lunedì 23 Dicembre 2024
La Finestra sul CortileIl primo requisito della “buona politica” era studiare. Argomento sepolto.

Il primo requisito della “buona politica” era studiare. Argomento sepolto.

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E’ venuto il momento di dire una cosa impopolare ma al tempo stesso cifra del paradosso dalla politica italiana nel suo complesso, non solo di quella governativa. Il primo requisito della “buona politica” era (ed è) studiare.
Questa banale verità storica, che ha costruito classi dirigenti, motivato e argomentato nuova progettualità, disegnato i confini tra teorie superate e teorie aggiornate nell’arte di governo, è ora quasi integralmente derubricata nello scenario italiano.
A poco a poco la percezione che la “politica” possa sostituire gli ascensori sociali e professionali che non funzionano più ha preso il sopravvento sulle sue regole storiche. Ha mandato in malora le due vecchie formazioni alternative della seconda Repubblica (i dem e Forza Italia più che dimezzati) e non ha fatto decollare le formazioni insorgenti (Lega e Cinquestelle) che hanno costruito non solo sulla non competenza (perché qui qualche sacca di esperienza, soprattutto nella Lega, è ancora disponibile). Ma proprio sull’ignoranza il loro isolamento in Europa e la loro insufficienza di fronte a criticità che non si risolvono con vecchie ideologie ma non si possono affrontare altro che con teorie adeguate.

In questa involuzione sta il passaggio tra la seconda e la terza Repubblica, un passaggio sovrapposto, continuista, amplificatore. Ma ormai senza remore. Rimasugli di cultura universitaria stanno ai margini di gruppi dirigenti costruiti fuori da saperi classici della scienza politica (diritto, economia, scienze sociali, urbanistica, ricerca scientifica, storia, eccetera), con delusioni frequenti per chi ha creduto di essere portatore almeno di un po’ di metodo.

buona politica
Il primo requisito della “buona politica” era studiare. Argomento sepolto. (pixabay.com)

l “sapere” che guida le scelte è quello relativo al “posizionamento”.

Sì, insomma, la vecchia malattia del marketing che modifica radicalmente contenuti e gerarchie tecniche (l’impero travolgente del possibilismo inventato in Italia da Silvio Berlusconi che ha contaminato le generazioni successive) ha preso piede assoluto nei dibattiti interni, nella comunicazione esterna, nel processo di reclutamento e nella formazione delle leadership.
E’ evidente che lo tsunami della decennale crisi economica globale ha generato le condizioni per umiliare vecchi saperi e vecchie teorie. La proletarizzazione di una parte consistente del ceto medio su cui prosperava la crescita di molti partiti e l’umiliazione dei progetti di sviluppo ad opera di una irriguardosa globalizzazione destinata ad aprire continue nuove piste di speranza ma al tempo stesso a generare più ricchezza tra i ricchi e più disuguaglianza tra i poveri, ha reso spesso inservibili vecchie ricette.

L’accesso ai laboratori (esistenti) di nuovi e diversi approcci è stato giudicato dalla politica troppo faticoso, troppo elitario, troppo vincolato a titoli e cooptazioni che, a poco a poco, ha tagliato i ponti con un certo genere di dibattiti ed è passata armi e bagagli alla sondaggistica e alla comunicazione apodittica. Punto.

Il primo requisito della “buona politica” era studiare. Argomento sepolto.

La cosa stupefacente è che questa malattia ha pervaso non solo i grossi partiti, tradizionalmente contenenti elettorati contrapposti e quindi indotti a coltivare ambiguità (così era per democristiani e comunisti nella prima repubblica) ma ha anche contaminato piccoli partiti e comunque formazioni in condizioni di “start up” che, almeno in giro per il mondo (si pensi al movimento di Macron che ha scompaginato la distinzione tra socialisti e liberali), si fondava su uno sforzo di conoscenza e di nuova progettualità. Ora quelle cariche elettive, che nell’età costituzionale e di costruzione della Repubblica avevano un equilibrio tra provenienze di cultura e rappresentanza sociale, sono con buona evidenza formate al di fuori di entrambi questi requisiti.

Veri e propri “peones” attaccati alla disciplina di voto per non perdere l’inaspettato salvagente che li ha tolti da vite difficili. Con il risultato di produrre miseria istituzionale e cancellare il merito e l’attitudine critica in chi esercita – in funzione di governo o di controllo – esperienza legislativa. Ma soprattutto quello di rendere una squadra di comunicatori destinata a battaglie violente per il consenso sui socialmedia l’area più retribuita di ministeri e amministrazioni a discapito di uffici studi scomparsi, consiglieri tecnici annichiliti, incapacità crescente di gestire le carriere dei funzionari secondo quella che una volta si chiamava “creatività con radici” (chi pensa che questa categoria non sia mai esistita, si segnali e avrà circostanziate risposte).
Si contano sulle dita di una mano le riviste di cultura politica che sopravvivono, quasi tutte ormai fuori da dirette influenze sulla politica attiva, che non ha più domanda nei loro confronti. Se cercano spunti esterni, promettendo di ripagarli una volta conquistato il potere, i partiti e i movimenti si limitano al “confezionamento” digitale. L’importante non è il contenuto, ma il packaging (e la sua chiave di banalizzazione).

Bisogna tuttavia fare in questo periodo molta attenzione al risveglio di una generazione più critica e consapevole in contesti reattivi a questa grave e diffusa involuzione. La difficoltà di affrontare in modo equilibrato lo sviluppo e la sostenibilità ambientale ovvero una nuova accettabile tendenza all’uguaglianza rispetto a quella crescita che ne finanzi l’affermazione, propongono quesiti che nessun comunicatore banalizzante è in grado di affrontare. E in giro per il mondo (Europa compresa) la questione torna in evidenza segnando una ricucitura possibile tra politica e cultura che per il momento vede l’Italia – il paese più aggredito dai rischi – beatamente in panchina.

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