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Nel miracolo economico non ci sono solo grandi personaggi che hanno fatto, obiettivamente, la storia di quegli anni. C’è anche una gran massa di gente che ha voglia di fare. Gente comune che si rimbocca le maniche e “si butta” nell’avventura, senza capitali (o con piccolissimi capitali) ma con intuito, passione e fantasia. Una società giovane, creativa ed esuberante che emergeva dai resti della distruzione. Miriam Mafai nel suo IL SORPASSO parla di “tanti disoccupati che diventano artigiani, di tanti artigiani che si trasformano in industriali e di tanti dirigenti industriali che hanno una voglia matta di impegnarsi, di crescere”. E ci riescono.
E’ l’iniziativa privata che risente di quel clima di ottimismo e vitalità (che oggi non abbiamo più), di libertà finalmente realizzata, nel quale tutto si può fare e tutto si può inventare. Nel 1951 l’arcipelago delle piccole aziende impiegava il 14% dell’occupazione nell’industria manifatturiera. Nel ’61 era quasi al 19% e nel ’71 quasi al 22%. I “padroni” lavorano fisicamente insieme agli operai e ne condividono la parsimonia: ogni lira guadagnata viene reinvestita. Tutti accomunati da un obiettivo: farla finita con la povertà. I nomi sono tanti. Alcuni sono arcinoti, altri pressoché sconosciuti.
Il dopoguerra e la rivincita delle piccole aziende
A fronte di un Ferrero che comincia nel ’46 con la crema di nocciola “surrogato” della cioccolata, diventato poi l’impero della Nutella, c’è un Luigi Bassani che nell’immediato dopoguerra si mette a produrre interruttori elettrici con cui far fronte alla crescente domanda interna perché si ricominciava a costruire case ed edifici. Ha successo. Apre un altro stabilimento, oltre quello che aveva già nei pressi di Varese, e un’officina a Torre del Greco e diventa quella che Adriana Castagni ed Emanuela Scarpellini nel libro Storia degli imprenditori italiani, chiameranno una “multinazionale tascabile” con consociate per la produzione e la vendita in oltre 70 paesi, tra cui Francia, Spagna, Sudamerica.
Nel Lazio Antonio Annunziata ha un piccolo saponificio familiare che trasforma in una industria che produce il marchio Scala, un detersivo in quegli anni famosissimo. Gli va così bene che negli anni 90 suo figlio sbarca in Francia costituendo una consociata e comprando due cartiere nel sud sempre della Francia.
Ugo Rangoni aveva cominciato a lavorare giovanissimo in una conceria. Dopo la guerra si mette a fare scarpe e nel 1960 ha già mille dipendenti. E vende 3.500 calzature al giorno, soprattutto negli Stati Uniti.
Restando nel settore calzature, Bruno Magli inizia a lavorare come apprendista dei maestri artigiani del cuoio. Ma non gli basta e mette a punto brevetti d’avanguardia per macchinari dei calzaturifici. Nel 1948 il primo stabilimento a Bologna, poi è tutto un salire. Fino all’esposizione di un sua modello al Museum of Modern Art di New York.
Giovanni Pofferi a Pistoia con un socio fonda la Permaflex che fa cuscini e materassi che ci fanno dormire bene ancora oggi.
A Napoli Carlo Azzi, che aveva ereditato dal nonno una piccola vetreria, dopo la guerra si butta sulle materie plastiche e fa il botto con il Plexiglas. Non pago, comincia a costruire apparecchiature scientifiche per l’industria aeronautica. In breve: diventa fornitore della Nato e del Pentagono.
Un settore dove gli italiani si distinguono è quello dell’industria del bianco, ovvero degli elettrodomestici da casa: lavatrici, frigoriferi, lavastoviglie. Nessuno ci avrebbe scommesso una lira. Anzi, una società di ricerca americana – ci raccontano le due autrici già citate – giudica del tutto infondata l’ipotesi che in Italia potesse svilupparsi un’industria di elettrodomestici. Accontentatevi di non morire di fame, figuriamoci se potete pensare alla lavatrice. E invece no. Una nutrita schiera di nuovi piccoli imprenditori si prepara a conquistare i mercati puntando sui prezzi bassi e la produzione di massa. Nel 1950 si costruiscono 150 mila elettrodomestici bianchi all’anno, nel 1970 oltre 10 milioni. E l’Italia diventa il secondo produttore mondiale e il primo tra i paesi esportatori.
C’è Enzo Fumagalli che, catturato dagli americani in guerra, già nella prigionia mette a punto un disegno di lavabiancheria, che riesce a mandare al padre. Il padre ha una fabbrichetta in Brianza di macchine utensili e lavorando in cantina, mette a punto un modello. Quando il figlio torna a casa, lo perfeziona. Nel 1957 nasce la Candy, un successo nazionale e internazionale, con consociate all’estero e migliaia di dipendenti.
Giovanni Borghi aveva un’officina per la produzione dei fornelli, cucine a gas e scaldabagni. Fa il botto con i frigoriferi e arriva l’Ignis.
Nelle Marche c’è l’exploit di Merloni con il marchio Ariston. Alle soglie degli anni ’70 Candy, Ignis, Merloni e Zanussi controllano il 75% della domanda interna.
In provincia di Modena, Sassuolo e Carpi in pochi anni diventano due poli mondiali: il primo nelle ceramiche, il secondo nella maglieria. Con l’entrata in vigore del Mec (mercato comune europeo) le esportazioni solo verso la Germania salgono dai 2 miliardi del 1956 a più di 6 nel 1958.
C’è poi il comparto delle moto e motocicli. Ricordare la Vespa della Piaggio è quasi inutile. Ci hanno pensato egregiamente Gregory Peck e Audrey Hepburn nel film Vacanze Romane del 1953 e anche chi ha oggi 30 anni conosce la scena della fuga, appunto, in Vespa. Icona immortale riprodotta ancora adesso i mille situazioni. Diretta concorrente era la Lambretta della Innocenti di Milano. E’ così venduta che persino Germania e Francia chiedono la licenza per produrla. Ma il mito per gli italiani era la Gilera. Giuseppe, nato da una famiglia di contadini aveva cominciato a lavorare a 15 anni come garzone di un’officina di biciclette . A vent’anni si mette in proprio e progetta il suo primo motore a scoppio per motocicletta. Un successo travolgente, poi lo stabilimento di Arcore, diversi premi nelle gare sportive e alla fine un impianto a Buenos Aires. I ragazzi sulla Gilera si sentono decisamente “ganzi” , quasi americani. Sgassano volutamente e quel brum brum attira le ragazze. Una manna.
Potremmo continuare a lungo. Ma è giusto ricordare che non sempre c’è il finale rosa. Augusto Zoppas, insieme ai fratelli mette su una industria di elettrodomestici a Conegliano Veneto ed è il primo a fare una lavastoviglie interamente italiana. Ha 7.500 dipendenti e per quegli anni è importantissimo anche dal punto di vista sociale perché contribuisce a frenare l’emigrazione verso la Germania e la Svizzera (il Veneto era poverissimo, ma oggi non se lo ricorda). Non avrà una vita lunghissima. Negli anni ’70 sarà assorbita dalla Zanussi, altro marchio di enorme successo durante il boom economico, che comprerà anche la Castor, lavatrici, messo su da Francesco Cesarini la cui officina era stata distrutta dai bombardamenti. Cesarini non si era fatto prendere dallo sconforto e aveva ricominciato , arrivando ad esportare la metà della sua produzione. Ma anche la Zanussi “morirà” nel 1985, acquistata dalla svedese Elettrolux.
Il ruolo delle banche nel dopoguerra
Così come c’è un rovescio della medaglia di tutto questo attivismo. E’ Guido Crainz a ricordarcelo nel libro Storia del miracolo italiano. Crainz cita una inchiesta fatta da Mario Pirani nel 1958. Le 400 operaie che lavorano alla Piaggio – scrive – al momento dell’assunzione hanno dovuto impegnarsi a dare le dimissioni in caso di matrimonio; alla Candy di Monza e Brugherio lavorano 200 operai “con orario di lavoro incontrollato e costellato di infortuni e senza alcun riparo dalla nocività. Naturalmente di commissioni interne e di scioperi neanche l’ombra”. Alla Ignis la commissione interna dura 6 mesi e i cinque componenti vengono o spostati o “liberalizzati con anticipo di capitali per costruire altri laboratori artigiani satelliti”.
Si, nel miracolo economico c’è anche uno sviluppo incontrollato, i sindacati ancora deboli, le leggi – quando ci sono – spesso ignorate. Però l’ ingegno da solo non basta. E qui entra in gioco il delicato ruolo delle banche. I grandi istituti hanno sicuramente privilegiato il credito alle grandi imprese. Le aziende minori si sono molto avvalse dell’autofinanziamento – piccole formichine che mettevano da parte lira su lira. Ma importante è anche il potenziamento delle banche locali che hanno finanziato gli imprenditori più legati al territorio creando un sistema creditizio adeguato ai bisogni delle aziende appartenenti alla stessa comunità. Classico è l’esempio delle casse di risparmio, che grazie ad una serie di disposizioni della Banca d’Italia e alla diffusione capillare sul territorio, diventano il sistema più idoneo a sostenere le esigenze di soldi delle piccole e medie a dimensione locale. Idonee, tra l’altro, anche a sostenere lo sviluppo della DC, che – come osservano Castagnoli e Scarpellini – aveva il suo fulcro nell’allargamento dei ceti medi: “in quanto principali finanziatrici della politica di opere pubbliche degli enti locali , le casse compivano il circolo virtuoso dirottando il risparmio verso la realizzazione delle infrastrutture a cui partecipavano anche i gruppi di imprenditori locali”.
Oggi tutto questo non c’è quasi più. Le decisioni fondamentali le prende la Bce, alla Banca d’Italia è rimasto solo il ruolo di controllo (quando lo fa). Il credito è diventato finanza e gioco di borsa. Gli istituti di credito comprano futures e titoli internazionali che apparentemente sono redditizi ma a volte si rivelano vere e proprie bufale. Di piccole banche e banche locali ne sono rimaste ben poche. Si sono dovute aggregare alle grandi per sostenere la concorrenza dei grandi istituti di credito internazionali: è la globalizzazione, bellezza.