In questi giorni di quarantena, da ogni parte siamo invitati a stare a casa, leggere, guardare un film. E noi vi parliamo proprio di film. Inteso come pellicola sulla quale si imprime il lungo o corto metraggio. Una in particolare: la Ferrania, che del film italiano ha accompagnato la storia.
E, curiosamente, la sua di storia nasce a braccetto con quella con la S maiuscola. In questo caso, con la rivoluzione d’ottobre in Russia.
La fabbrica Ferrania
Andiamo per ordine. In realtà la fabbrica di Ferrania esisteva già dall’800: si lavorava il ferro, molto facile da reperire in quella zona. Il perché lo dice il nome stesso del luogo. Inoltre le colline della Valle Bormida – nell’entroterra di Savona – che le fanno da corona, erano piene di legno che serviva per l’alimentazione dei forni in cui il ferro veniva lavorato. Dai primi del 900 inizia la produzione di sostanze esplosive.
Cercate di immaginare una valle boschiva, solcata dal fiume Bormida, colli che arrivano a 600 metri, prati fioriti o destinati all’agricoltura. Con tanto di leggenda che le aleggia intorno, cantata persino da Carducci e Cesare Abba: quella di Aleramo e la bella Adelasia, figlia dell’imperatore Ottone I (siamo intorno all’anno mille) che fuggono da queste parti per vivere in pace il loro amore. Questa era la tenuta dei marchesi De Mari dove la fabbrica fu installata.
Torniamo alla fabbrica. Nel 1916 la Russia imperiale è in guerra contro la Germania e l’Austria e ha un gran bisogno di polvere da sparo. Per rifornirsi si rivolge alla milanese SIPE (Società Italiana Prodotti Esplodenti) la quale accetta di costruire ex-novo uno stabilimento nella tenuta dei De Mari, che ha il grande pregio di essere vicina al raccordo ferroviario Savona-Torino e poi Torino-Milano.
Però, come si sa, l’anno dopo arriva la rivoluzione e la Russia esce dal conflitto mondiale. La Sipe continua a fornire polvere da sparo all’esercito italiano. Ma nel 1918 finisce anche la grande guerra. La sua lungimiranza, anzi il suo capolavoro, è stato quello di aver intuito per tempo che bisognava riconvertire la produzione. Gli impianti e i componenti di base della pellicola a quell’epoca erano gli stessi che si usavano per la fabbricazione degli esplosivi. E si procede con pellicole fotografiche, radiografiche e cinematografiche.
Nasce il primo stabilimento e intorno tutto quello che serve per farlo andare avanti. Oggi sono fantasmi di archeologia industriale, ma alcuni di gran pregio tanto che sono sotto la tutela del ministero dei Beni Culturali. La centrale elettrica, per esempio, è un vero e proprio gioiello liberty che ancora adesso si può vedere, nonostante l’abbandono e l’erba che la assedia. Il Fai ci organizza tutt’oggi delle visite guidate.
Il periodo d’oro di Ferrania
Passano gli anni e con loro passano di mano pacchetti azionari e varie proprietà, ma una data è certa. Nel 1917 da una costola della Sipe nasce la Fabbrica Italiana Laminati Milano, ovvero la Film, con stabilimento a Ferrania. E questo autorizza a pensare che la parola che oggi tutti usiamo, non derivi dal lemma inglese che sta per “pellicola” o “membrana”, ma sia in realtà tricolore. Lo dice senza mezzi termini, per esempio, il sito “cinema.it” che attribuisce proprio a Ferrania le prime produzioni di emulsioni cinematografiche in Italia.
Piano piano nascono intorno altri stabilimenti e all’inizio del 900 i prati della tenuta De Mari destinati all’agricoltura e all’allevamento di bestiame, vengono comprati dall’azienda. Ci costruisce un borgo – oggi tornato di moda – fatto di casine destinate agli operai e quelle più grandi per i dirigenti. Sono villette a due piani con dietro l’orto e la pergola: gli operai, spesso nati contadini, finito il turno tornano alla terra. A volte si riconvertono le costruzioni relative alla grande villa del marchese (che si era giocato tutto alle carte): nelle scuderie, per esempio, viene creato un asilo.
C’era proprio tutto. In un libretto del 1940 “Una giornata a Ferrania”, contenuto nel volume “Ferrania: dalle antiche ferriere all’industria dell’immagine” di Angelo Salmoiraghi, leggiamo: <troverete mense modello capaci di servire in un’ora cinquecento coperti e campi di bocce….ci sono sale per conferenze, cinema, danze; c’è persino un teatro con sceltissimo repertorio drammatico e musicale>.
E’ un welfare aziendale completo che continuerà negli anni a venire. Nel docufilm “Crisi complesse” (Ninin indipendente) c’è un’operaia che ai giorni nostri racconta: <avevamo dermatologo, otorino, ginecologo. Io ho sempre fatto il pap test a Ferrania, mi arrivava il risultato nella posta interna in fabbrica>.
In effetti, con l’arrivo del fascismo e con esso l’autarchia, per Ferrania – ormai diventata un vero e proprio marchio – comincia il periodo d’oro in cui diventa il terzo produttore mondiale di pellicola. Arriva ad avere quasi 5000 dipendenti sparsi per tutta la Val Bormida. E l’azienda può permettersi questo welfare altrove inimmaginabile. Ma non era solo questo. C’era tra le maestranze un forte senso di appartenenza (c’è chi racconta che andava a lavorare a piedi anche quando la neve impediva ai mezzi di trasporto di muoversi). Per loro era <la mamma, mamma Ferrania vista come fabbrica> , annota Alessandro Bechis, ex lavoratore dell’azienda, nel docufilm sopra citato.
Il periodo d’oro continua con il dopoguerra, anzi esplode. Intanto lascia il bianco e nero: la Ferraniacolor nel 1952 produce il primo film italiano a colori: ”Totò a colori” di Steno. E nonostante la concorrenza del colosso Kodak , si accaparra grandi registi come De Sica, Rossellini e Pasolini che girano con la pellicola Ferrania capolavori del neorealismo come “Roma città aperta”, “La ciociara”, “Accattone”. Poi ci saranno Antonioni, Fellini, Germi e tanti, tanti altri.
Nei suoi 70 anni di vita a Ferrania si è fatto di tutto, dalle registrazioni sonore, alle arti grafiche. Forse pochi sanno che Topolino o le Pagine Gialle, nascevano dalle lastre elaborate dalla Ferrania. C’è un momento in cui il marchio arriva ad avere ben 170 prodotti.
La concorrenza e inizio della crisi
Ma non è bastato, le difficoltà del mercato e la concorrenza erano tante e nel 1964 passa all’americana 3M, che mantiene il marchio Ferrania e piano piano abbandona la parte cinematografica per concentrarsi sulle pellicole per fotografie.
L’arrivo del digitale, dei cellulari con fotocamera, fanno il resto. Fallisce nel 2003. Con altri nomi, gli impianti, ormai ridotti all’osso, continuano a funzionare costruendo pannelli solari, cartucce e altro. Ma il destino è segnato e nel 2013 la città della pellicola chiude.
Adesso, se passate di lì, vedete scheletri spettrali di strutture che dovrebbero essere demolite per fare spazio – burocrazia permettendo – a nuovi insediamenti industriali grazie a 40 milioni di incentivi pubblici.
Una nuova speranza per rinascere dalle ceneri
Ma una palazzina, miracolosamente, sopravvive. Nel 2017 due sognatori fiorentini, Nicola Baldini e Marco Pagni – ingegnere informatico il primo, restauratore cinematografico il secondo – salvano gli impianti dalla rottamazione e i tecnici che li sapevano usare dalla disoccupazione, e si rimettono a produrre e vendere pellicole in bianco e nero. Al grido “l’analogico non è morto” e avvalendosi anche del crowdfunding, muovono i remi con tutta forza. Gli auguriamo di farcela.