Berlusconi ha interpretato la sua parte. Tutto il resto del sistema politico per ora non ha avuto copione.
Vorrei riportare il dibattito quirinalizio – che da giorni si è infilato nel refrain antico “Berlusconi si-Berlusconi no” – nella sua collocazione reale. La traiettoria, cioè, di un soggetto che la Costituzione pone al centro delle condizioni della vita democratica nazionale: i partiti politici.
Un anno fa – in piena crisi sanitaria (ancora senza l’artiglieria dei vaccini) e nel rischio di non riuscire a governare i conflitti interni generati dalla crisi economica e sociale e le connesse relazioni negoziali con l’Europa – il presidente Mattarella constatava che il sistema dei partiti rappresentato in Parlamento non riusciva più ad esprimere una maggioranza.
Decretava quindi anche l’emergenza politica (la terza emergenza di sistema).
Ciò rendeva possibile ottenere il consenso di una personalità che da tempo veniva considerata una delle poche riserve della Nazione per casi di estrema difficoltà, Mario Draghi, attorno a cui i partiti accettavano una limitazione di sovranità ma in forma condivisa. Cioè un governo misto tecnici-politici attraverso una forma di maggioranza trasversale (fatta eccezione per due ambiti parlamentarmente piccoli) che illanguidiva sia la rissosità politica sia lo schema conflittuale destra-sinistra.
La scadenza delle elezioni al Quirinale si sarebbe collocata a metà della strada immaginata per portare a termine un processo di rigenerazione dei partiti (che su queste pagine abbiamo trattato come un “Pronto Soccorso”). Che tuttavia avrebbe anche potuto rivelarsi un processo di “evaporazione” per inconsistenza progettuale e marginalità reputazionale, prima della scadenza della legislatura, termine non scantonabile per svolgere le lezioni politiche generali.
I partiti alla ricerca di reputazione e di identità
Dunque il tema che si annunciava dominante in questo negoziato tra le forze politiche parlamentari, quelle elette dai cittadini con la responsabilità dell’elezione di secondo grado del Capo dello Stato, era (così come lo è ancora è oggi a pochi giorni dall’apertura dei seggi a Camere riunite): che immagine di sé vogliono dare i partiti in questa occasione?
Tutti a chiedersi se essi fossero stati ancora capaci di assumere una responsabilità progettuale e propositiva connessa agli assetti istituzionali maggiori (Quirinale e Governo). Naturalmente con la legittimità di accostare i due temi, entrambi riportati ai diritti-doveri di quel sistema: scegliere e votare il Capo dello Stato; valutare e approvare le leggi proposte dal Governo.
In alternativa a questa assunzione di ruolo attivo e propositivo, si poneva l’ipotesi di trascinamento dell’up grading dello stesso capo del Governo verso il Quirinale. Scelta buona per il Paese, probabilmente critica per i partiti. Un consolidamento della condizione emergenziale con sottesa la aggiornata diagnosi di improbabilità della politica di assumere capacità di proposta e di scelta. Al fine di prolungare fino alla più alta carica istituzionale la linea di governo affidata fuori da scelte di parte, da negoziati di parte, da convergenze delle parti. Salvo il potere di ratificare l’ineluttabilità di questa condizione di scivolamento.
Imprevisti e vaghezze
Non era previsto che lo stesso Draghi, avvertendo il nervosismo della politica, annunciasse un doppio assioma non concordato: il ciclo esaurito della missione governativa emergenziale; la sua disponibilità ad essere, comunque, “al servizio delle istituzioni”.
In un passaggio che già vedeva sovraesposto il presidente del Consiglio, l’interpretazione di questo elemento imprevisto ha messo ancor di più le forze politiche di fronte al dilemma di assecondare, ovvero di ricordare a se stesse che l’avvicinarsi della prospettiva elettorale doveva indurre ad assumere posizioni propositive più visibili, meno nascoste, più idonee a segnalare distinzioni e alla fine caso mai avvicinamenti.
Insomma, un segnale di vitalità (che dai più viene giudicato “finto”) dei partiti.
Ma in politica ormai l’apparenza ha preso sembianze religiose.
Questo segnale di vitalità – lasciamo perdere se confinante con storie di egocentrismo, con un granello di follia di vecchia data, con il coraggio di “bravate” istintive – è in realtà venuto, dall’apertura dell’anno a oggi, solo dal centro-destra. Ed è stato interpretato dal solo Silvio Berlusconi. Tutti gli altri hanno mantenuto vaghezza, conflittualità interna, incertezza di posizione.
Berlusconi ha interpretato il copione demoscopico che profilava una dimensione maggioritaria nel paese proprio del centro-destra, nell’ipotesi di una sua anche apparente unità. Copione che rappresenta da sempre il suo cavallo di battaglia, come per un attore è fare l’Amleto. Con l’abilità – che spiega la scelta dei tempi – di capovolgere una perduta condizione di leadership rispetto ai due maggiori alleati dello schieramento ormai in fuga dai numeri residuali dell’elettorato di Forza Italia. “Apparente” vuol dire qui “tattico”.
Tutto ciò che ha suscitato nel centro-sinistra questo posizionamento è stato di saldarsi con l’antiberlusconismo sdegnato e di maniera di una parte dei media e degli italiani che ben inteso avevano tutto il diritto di sdegnarsi. Ma il centro-sinistra aveva un po’ meno il diritto di crogiolarsi nel prolungamento di questo sdegno senza interromperlo con una manifestazione positiva – fosse pure altrettanto di bandiera – capace di esprimere una vasta convergenza alternativa.
Argomento che avrebbe portato ad assumere pari visibilità, poi ad abbassare in tempi sincronizzati le bandiere e infine a negoziare per una scelta condivisa.
Berlusconi (incredibile per il mondo intero) è rimasto in campo come l’unica determinazione di un ampio schieramento a lungo. Il centro-sinistra è rimasto in una balbettante difesa a sua volta troppo a lungo. Pur nel ragionevole caveat di Enrico Letta che chiede di non far paragoni con la serie recente delle elezioni al Quirinale in cui il PD aveva una forza di numeri che lo poneva nella condizione naturale di dare le carte.
Mentre l’astensionismo dilaga, le scelte stringono
Arrivati a pochi giorni dall’apertura dell’arena dei seggi aperti i partiti politici hanno avuto – proprio dalla capitale d’Italia e proprio dal collegio elettorale centrale della capitale (Roma1) – la risposta di sensibilità dei cittadini: a votare la sostituzione dell’on. Gualtieri, diventato Sindaco di Roma, è andato l’11% degli elettori.
Per la democrazia stessa un segnale di condanna dal basso quasi senza precedenti.
Così che ora – incurante di tutta la sollevazione di indignazioni – resta Berlusconi a profilarsi come chi ha più titolo per dare metodologicamente le carte nello show-down che regola il passaggio tra la prima e la quarta chiama. E il terreno che sembra disegnarsi come il più probabile ambito di negoziato è quello di creare un atterraggio di maggioranza teso a non fare in questo delicato passaggio né vincitori né vinti
Non è compromessa del tutto la capacità di iniziativa del centro-sinistra, ma è assai più stretta che quindici giorni fa. Draghi resta una carta forte proprio nel segnalare che sul Quirinale il sistema dei partiti politici non può rivendicare né vincitori né vinti, ma rispetto alla fase di riposizionamento dei partiti in vista delle prossime elezioni il centro-destra esce più forte e lo stesso Berlusconi avrà il merito di essere stato più strategico. Sono possibili ovviamente soluzioni alte che profilate come scelte di garanzia istituzionale assicurano ugualmente di non appesantire il fardello di impopolarità dei partiti, ma solo se il canale di negoziato assume da subito un controllo abilissimo di tutte le variabili, compresa la miglior salvaguardia dell’immagine dell’attuale capo del governo, garantendogli che la cruciale manovra interna ed europea del 2022 resta senza colpi di testa, conflitti prefabbricati, atti demagogici improvvisi.
Tutto ciò di cui pensano di aver bisogno i partiti per non finire davanti agli elettori nel 2023 come pesci muti, uguali uno all’altro, con meriti invisibili e fuori dalla formazione dell’agenda.
Insomma serve subito una quadra abilissima. E subito dopo una sceneggiatura potente a cui dovrebbero uniformarsi soggetti che hanno prodotto nella legislatura in corso 267 cambi di casacca (fonte Il Sole 24 ore) e scompaginato a lungo tanto la fisiologia della governabilità quanto la stabilità di sistema.
Sarebbe il momento di ricordarci dei santi patroni di questo Paese.
E magari di trarre la lezione di metodo che qualcuno che è uscito troppo presto di scena, David Sassoli, ci ha fatto scoprire, purtroppo a sua spese.