Gli ultimi “bollettini” della protezione civile lasciano sperare che presto usciremo dall’emergenza Coronavirus ma, purtroppo, quello che ci aspetterà dopo non sarà meno drammatico e di minore emergenza. Il paese è disperato, impoverito, sfiduciato, molte fasce deboli della popolazione sono, addirittura, affamate, non ci sono visioni chiare sul futuro, molti sono con l’acqua alla gola e non pochi quelli col fuoco negli occhi.
Non c’è da sperare dai bei discorsi appassionati che assicurano un ritorno ad abbracci e baci e che il periodo trascorso di odio e di risentimento è ormai finito perché si ripartirà da un clima di reciproco rispetto e di reciproco conforto.
La verità invece un’altra: un popolo che ha fame diventa incontrollabile, ingestibile, soprattutto inaffidabile. A questo popolo affamato Manzoni nel suo romanzo dedica ben due capitoli, il XII e il XIII. Sono i capitoli dell’assalto ai forni conseguenza di una grave carestia e di tanta fame.
Il rapporto con i recenti “attacchi” ai super mercati è inevitabile.
Scrive Manzoni: “Era quello il second’anno di raccolta scarsa […] la penuria si fece subito sentire […] si dimentica di averla temuta, predetta; si suppone tutt’a un tratto che ci sia grano abbastanza per il consumo: supposizioni che non stanno nè in cielo, nè in terra ma che lusingano a un tempo la collera e la speranza. La moltitudine attribuiva un tal effetto alla scarsezza e alla debolezza de’ rimedi e ne sollecitava ad alte grida dè più generosi e decisivi […] e per sua sventura, trovò l’uomo secondo il suo cuore”. Nella storia di Manzoni è un tal Ferrer, un demagogo come tanti anche ai nostri giorni, che, giocando col fuoco, pensò di accontentare senza criterio e giudizio, da autentico sciacallo, la moltitudine. Difatti, non tenendo conto delle leggi di mercato “fissò la meta del pane al prezzo che sarebbe stato giusto se il grano si fosse comunemente venduto 13 lire al moggio, e si vendeva fino a ottanta. Fece come una donna stata giovane che pensava di ringiovanire alterando la sua fede di battesimo”. (A. Manzoni, I Promessi Sposi)
I fornai, spiega Manzoni, a queste condizioni non furono in grado più di panificare e necessariamente il prezzo del pane fu costretto a risalire.
“I FORNAI RESPIRARONO MA IL POPOLO IMBESTIALÌ” (op.cit) Da questo momento in poi la narrazione procede nella descrizione della graduale degradazione dell’animo popolare a una condizione di bestialità: le piazze BRULICAVANO d’uomini trascinati dalla rabbia […] che si univano a BRANCHI, si presentavano come una MARMAGLIA selvaggia, una MASNADA, spinta da una forza incontrollabile come quella di una natura sconvolta. Si muovevano a FLUTTI per dirompere in modo irruente come un TORRENTE in piena. Le immagini manzoniane prodotte dai campi semantici che riconducono al mondo animale e alle incontrollabili forze naturali mettono bene in evidenza come una folla possa scendere a livelli di grande degradazione morale e perdere facilmente il controllo quando i bisogni primari non sono soddisfatti e si trova in una condizioni limite tra l’urgenza di un bisogno e l’impossibilità di soddisfarlo per assenza di soluzioni avvedute e razionali. La furia di quella TURBA e di quella moltitudine irata e PROCELLOSA pensa, tra un frastuono di grida e di imprecazioni, di organizzare l’omicidio dello sventurato Vicario, ritenuto ingiustamente responsabile dell’inevitabile rincaro del pane.
La “causa del sangue” fu perduta grazie all’intervento di Ferrer, divenuto popolare per il suo provvedimento insensato e inopportuno di abbassare il prezzo del pane ad una soglia improponibile per ragioni di mercato. Arrivò rassicurante promettendo di punire il Vicario con il carcere, in realtà con l’unico scopo di metterlo in salvo. La sua doppiagine è magistralmente resa dal Manzoni che gli fa pronunciare raccomandazioni in italiano rivolte al popolo per abbonirlo ed esclamazioni in spagnolo con i suoi accompagnatori che esprimevano preoccupazione per il Vicario e l’urgenza di portarlo in salvo. In Ferrer si possono tranquillamente riconoscere tutti quei politici che cavalcano gli umori popolari per un esclusivo vantaggio personale, di tutti gli approfittatori ma soprattutto di tutti i millantatori che strumentalizzano la disperazione del popolo per guadagnare consensi senza alcuna logica e alcun criterio di responsabilità etica.
La lezione che viene dal Manzoni ieri come oggi è una sola: non lasciare mai che il popolo arrivi all’esasperazione. È a quel punto che le Democrazie possono perdere di credibilità e di fiducia. È a quel punto, e la storia ce lo insegna, che si possono realizzare svolte autoritarie pericolose. Oggi combattiamo una battaglia epocale contro un nemico che appare difficile da sconfiggere ma domani ci aspetta una crisi ancora più difficile, una crisi economica e sociale.
Affermare che andrà tutto bene come continuamente ci ripetiamo per darci reciproco coraggio, sa un pò di ingenuità. Ci aspetteranno disuguaglianze, povertà, miseria, disperazione, rabbia a cui faranno da contraltare l’avidità degli straricchi, l’arroganza di tecnocrati e l’opportunismo di politici sciacalli alla Ferrer i cui “piani” già si intravvedono nei loro giochetti “a rialzo continuo”.
In considerazione di tutto questo è indispensabile impegnarsi per una società più giusta, è indispensabile dare una prova di civiltà e solidarietà per trasformare una massa emotiva e affamata in un collettivo civile. Se si dovesse arrivare all’aggressione dello Stato democratico si creerebbero condizioni per pericolose svolte autoritarie come appare evidente sia accaduto in Ungheria con Orban.
Non è più tempo di rimandare, occorre agire in tempi brevi e con lungimiranza. Troppo poco è stato fatto in passato contro la povertà e i disagi economici di un ceto medio-basso che è a rischio di impoverimento. Non si può più tollerare di stare a guardare in attesa che qualcosa cambi. Il cambiamento siamo noi, tutti noi, a partire dai nostri rappresentanti. È una grande prova quella che ci attende e che dovrebbe vedere impegnati in prima fila i più facoltosi tra gli Italiani ed in primis i politici. Per loro è arrivato il momento di dare prova di responsabilità, di offrire un esempio di disponibilità per un’azione civile collettiva anche a costo di rinunciare a privilegi e a grossi vantaggi economici.
Nell’antica Grecia pratiche di solidarietà civile costituivano la prassi normale costituita dall’Evergetismo. Ognuno dovrà fare la sua parte e se si dovrà dividere il mantello come San Martino bisognerà partire da chi il mantello lo ha più ampio e smettere di chiedere sacrifici a chi ha poco o ha già sacrificato tutto. Non possiamo più permetterci una politica di attesa, è il momento di dare un segnale forte e deciso perché il cittadino deve avere la convinzione che lo Stato c’è ed è uno Stato vicino a ciascuno, disposto a rinunce significative per un interesse collettivo imprescindibile. Basta con privilegi e con la retorica populista e demagogica. Occorrono progetti seri e grande senso di responsabilità per tutelare chi ha poco o niente. Solo così si potrà ripartire a vantaggio e a tutela della collettività e della democrazia. Chi ha e ha tanto, forse troppo, ha il dovere etico di contribuire in modo massiccio alla rinascita della nazione e a contenere la povertà.
Conosciamo bene l’entità di tanti maxi compensi e i privilegi esagerati di cui godono molti, privilegi che oggi più che mai appaiono ancora più ingiusti e inopportuni e che vanno sostituiti con un’attenzione maggiore verso gli strati più deboli della società che soffrono già da molto e che meritano invece dignità e rispetto. È una cura importante e impegnativa almeno quanto quella contro il Coronavirus ma l’unica possibile che potrà salvarci da una deriva pericolosa. Gli insegnamenti che vengono dalla storia non possono essere ignorati.