dall’atlantismo indipendente (che certamente costò prezzi anche personali a Craxi)  al ruolo euro-mediterraneo attivo.

La questione di una tessitura più stringente del blocco lib-lab (capace di esprimere un quarto dell’elettorato italiano) resta un tema di dibattito aperto che andrebbe svolto. Raccolsi l’opinione critica, nei confronti di Craxi, di Antonio Maccanico, tra le sue ultime manifestazioni di pensiero in vita[4]. Ci è tornata sopra Emma Bonino, nella prefazione ad un mio testo che ruota molto attorno a questo tema, ma senza puntare il dito contro nessuno e imputando a tutti i leader lib-lab eccessi di orgoglio[5]. Quanto agli equilibri tra leaderismo e pluralismo interno, altri meglio di me possono argomentare le vicende, anche in rapporto ad altre esperienze del tempo e a quanto è poi evoluto nel nostro sistema.

Comunque quando rileggo – con calma e senza pregiudizio – ciò che c’è nei due piatti della bilancia, prima ancora di fare l’avvocato del diavolo rispetto ai temi toccati (sia alleggerendo le accuse, sia sfumando gli elogi) mi dico che il senso storico del ruolo di Bettino Craxi e del socialismo europeista e autonomista da lui perseguito è nettamente tracciato.

C’è chi va scrivendo che con questo ventennale si sta “forzando la mano” a ristabilire una più ampia e equa revisione di giudizio. Chi lo dice pensa forse che la storia si possa scrivere quando non c’è più nulla da rimediare. Ritengo piuttosto che l’eccesso di violenza e di unidirezionalità di molti giudizi debba trovare argomentata ricomposizione finché “c’è qualcosa da rimediare”. Almeno quando ci sia evidenza che c’è qualcosa da ripensare. Altrimenti vorrebbe dire che lo stereotipo ha più diritto della verità nel campo della conoscenza.

Da questo si dovrebbe partire per mettere fine all’estirpazione delle culture politiche che, dopo Craxi (e aggiungerei anche dopo Pannella), non hanno avuto quasi più diritto di cittadinanza.  

Nel coraggio oggi di vedere anche in forme nuove e diverse questa evoluzione. Ma smettendo di pensare – in un nuovismo avvilente di una parte ormai sostanziale del ceto politico italiano del terzo millennio – che per fare un’Italia più giusta e moderna non esistano storie di riferimento (non solo questa) a cui guardare e da spiegare alle giovani generazioni.


[1]Europa svegliati” – monito rivolto anche all’Italia – a cura di Alberto D’Argenio, Repubblica 7 gennaio 2020.

[2] Stefano Rolando, Una voce poco fa. Politica, media e comunicazione nella vicenda del Partito Socialista italiano 1976-1994 (Fondazione Craxi, Marsilio, 2009).

[3] Ha scritto in modo oggi non confutabile lo storico Roberto Chiarini: ““Craxi è stato il primo leader della sinistra italiana a porre senza riserve l’uscita dal rivoluzionarismo. Una concezione che contagiava anche il riformismo e che prevedeva a breve o a lungo termine l’uscita dal capitalismo. Un’utopia che ha percorso (e congelato) la sinistra italiana dal 1892 agli anni di Enrico Berlinguer. Se oggi la sinistra ha un futuro deve partire dalla rottura di quel tabù”.

[4] In Mondoperaio n.1/gennaio 2011 – 150° a prova di unità/ Colloquio con Antonio Maccanico: “Manca la percezione del destino comune”.

[5] Emma Bonino Prefazione a Post Azionismo, Editoriale Scientifica, 2019.






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