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venerdì 26 Aprile 2024
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Il suicidio di una Nazione

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Cosa state facendo?!

Non è un sussurro, un bisbiglio o una domanda sommessa.

Se la carta potesse parlare, si sentirebbe che questo è un grido.

Sta accadendo l’irreparabile e non si può continuare a parlare sotto voce.

Sta accadendo che da alcuni giorni l’opinione pubblica nazionale è attraversata da un fremito; dall’INPS è stata fatta filtrare la notizia che alcuni parlamentari della Repubblica hanno richiesto e percepito il bonus da 600 euro previsto dal Decreto Cura Italia dello scorso 17 marzo.

Parlamentari che, a quanto sta iniziando a emergere in una sorta di outing virale, sarebbero in ottima e nutrita compagnia di assessori e consiglieri regionali e comunali.

L’INPS ha fatto filtrare la notizia, si badi bene, non lo ha comunicato, infatti di questo non troverete alcuna traccia nelle pagine dell’Ufficio Stampa dell’Istituto consultabili sul sito, e tra il far filtrare e il comunicare in mezzo c’è una voragine che si chiama Stato di diritto.

Una voragine dentro la quale sprofonda anche il diritto alla privacy, visto che qualche dubbio sulla liceità del trattamento e del successivo uso a mezzo stampa dei dati se l’è fatto venire anche il Garante, che ha posto una serie di quesiti ai quali Pasquale Tridico, l’economista presidente dell’INPS con sintomi di protagonismo, dovrà formalmente rispondere.

Cosa unisce, quindi, i cinque parlamentari con gli ulteriori consiglieri regionali e comunali? Il bonus da 600 euro? Può darsi. Aver preso il bonus senza averne diritto? Si vedrà, ma allo stato delle cose conosciute, sembra che in punto di diritto ne avessero, fatte salve le considerazioni etiche, sulle quali però è acclarato che l’INPS non abbai competenze statutarie.

Quello che unisce la pattuglia di malcapitati è che sono tutti rappresentati del popolo votante – quello che non vota, lasciamolo stare – all’interno di istituzioni elettive, ovvero quegli organi sostanziali nei quali si declina il concetto di democrazia rappresentativa, l’unica forma di democrazia che fino ad oggi abbiamo conosciuto e visto funzionare.

Ebbene l’INPS, che nelle presidenze Boeri, prima, e Tridico adesso, sembra essere assurto a nuovo censore dei costumi pubblici e privati nazionali, fa filtrare la notizia, irrompe nel dibattito politico nazionale e si prende l’intera scena mediatica.

Una scena mediatica che teoricamente dovrebbe essere già un po’ affollata visto che, con singolarità straordinaria, persino l’aggiornamento sul più grande scandalo politico istituzionale della storia repubblicana, quello delle connivenze tra politica, una certa politica, e magistratura, una certa magistratura, emerso con le vicende Palamara e CSM, dopo un primo fuoco fatuo è notizia curiosamente eclissata dal panorama dell’interesse dei gazzettieri nazionali.

Una scena mediatica appena stiepidita dalla querelle relativa alla secretazione dei verbali del Consiglio Tecnico Scientifico, le cui indicazioni non è dato sapere quanto siano state personalizzate a uso della stabilità del governo piuttosto che dell’Italia e degli italiani, parzialmente resi pubblici solo in pendenza dell’udienza fissata al 10 settembre presso il Consiglio di Stato per discutere dell’iniziale diniego apposto alla richiesta di accesso agli atti presentata dalla Fondazione Einaudi.

Una scena mediatica che ha sorvolato dal sottolineare l’analogia della secretazione dei verbali del CTS con il vituperato segreto di Stato apposto su atti e documenti relativi alle stragi tuttora irrisolte.

Una scena mediatica che, sempre a proposito di segreti di Stato, ha dimenticato di sollevare una questione al riguardo della disinvoltura istituzionale che ha visto il presidente del Consiglio Giuseppe Conte mantenere inusitatamente per sé la delega ai servizi segreti.

Una scena mediatica che ha assorbito con fugacità da ottava pagina e cronaca locale la notizia della chiusa inchiesta da parte della Corte dei Conti sulle vicende immobiliari Provincia di Roma-Parnasi, con richiesta di danno erariale di 90 milioni di euro nei confronti di Nicola Zingaretti, l’auto ricandidata sindaco – sindaca ditelo voi, io all’italiano ci tengo ancora un po’- Virginia Raggi, e altri trentacinque politici che adesso avranno finalmente modo di dimostrare la correttezza del loro operato.

Ebbene questa scena mediatica vivacemente contraddittoria ha schiantato in prima pagina la velina fatta filtrare dall’INPS e ha dato rinnovato vigore alla crociata polemico-moralista nei confronti della politica.

Ora, i fatti sono chiari e lapidari.

Il bonus INPS è stato emanato ed erogato in virtù di norme, probabilmente malfatte, ma che quelle sono.

Alla data del 3 maggio, l’INPS ha reso noto di aver ricevuto 4.772.178 domande di indennità da lavoratori autonomi, di averne accolte 3.668.968, di averne pagate 3.427.837e di averne respinte per vari motivi circa 1.100.000.

Chiunque lo abbia percepito senza averne titolo sarà passibile di conseguenze legali.

Se questo chiunque che lo ha eventualmente percepito senza titolo è un rappresentante delle Istituzioni, oltre all’aspetto legale si pone anche un problema etico che attiene al rapporto con i suoi elettori e con il suo partito di appartenenza, e che in quel rapporto deve trovare soluzione.

A rigor di logica il 3 maggio, per comunicare ufficialmente quei numeri – che in quel momento mediaticamente andavano a supportare l’immagine di efficienza del governo dall’ego ipertrofico – l’INPS era già in possesso delle informazioni velinate alla stampa amica nei giorni scorsi.

A rigor di logica, se la velina arriva nella calura agostana a stemperare qualche spinosità mediatica di troppo, vedi appunto i verbali del CTS segretati, qualche motivo deve pur esserci e non serve un indovino di razza per notare l’ineffabile coincidenza con l’avvio mediatico della campagna per il voto referendario del 20 settembre.

In una Nazione normale la vicenda del bonus da 600 euro, rispetto alla ridondanza di uno scenario istituzionale ed economico fragile e compromesso, avrebbe la dignità di due trafiletti, anche perché su mille parlamentari, sembra che siano tre quelli che lo hanno richiesto e percepito.

Vicenda esecrabile, il partito di appartenenza ne chiede le dimissioni, loro lo fanno versando lacrime amare sulla propria dabbenaggine, partita chiusa, pensiamo ad altro, magari alle casse integrazioni processate ma ancora non corrisposte da quella specie di wunderkammer che si sta rivelando essere l’INPS.

In Italia no.

È inutile nascondersi dietro un dito, in Italia il corto circuito tra sinistre quote parti di informazione, magistratura e politica, volutamente condiziona orientamenti, scelte e sensibilità dell’opinione pubblica, mutuando in pieno le osservazioni che nel 1957 Vance Packard faceva nel suo libro culto I persuasori occulti, di fatto sostituendo l’ambito extraparlamentare a quello parlamentare nelle dinamiche della formazione della politica e facendo sorridere rispetto all’ingenuità di chi aveva stigmatizzato il Porta a Porta di Bruno Vespa come terza camera della Repubblica.

E non si può non dire che questo condizionamento ha trovato la sua geometrica potenza di fuoco dalla cosiddetta inchiesta di Mani Pulite in poi; geometrica perché in grado di selezionare in maniera politicamente utile obiettivi, personaggi e direzioni, come a chiunque di buon senso dimostrano la coincidenza delle attenzioni giudiziarie nei confronti di certi protagonisti della vita politica italiana in alcuni dei suoi momenti di snodo.

A scanso di equivoci, oggi è uno di questi momenti di snodo.

Oggi siamo alla vigilia del referendum che chiama gli italiani a votare per la riduzione dei parlamentari nel nome non di un migliore funzionamento  istituzionale della rappresentanza, ma nel nome del taglio dei costi della politica, nel caso specifico un’assoluta inezia rispetto al bilancio dello Stato.

Siamo alla vigilia di un referendum che riassume la forma compiuta del sentimento antipolitico creato ad arte negli ultimi venticinque anni, sull’onda di una scia emotiva periodicamente e mediaticamente agitata e che ha convinto una certa parte d’italiani che non sia necessaria una buona politica per arginare e cacciare la cattiva, ma che della politica si possa fare a meno.

Lo svuotamento e la limitazione del principio di rappresentanza sono un attentato alla configurazione democratica dello Stato e il referendum del 20 settembre ne è il grimaldello istituzionale.

Di fatto è la prova provata che non ci sono più i golpe di una volta.

Venticinque anni di antipolitica hanno delegittimato l’intera politica, hanno dipinto come corrotti o potenzialmente corrotti tutti coloro che alla politica decidono di dedicarsi, tranne ovviamente qualcuno, qualcuno che è più eletto degli altri, qualcuno che si ammanta del profumo di sagrestia sulfurea e si presenta come il salvatore, il fustigatore, il missionario, il disinteressato che in una sorta di catarsi cosmica è destinato a prendere finalmente per mano le sorti del Paese.

Nell’Italia degli anni ottanta è accaduto qualcosa che negli anni a seguire ne ha modificato l’assetto sociale: il lavoro manuale, artigianale, viene colto da una sorta di disapprovazione sociale.

Fare l’agricoltore, l’ebanista o l’idraulico non è socialmente gratificante, il posizionamento nella scala sociale è abissalmente basso, chi lo fa cerca di uscirne, chi non può arriva a esaurimento, ma soprattutto si interrompe la catena di trasmissione generazionale del saper fare, i figli di quegli artigiani si cercano un lavoro fisso e i nipoti che si laureano, oggi lavorano nei call center.

Il mancato riconoscimento sociale del lavoro manuale lo ha reso rarefatto e impraticabile, con il risultato che oggi trovare un buon fabbro è confidenza che passa di bocca in bocca come se fosse una formula alchemica.

La stessa dinamica di disapprovazione sociale che ha colpito il lavoro manuale negli anni ottanta, dalla metà dei novanta ha iniziato a minare la politica, certamente aiutata dalla cattiva politica – che c’è sempre stata e c’è ovunque nel globo terracqueo – ma sobillata dall’antipolitica.

Di questo, la statistica della partecipazione elettorale è uno specchio fedele e oggettivo.

88,60% l’affluenza alle urne per le elezioni politiche del 1987, il 72,93% nel 2018.

Sullo scenario locale, la perdita dei votanti non raramente ha assunto numeri da tracollo.

Un’erosione di partecipazione democratica di quasi il 16% che però ancora non dice tutto, perché la lettura deve essere fatta alla luce della recente crescita della forza antipolitica per eccellenza, prima per rappresentanza nell’attuale Parlamento del non voto, fatto che ci restituisce la vera dimensione della questione.

Una forza politica che ha trovato il suo brodo di coltura nell’imbonizione istrionesca da vis comica, nel malpancismo acuto dei vaffa day, nelle caustiche inchieste giornalistiche sulla casta di stellare e rizzuta memoria, nel travaglio (la t è minuscola, ma il senso è maiuscolo) indomito della fustigazione dei costumi altrui, nel ditino puntato e nello sguardo corrucciato, e che ha prodotto upgrade sociale a una genia dall’incerta padronanza lessicale, grammatica provvisoria ed esperienze lavorative altalenanti tra bibite allo stadio, dj set e pet shop.

Ebbene, quello che sta accadendo con la notizia moralisticheggiante data in pasto ai giornali e che in vista del voto referendario agita e rimesta gli animi e la verve antipolitica, dovrebbe far indignare tutti, e dovrebbe far capire a tutti che il 20 settembre, pur nella disaffezione al voto che distingue solitamente i referendum, si andranno a confrontare due schieramenti trasversali, quello della politica e quello dell’antipolitica.

Diminuire il numero dei parlamentari, non fa risparmiare nulla e non fa guadagnare nulla in termini di lavoro politico a beneficio della Nazione.

Diminuire il numero dei parlamentari, senza un nuovo disegno costituzionale e di riequilibrio dei poteri e delle funzioni costituzionali, è solo uno svuotamento della rappresentanza democratica e il primo passo per rendere inutile la politica nel governo della Nazione, sostituita da ambiti tecnicismi, trasferimenti di sovranità e dinamiche finanziarie.

I presidenti del Consiglio non eletti che si sono alternati in questi anni, sostenuti da stampellate maggioranze parlamentari coese al consolidamento dei propri perimetrici politici, sono l’esempio negativo verso il quale tutta la buona politica, trasversale ai partiti, dovrebbe indignarsi e fare fronte comune.

E bisognerebbe pur dire, al di là degli schieramenti di simpatia e di appartenenza, che la forma partito è struttura di partecipazione essenziale della democrazia rappresentativa, camera di compensazione e corpo sociale intermedio non sostituibile.

Bisognerebbe dire che la mitizzata democrazia della rete non rappresenta una dinamica di partecipazione democratica alla politica, ma ne prefigura la sua sostituzione ed eliminazione tout-court.

Bisognerebbe dire che il problema non è lo stipendio di un parlamentare o di un ministro, ma la resa in termini di beneficio che quello stipendio assicura alla Nazione e che la regola che un buon lavoro deve essere pagato il giusto vale per tutti, dal call center al Parlamento, nel rispetto delle capacità e delle responsabilità assunte e alle quali si deve essere chiamati a rispondere.

L’Italia ha bisogno di buona politica e non di antipolitica, di unità generazionale e non di odio sociale, di sguardo estroverso al futuro e non di visioni introverse sulle beghe di bottega.

Diversamente non ci sarà Cura Italia che possa reggere e neanche eutanasia pietosa, ma suicidio politico di una Nazione al quale, personalmente, non vorrei assistere, ma di cui soprattutto non intendo essere complice.

Per questi motivi, la domanda ritorna e cerca risposte.

Ma cosa state facendo?!






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