domenica 17 Novembre 2024
Il piacere dei sensiIh, che gusto! Ih, che gusto quanno madama se sponta 'o busto!

Ih, che gusto! Ih, che gusto quanno madama se sponta ‘o busto!

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Nel 1991 uscì un libricino tutto di indovinelli: Antichi indovinelli napoletani1 che, insieme con un altro volume di cose napoletane, apriva una collana, le mal’erbe, che già dalla denominazione, lasciava prevedere un séguito di notevole interesse per chi è attento alle manifestazioni più o meno “trasversali” della letteratura, dialettale o no.

La scelta degli indovinelli, che fa riferimento a un’originaria raccolta effettuata da Mario Daniele, appassionato cultore di enigmi e di cose napoletane, attinge da opere di vari autori (Casetti, Imbriani, Amalfi, Correra, Molinaro del Chiaro) prendendo qua e là gli esempi maggiormente degni di nota.

Il più delle volte si tratta, è naturale, di semplici varianti di indovinelli popolari comuni alla tradizione di ogni paese; è il caso, ad esempio, di questi tre su il cielo, l’anno, la settimana.

Tengo ‘na cuperta arricamata,
d’oro e d’argiento,
senz’aco e senza filo è arricamata
e vale centomila e cincuciento.

Tengo ‘n’àrbero cu’ dúrece rame
e ogni rama tene trenta fronne.

Tutte ‘e màscule a faticà
e ‘na femmena a repusa’.

Quelli di questa raccolta sono qualcosa di piú dei soliti indovinelli popolari; in molti di essi, spesse volte sviluppantisi sull’onda di un tema erotico, quasi a confine con una sorta di pornografia o di lezione scatologica, è invece frequente imbattersi in perfette costruzioni enigmatiche, per le quali vige una vera e propria ambivalenza. Se non proprio di “tessuto enigmistico”, c’è da parlare di “allegoria”. «Il gioco verbale, meccanismo fondamentale dell’indovinello di ogni paese è sovrano anche in questi, che dispongono pure del classico formulario introduttivo (Tengo ‘na cosa, Nce sta, Nce steva, Ched è chella cosa) e finale (anduvina ched è!) – si legge nella prefazione al volumetto – formulario canonico, ma non d’obbligo, naturalmente, poiché la dilogia sa dar luogo a piccole composizioni poetiche che ne fanno a meno». Così accade, ad esempio, in questo indovinello su ‘a pippa (la pipa) che si presenta come un affettuoso (ma ingannevole) monito moralistico rivolto con garbo alle “figliulelle da marito”:

Figliulelle da marito
vi’ che capa ca teníte,
ve mettite ‘mmocca â gente
tutte fummo e arrusto niente.

Lo stesso si verifica per questa gustosa sfugliatella (la sfogliatella), un esempio molto originale nella sua veste allusiva che lascerebbe prevedere tutt’altro:

Ih, che gusto! Ih, che gusto
quanno madama se sponta ‘o busto!
Quanno arrive a la mmità
vi’ che gusto ca te dà!

Molto spesso i temi trattati sono quelli della tradizione popolare, quelli comuni alla cultura di ogni paese. Ma altre volte l’insistere su trasgressioni argute, forse piú consone a licenziose riunioni di dotti che non a intrattenimenti di gente semplice, fa ritornare l’interrogativo sulla natura di questo genere di composizioni: se debba trattarsi, cioè, di un fenomeno di antica traduzione/imitazione ovvero di autonoma e spontanea genesi, se rispecchi una forma esclusivamente popolare ovvero costituisca una forma letteraria o, quanto meno, una forma intermedia che attinge dall’una e dall’altra.

Tutto si riconduce a due ipotesi fondamentali, quella dell’origine comune e quella della trasmissione, anche se non può farsi a meno di citarne una terza, di primo acchito molto seducente: è quella dell’identità dei processi dello spirito umano. Come al solito, la verità deve collocarsi nel mezzo: dal gusto popolare l’indovinello trae senz’altro spunti, immagini e un certo colore, ma è pur chiaro che la ricercatezza dei concetti e l’artificio della costruzione rinviano spesse volte alla intuizione di versificatori cólti.

Di quelle “mal’erbe napoletane” comprendenti titoli tutti riferiti a cose napoletane fa parte anche Lo Poeta Napolitano di Eduardo Scarpetta. Tra i 2.222 versi del libricino ve n’è pure qualcuno che accenna al gioco: merito di quest’attore/autore, che, come si leggeva nella prefazione di Longone e Martini, «è prima di tutto artista della parola… con uno spiccato gusto per l’artificio letterario».

I versi sono tutti dedicati ad Antonio Petito, compresi quelli dell’Aurio pe lo capo d’anno, un sonetto acrostico ch’è solo un esempio dell’abilità dell’autore,2 il quale non manca di cimentarsi anche in un “Trascurzo-sonetto” (discorso-sonetto) tra l’autore e lo stampatore, con i versi in forma dialogata:

Hai fatto, neh, Carlú? – L’aggio stampato…
Finalmente, mmalora! – Eccolo ccà…
Dammillo, va’. – Ma quanno sò pavato?…

La raccolta, che presenta una grande varietà di metro e di assetto metrico, comprende pure un sonetto in lingua… blesa e finanche nove sciarade.

Queste sciarate sono enigmisticamente poca cosa, sono basate per altro su schemi banali o poco corretti (campo/santo/camposanto; figlio/la; case/cavallo/casecavallo ecc.), ma la loro lettura risulta comunque piacevole:

Lo primmo è felicissimo
pecché la mamma tene,
la quale stace a dicere
che troppo le vò bene.
E lo secunno è facelo…
pe chi lo vo’ capí…
se trova ‘nfra la museca…
è nota… signorsí.
Lo tutto è già capito
che vole lo marito.

1 Antichi indovinelli napoletani raccolti da Raffaele Aragona, con prefazione di Giuliano Longone e Stelio Maria Martini e con una postfazione dello stesso Raffaele Aragona (Tommaso Marotta, Napoli, 1991 – ried. Marotta & Cafiero, Napoli, 1996).

2 Io la capa a lo muro mo ‘nce tozzo
(Sunetto-Acrostiche)

a Totonno Petito
Auri per lo Capo d’anno

Bada Totò che già so miezo pazzo,
Una cchiú non ne ngarro pe’ prezza…
Onne stongo ‘mbrugliato qua pupazzo,
No ciuccio so con tutta la capezza!

Che bò dire, Totò, chisto ‘mbarazzo?
A che mena sta sciorta d’allerezza?
Pe me non la capisco, e cchiú me ‘mpazzo,
Oh! che la capa niente cchiú accapezza!

Dunche… Totò… me fa vení la stizza,
Io la capa a lo muro mo ‘nce tozzo,
Anfi che lo cervello fore schizza;

Nnon saccio ch’aggia dire, mo me strozzo.

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