domenica 17 Novembre 2024
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La politica estera di Gianni De Michelis

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Se, come spero, il tempo futuro ospiterà altre iniziative – questa volta di studio ed approfondimento – sull’analisi della politica estera pensata, sviluppata e coordinata da Gianni de Michelis, ben altro di quello odierno sarà lo spazio che dovrà essere dedicato all’approfondimento di un tema tanto vasto quanto lo fu il bisogno culturale, ovvero razionale ed assieme sognatore, dell’intellettuale socialista al servizio della Repubblica, che volle trasformare la sua venezianità in spazio planetario di azione.

Oggi, come è giusto, sarà bene concentrarsi su un periodo cruciale della storia contemporanea che coincide grosso modo col triennio che vide Gianni alla Farnesina; non dimenticando, è ovvio, quanto il suo impegno governativo come ministro delle Partecipazioni statali, del Lavoro e di vice Presidente del Consiglio abbia lasciato un segno più che evidente nella politica europea ed estera dell’Italia.

Vi è per tutti un momento magico nella vita, dura un tempo indeterminato: un attimo, settimane, un tratto d’anni. È il tempo senza misura, che occupa lo spazio del ricordo comune e vivifica quello proprio. Quel momento liberò in De Michelis la energia creatrice di un modello di attività che ancora oggi affascina la diplomazia italiana.

La tradizione, mai rinnegata nella Prima Repubblica, e qualche volta dimenticata in quelle strane procreazioni costituzionalmente non assistite che si sono autodefinite Repubbliche Seconde, Terze o Seconde bis, riservava l’incarico di ministro degli Esteri quasi sempre ad un ex Presidente del Consiglio o, comunque, ad un riconosciuto leader parlamentare. Fu il caso di Saragat e di Nenni.

L’età stessa dei ministri degli Esteri obbligava i sottosegretari ad un importante lavoro fuori dal paese. De Michelis, con un po’ di scandalo iniziale dell’alta gerarchia, intese invece il suo lavoro come quello di effettivo “capo della diplomazia”.

La sua diretta partecipazione a riunioni, incontri anche informali, divenne presto proverbiale e la capacità di districarsi tra dossier complessi e diversi fu presto vista con ammirazione e compiacimento dai governi mondiali, segnatamente quelli europei.

La lingua inglese praticata da De Michelis era essenziale e comprensibile, con grande gioia dei suoi interlocutori, che non dovevano percorrere labirintici percorsi intellettuali per capire cosa intendesse il capo della diplomazia della sesta potenza mondiale.

Se, apparentemente, il pragmatismo demichelisiano non aggiunse novità nella politica estera italiana, come era stata disegnata prima da De Gasperi e poi col centro sinistra da Fanfani/Moro e Nenni/Saragat e Craxi, indubbiamente Gianni ha caratterizzato fortemente il suo impegno governativo per metodo, efficacia e competenza.

Accompagnando, molti anni dopo il suo impegno ministeriale, De Michelis nel Kuwait, ebbi modo di constatare quanto fosse rimasta invariata, dopo la guerra del ’90 – per la quale molto si era speso per assicurare la partecipazione italiana – la simpatia, l’interesse e la gratitudine per l’Italia e per la sua personalità non soltanto dell’emiro sovrano, ma in generale del gruppo dirigente politico ed economico dell’area. Senza la mediazione di fini linguisti gli interventi del già ministro, a quel momento presidente dell’IPALMO, furono assai apprezzati per la chiara indicazione di una politica che già all’epoca si poneva il problema della scommessa sostenuta dal manifesto ideologico del liberalismo, redatto da Fukuyama, secondo il quale il trionfo della democrazia liberale rappresentava con la “Fine della Storia” il mantenimento esclusivo e “perpetuo” del “Museo della Storia dell’Umanità”, dove il calcolo economico, la soluzione tecnica dei problemi, compresa quella dei bisogni sofisticati dei consumatori, avrebbero sostituito la lotta ideologica universale, il coraggio, l’audacia e l’idealismo.

Quel lettore e studioso vorace che era De Michelis aveva individuato, in un poco letto paragrafo del saggio The End of History and the Last Man, pubblicato in italiano come “La fine della storia e l’ultimo uomo”, un messaggio sfuggito ad alcuni. Fukuyama sosteneva, infatti, che «questa (fine della storia) non implica in alcun modo la fine dei conflitti internazionali in quanto tali. A questo proposito, infatti, il presente contributo dovrebbe essere diviso tra parte storica e parte post storica. I conflitti potranno continuare a esserci tra Stati che “sono ancora nella Storia” e stati che “sono arrivati alla fine della Storia”».

A Kuwait City, in una terra tanto ricca quanto poco abitata, al centro di una rete di reti economiche, finanziarie, tribali, che strategicamente interessano l’equilibrio del mondo, De Michelis, campione di metodo e competenza, si pose il problema di come l’unipolarismo avesse bisogno di quadri regionali di coordinamento in dialogo continuo fra loro per disinnescare la mina dei conflitti fra Stati “dentro” e  “fuori” la Storia. Pensandoci oggi scorre un brivido nell’immaginare la catastrofe ventura terrorista e finanziaria prevista da De Michelis, seppur tutti fossero allarmati dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, che avevano aperto la strada alla guerra al terrorismo, in assenza di una strategia globale e multilaterale.

Già, multilaterale. Il che ci porta a riflettere su una perfetta, continua, adesione di De Michelis alle linee guida della politica estera italiana, multilaterale, europeista, strettamente atlantica nella Difesa, logicamente coordinata con la politica estera statunitense e molto attenta alla Germania, con la quale Roma ha negli anni ’80 e ‘90 condiviso molto più di quanto ha legato il nostro paese alla Repubblica francese, il che rende più chiaro il senso di disillusione che ha creato in molti l’iniziativa euroscialba della Cancelliera Merkel.

Tra il 1989 ed il 1992, nel terzo e quarto governo della X legislatura, il mondo fu agitato da eventi straordinari: la rivolta dei paesi baltici, la crisi polacca provocata da Solidarność; la caduta della cortina di ferro al confine austro-ungherese , quando la doppia barriera di filo spinato, che per decenni era stata il simbolo della tensione e della diffidenza tra Est e Ovest, fu smantellata il 3 maggio a Hegyeshalom, Koeszeg, Ohszeg, Szentgotthard e Sopron, lungo i 345 chilometri di frontiera tra Austria e Ungheria; l’abbattimento del muro di Berlino; ed ancora , sempre nel 1989, il primo dicembre, Gorbaciov incontrò Giovanni Paolo II. Nel corso di quell’incontro, l’Unione Sovietica e la Santa Sede posero la prima pietra per avviare relazioni diplomatiche. Le elezioni parlamentari in Romania del 1990, il 20 maggio. Si trattò della prima tornata elettorale dell’era democratica, organizzata a poco più di cinque mesi dal successo della rivoluzione romena del 1989; le prime elezioni libere dal 1946 in Cecoslovacchia, che si tennero nel giugno 1990, senza incidenti e con più del 95% di affluenza alle urne.

Sempre nel 1990 la riunificazione tedesca – resa possibile dall’abbattimento del Muro di Berlino e dall’inaspettato progetto in tre tappe lanciato dal cancelliere Helmut Kohl pochi giorni dopo quello storico evento – permise di rilanciare l’idea di Unione europea.

Il presidente francese François Mitterrand temeva la ricostruzione di una Germania forte e militarizzata e fu tra i promotori di un’accelerazione dell’integrazione europea che legasse ineluttabilmente il governo tedesco in un’Europa integrata.

È da questo momento che occorre fissare l’attenzione sulla cavalcata potente e veloce che il ministro degli Esteri De Michelis impose ad una Europa occidentale ancora sotto choc per il susseguirsi degli avvenimenti che, paese dopo paese, liberava popolazioni intere dal giogo pesante della dittatura e della miseria.

Nel Consiglio Europeo straordinario di Dublino del 28 aprile 1990 fu rilanciato formalmente l’impegno alla edificazione di un’Unione politica europea. Il secondo Consiglio di Dublino, questa volta ordinario, si tenne nel giugno successivo e si decise, in quell’occasione a maggioranza, di convocare una nuova Conferenza intergovernativa (CIG), come quella che aveva approvato l’Atto unico europeo nel 1987, che avrebbe iniziato i lavori a dicembre, sull’unione politica. Tra il luglio e il dicembre 1990 la presidenza di turno passò all’Italia.

Il secondo Consiglio europeo di Roma, presieduto da De Michelis, si aprì il 14 dicembre per discutere sui rapporti che i Ministri degli Esteri avevano elaborato in merito all’Unione politica. Vennero raggiunte fondamentali decisioni in merito al rafforzamento dei poteri del Parlamento europeo, alla cittadinanza europea, al principio di sussidiarietà, all’area comune di sicurezza e giustizia. Il mandato della CIG era così definitivamente precisato attraverso quella che fu poi definita la politica dei Tre Pilastri.

De Michelis annotò immediatamente e riferì al Presidente Andreotti, a Cossiga ed a Craxi che la CIG sull’unione politica era dominata da un’alta confusione di proposte: la Commissione europea proponeva che l’Unione si sostituisse alle Comunità esistenti e fosse titolare della politica estera e di sicurezza; Francia e Germania appoggiavano l’ipotesi federalista e premevano per accelerare la difesa comune trasformando l’UEO nel braccio armato dell’Unione, sempre in ambito NATO; Regno Unito e Paesi Bassi si opponevano all’idea preoccupati di un indebolimento dell’Alleanza atlantica; la Spagna in un memoriale sollecitava il rafforzamento delle politiche economiche di sviluppo proponendo un aumento sostanziale dei fondi strutturali per garantire uno sviluppo effettivo delle regioni meno avanzate. Il governo spagnolo sottolineava quindi la necessità di pensare più all’integrazione economica che a quella politica.

Poi, giusto per aiutare, il presidente di turno, il premier lussemburghese Jacques Santer, presentò – senza apparenti consultazioni formali – un progetto di Trattato che egli stesso definì di compromesso, col quale proponeva che la futura Unione europea fosse composta di “tre pilastri”:

  1. la Comunità europea: avrebbe inglobato CECA, CEE e CEEA.
  2. in Politica estera e per la sicurezza comune il progetto Santander sostenne più le idee anglo-olandesi che quelle franco-tedesche in materia di difesa.
  3. gli Affari interni e giustizia divennero un pilastro a sé stante.

Santer non intendeva rinunciare all’idea di una futura Europa federale, parola che ritornava in un testo ufficiale per la prima volta dagli anni cinquanta. Fu proprio questo elemento, probabilmente, a portare la successiva presidenza di turno olandese a presentare a sorpresa un secondo progetto di Trattato, quando quello di Santer era stato considerato il punto di partenza imprescindibile per la discussione. La struttura a tre pilastri veniva sostituita da un totale incorporamento delle nuove politiche nella CEE, mentre veniva esclusa qualsiasi autonomia federalista in campo difensivo, in quanto la sicurezza europea sarebbe rimasta parte delle strategie della NATO. Il progetto non ottenne l’appoggio dei principali Paesi europei – tra cui l’Italia – ed ebbe vita breve: il disegno di tre pilastri veniva così fissato.

Per un lungo momento si profilò la possibilità di un fallimento della CIG e l’inizio di un drammatico indebolimento delle strutture europee proprio, quando le nuove democrazie dei paesi dell’Est reclamavano aiuto economico e sostegno politico.

Era giunto il momento del coraggio e dell’inventiva. Tutti riconobbero all’Italia e specialmente a chi guidava la squadra diplomatica, De Michelis il grande merito di aver trovato la strada per uscire dall’impasse. De Michelis guadagnò così un suo posto nella storia europea e dell’Occidente.

È riconosciuto che senza il lavoro di De Michelis, sostenuto da Genscher, a Maastricht il 9 dicembre 1991 lo storico Consiglio europeo non avrebbe dato vita al nuovo Trattato.

De Michelis non era affatto convinto della eccellenza del piano lussemburghese, ma dimostrò le sue straordinarie doti di pragmatismo e in accordo con il ministro degli Esteri tedesco Hans-Dietrich Genscher (un’autentica istituzione germanica, ministro degli esteri ininterrottamente dal 1974 al 1992, con una piccola pausa di due settimane nel 1982) preferì appoggiare, migliorandola, la proposta dei Tre pilastri piuttosto che allontanare ulteriormente la sempre difficile unione politica europea.

Nella prima giornata furono sciolti gli ultimi nodi sull’Unione economica e monetaria: entro il 1º gennaio 1999 si sarebbe avviata la terza tappa del calendario, con l’introduzione della moneta unica. Più difficile fu superare l’opposizione britannica a questa soluzione e sulle questioni sociali. Venne sancita così la clausola di opting-out attraverso la quale la Gran Bretagna sarebbe potuta rimanere nella futura Unione europea pur senza accogliere le innovazioni che il suo governo avesse rifiutato. Nasceva così per la prima volta l’idea di un’Europa a due velocità. Una idea, quella della doppia velocità che anni dopo sarebbe stata usata a piene mani da Chirac e Amato nel Consiglio di Nizza (presidente della Commissione essendo Romano Prodi).

Per la PESC (politica estera e di sicurezza comune), venne accolta la volontà “futura” di costituire una difesa comune e si stabilì che sulle decisioni di politica estera generale sarebbe rimasta in vigore la regola dell’unanimità, “salvo” adottare la maggioranza per le “decisioni di applicazione”.

Chiusi in tal modo i negoziati, il 7 febbraio 1992 fu firmato, sempre nella cittadina olandese, il Trattato sull’Unione europea che da allora sarebbe stato noto come Trattato di Maastricht. Esso comprendeva 252 articoli nuovi, 17 protocolli e 31 dichiarazioni.

L’Unione europea così creata veniva edificata sui Tre pilastri del progetto Santer, limati e modificati dal lavoro diplomatico. Un “pilastro” fu più saldo degli altri, quello noto come “Comunità europea” (CE, in sostituzione della CEE), l’unico a carattere federale rispetto agli altri due – sulla PESC e sugli affari interni – di carattere intergovernativo. L’Unione dispone di un quadro istituzionale unico in quanto le sue istituzioni sono comuni a tutti e tre i pilastri; oltre a quelle canoniche, venne ufficialmente riconosciuto il Consiglio europeo come organo di sviluppo politico.

L’Unione europea restava tuttavia una struttura anomala in quanto priva di personalità giuridica e di risorse proprie, a parte quelle della CEE di cui tuttavia non avrebbe potuto disporre.

De Michelis capo della diplomazia italiana, uomo di metodo e di enorme dispendio di energie e di intelligenza era, secondo gli americani, “effective”, “efficace”; secondo i britannici, che un poco lo invidiavano, era “flamboyant”, fiammeggiante.

Nonostante il suo noto e preveggente interesse per la Cina, dedicò la maggior parte della sua attività da ministro a tre aree: a) il Nord Ovest, l’Unione Europea, e gli USA; b) il Nord Est, con particolare riferimento alla Quadrangolare; c) il Mediterraneo.

Fu un politico scomodo ma leale e come tale ben considerato da alleati veri e amici presunti.

Mai dimenticò di legare l’interesse nazionale, ed europeo, a quello della sua terra, che amò profondamente.

Ricordo che per anni ha sostenuto che il «ruolo europeo del Friuli Venezia Giulia è attualmente pari allo zero», dove ”attualmente” è una figura meramente retorica, che io stesso ascoltai prima del 1989 e ben dopo il 2000.

Già alla fine degli anni ’80 De Michelis giudicava che il Friuli Venezia Giulia era, doveva essere, il “centro nevralgico d’Europa”. Per De Michelis troppe occasioni erano state sprecate rispetto alle possibilità offerte prima e dopo l’abbattimento del muro di Berlino.

«Allora pensavamo a una prospettiva straordinaria per il Nordest italiano, che ritenevamo essere destinato per natura a diventare il cuore della nuova Europa – spiegò De Michelis -. Il giorno dopo la caduta del Muro firmammo quel Quadrangolare la cui efficacia si è oggi ridotta a un Ince (iniziativa centro europea) che non è che una pallida raffigurazione delle potenzialità racchiuse nel progetto di allora».

Sin dalla fine degli anni ‘70, racconta De Michelis, era nata l’idea di un asse Barcellona-Trieste-Kiev. «Ma anche di quell’intuizione – prosegue – si è fatto ben poco. In questi anni la politica del Nordest in quest’ambito è stata disastrosa, in modo bipartisan. L’esempio più eclatante è quello del Corridoio 5, codificato nel ’95 e mai realizzato. Risale solo a qualche mese fa la creazione del passante di Mestre, mentre a livello ferroviario le infrastrutture sono inesistenti».

Gianni aveva individuato nella criticità infrastrutturale del sistema la criticità basilare nel deficit di strumenti di lavoro essenziali per una vera integrazione economica e, perché no, culturale fra l’Italia e l’Europa centro-orientale.

La destrutturazione della lungimirante iniziativa Alpe Adria, nata come laboratorio del futuro processo di allargamento dell’Ue, fu esiziale.

Sull’efficacia dell’Euroregione i pareri furono sempre divergenti, aggravati nel tempo dalla divisione della ex Jugoslavia, che cambiò completamente lo status di Slovenia e Croazia, da regioni a stati.

Mentre la maggior parte dei politici locali non riuscì ad indicare soluzioni concrete per riportare il Nordest al centro dell’Europa, coniugando assieme gli interessi europei, quelli balcanici e quelli mediterranei, il colto professore di chimica, educato alla severa scuola politica laica e riformatrice dell’Unione Goliardica, sostenne che l’uscita dal tunnel era possibile solo investendo nelle infrastrutture e modificando l’assetto territoriale del Nordest attraverso la creazione di un’area metropolitana che si estendesse da Trieste a Venezia. «Ma dobbiamo muoverci subito – concludeva sempre Gianni– o ancora una volta Lubiana ci batterà sul tempo». E si dette da fare, tanto, anche da parlamentare europeo, perché il Corridoio 5 che da Barcellona si doveva estendere sino a Kiev passasse per l’Italia e coinvolgesse per intero il Veneto e Trieste.

Io ringrazio ora Giampaolo Sodano che dirige il nostro “Moondo” e  la Fondazione Pietro Nenni, presieduta da Carlo Fiordaliso e la UIL tutta, ad iniziare dal suo segretario Generale Barbagallo e dal segretario generale aggiunto Bombardieri, che vollero dedicare tempo e fatica per permettere la realizzazione di  una giornata di studi e riflessioni (difficile lavoro, coronato da successo, al Teatro dei Servi in Roma il 19 novembre del 2019, occasione nella quale pronunciai un intervento dal quale ho tratto gran parte di questo articolo). Ci è stato permesso di onorare Gianni e il socialismo italiano e spero che, con lo stesso appassionato e colto pragmatismo di De Michelis, sia ancora possibile incentivare studi sempre più approfonditi sui nostri eroi socialisti, sulle straordinarie politiche del socialismo italiano.






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