domenica 22 Dicembre 2024
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La partita mai finita. Appello al calcio italiano

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Ci sono notizie.
Ci sono notizie che trapelano e altre che spariscono velocemente.
E poi ci sono notizie che diventano storie.
Questa è una storia, una storia che bisogna raccontare. È la storia di una partita di pallone e di quattordici bambini.

Arua è in Uganda e ci vivono in circa 30.000 persone. È lontana Arua; altra lingua, altro panorama, altro colore della pelle, altra vita e altro futuro, ma anche ad Arua, come ovunque nel mondo, come anche nelle nostre città, i bambini si divertono giocando a pallone e giocando con il pallone iniziano a vivere le sfide che li faranno diventare grandi.

I bambini non lo possono ancora sapere, ma quel pallone rincorso, quelle corse a superare l’avversario, quell’andargli incontro a smarcarlo, quell’altruismo che te lo fa passare a qualcun altro, quell’ambizione di portarlo avanti da solo incollato al piede per tirarlo nel modo giusto, nel punto giusto, nel momento giusto, appena in tempo per vedere il portiere buttarsi dalla parte sbagliata, oppure sfiorarlo oppure bloccarlo tra mani e petto, ebbene i bambini non lo possono ancora sapere, ma quel gioco e quel pallone sono la metafora tonda della vita.

L’Uganda è sulla fascia dell’Equatore, Arua è al confine con la Repubblica Democratica del Congo e lassù, al nord, il clima ha le sue regole; adesso siamo nella stagione più fresca, vivere sull’altopiano a 1.200 metri ha i suoi vantaggi, ma è anche la stagione delle piogge. Il 27 agosto è una giornata come tante ad Arua, il tempo scorre nello stesso modo di sempre e, come sempre, il pomeriggio è il momento della giornata in cui è più facile che venga a piovere, ma a piovere come piove in Africa, con tutta la forza della natura.

Lo sanno tutti che funziona così. Lo sanno anche i bambini di Arua, ma vuoi mettere la corsa con la palla al piede, vuoi mettere mandarla in rete quella palla, che poi metterla in rete è magari solo un modo di dire perché magari la porta sono solo due pali piantati a terra e quando il portiere non riesce a fermarla, la palla continua la sua corsa dall’altra parte e bisogna anche andare a riprenderla, ecco, vuoi mettere tutto questo con il rischio di bagnarsi un po’?

I bambini di Arua lo sanno, ma della pioggia non gliene importa nulla.
Accade così che il 27 agosto, il pomeriggio del 27 agosto, quattordici bambini iniziano a giocare la partita della loro vita.
Accade che il 27 agosto, il pomeriggio del 27 agosto, insieme ai quattordici bambini, su quel campo più o meno di fortuna, anche la natura si dia appuntamento e proprio come spesso capita il pomeriggio, anche le nuvole si siano date appuntamento in cielo per giocare lì sopra la loro partita a rincorrersi gonfie e veloci.

Sono le sei del pomeriggio, le nuvole si aprono e nel cielo sempre più grigio la pioggia diventa fitta e pesante, diventa scroscio e temporale, diventa luce e rumore, fulmini e tuoni.
Lì sotto, sotto quell’appuntamento di tutte le forze della natura, i quattordici bambini di Arua fanno ancora finta di niente e sgambano sulla terra, ma quando la terra diventa pesante e l’acqua colpisce duro, capiscono che non si può continuare e bagnati come solo i bambini sanno essere si fermano e si guardano intorno.

Il riparo è lì, a portata di mano, ci si ferma, si aspetta che passi la pioggia e poi si ricomincia perché una partita non si lascia in sospeso, una partita si può interrompere, ma poi bisogna finirla.
Il riparo è una casupola vallo a sapere fatta come, legno, paglia, erba – a grass-thatched structure recita il rapporto ufficiale -, ma che comunque sembra fatta apposta e allora i quattordici bambini cambiano corsa, uno prende il pallone in mano e via, tutti verso la casupola a ripararsi dalla pioggia.

Ma la pioggia non è solo pioggia, è fango che ti si attacca addosso e anche luci che spaccano il cielo. Fulmini, lampi, saette, energia allo stato puro che in un quarto di secondo scarica a terra una corrente capace di portare a 25-30.000 gradi l’aria circostante, una corrente che brucia tutto.

Accade così.
Accade così che quella partita che doveva ricominciare passata la pioggia non ricomincerà più. Non si accorgono di nulla i quattordici bambini, non lo sanno quello che accade sopra le loro teste perché il mondo è tutto lì, tra di loro, sporchi e incrostati di fango, bagnati fino dentro le ossa e impazienti di tornare a correre per segnare, vincere e raccontarlo a casa, la sera.
Non andrà così.

Un quarto di secondo è nulla, pensateci, è un tempo impossibile da immaginare.
Un quarto di secondo cambia tutto.
Un quarto di secondo e il fulmine scarica lì, sulla casupola, attirato da chissà quale destino scritto da chissà chi.
Hanno tutti tra i 9 e i 16 anni i bambini.

Sono bambini, certo, ma iniziamo a chiamarli come si deve questi bambini di Arua, iniziamo a chiamarli con il loro nome, iniziamo a chiamarli calciatori.
Nove muoiono sul colpo. Uno muore in ospedale. Per gli altri quattro, chi crede può pensare a un miracolo.

I nove hanno un nome, un cognome e un’età.
Andrua Samuel, 16 anni; Awia Kennedy, 13 anni; Andama Godfrey, 13 anni; Bati Gasper, 15 anni; Afeku Saviour, 13 anni; Edema Jasiri, 15 anni; Ocatre Patrick, 13 anni; Asite Jordan, 11 anni; Apajobo David, 12 anni.
Del decimo, il calciatore morto in ospedale, sappiamo solo che aveva 13 anni e che si chiamava Tom.
Dei calciatori sopravvissuti non sappiamo nulla, di loro possiamo solo immaginarne la paura e il terrore negli occhi.

La notizia diventata storia era questa, ora proviamo a scriverne un’altra.
Per lunghi anni abbiamo chiamato il nostro campionato di calcio il più bello del mondo. È possibile che sia stato così, oggi forse lo è un po’ meno.
Ma non è questo l’importante. Forse non sarà il più bello del mondo, ma il calcio in Italia è bello.

Ecco, sarebbe importante che il calcio italiano, il bel calcio italiano, riconoscesse un tributo a memoria dei dieci calciatori di Arua, perché quei dieci calciatori sono tutti i calciatori del mondo, quelli che ci sono e quelli che devono ancora venire e perché 10, per chi gioca al calcio, è un numero magico, un numero che rimane nella storia, un numero che segna il destino di squadre e giocatori.

Ecco, allora, l’appello che sommessamente rivolgiamo al calcio italiano.
Il prossimo 19 settembre, quando su tutti i campi italiani si tornerà a giocare, prima di lanciare il pallone da quel dischetto nel mezzo del campo, fermatevi tutti, fermatevi un solo minuto, fermatevi per i 10 calciatori di Arua, fermatevi e provate a immaginarli ancora correre e sgambettare e state sicuri che loro, in quel momento, lo staranno facendo sul serio, perché una partita, anche la loro, bisogna continuare a giocarla. È solo un gesto simbolico, non restituirà nulla, ma il calcio, lo sport, la vita hanno bisogno anche di simboli.

Per i quattro calciatori che sono sopravvissuti, invece, si può fare qualcosa in più.
Portiamoli da noi, ospitiamoli per uno stage di calcio per dieci giorni, un mese o tre mesi, questi sono dettagli, ma facciamogli vedere il calcio dei grandi da vicino e proviamo a togliergli dagli occhi il ricordo di quella paura.

Una o due o tre o quattro squadre li possono ospitare, ecco, forse è questa la gara dove cercare di arrivare primi.
Forse non siamo il calcio più bello del mondo, ma possiamo provare ad essere un calcio generoso e non serve neanche essere il più generoso di tutti, perché questa non è una gara e chiunque partecipa vince.

La partita mai finita dei calciatori di Arua possiamo farla continuare.
La partita mai finita dei calciatori di Arua possiamo farla diventare la partita infinita, quella che non smetteranno più di giocare.
Dipende solo da chi leggerà questo articolo, dipende se qualcuna delle Istituzioni del calcio e dello sport leggerà questo appello e deciderà di dargli voce, visibilità e farlo proprio.

Ognuno può fare il suo.
Io potevo raccontare e scrivere una storia.
Voi che la leggete potete condividerla e farla leggere ad altri ancora.
Il calcio, tutto il calcio, può giocare una partita.
Una bella partita.
La partita infinita dei calciatori di Arua.

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