giovedì 21 Novembre 2024
Editoriali di Giampaolo SodanoLettera aperta al Sindaco di Roma Virginia Raggi

Lettera aperta al Sindaco di Roma Virginia Raggi

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Sono trascorsi 514 giorni dalla Sua elezione a Sindaco della città Capitale. Un tempo sufficiente per fare un primo sommario bilancio delle cose fatte e di quelle non fatte. Sarebbe certamente cosa giusta, ma a me interessa poco o niente. Anche perché ho la fortuna da diciassette anni di vivere fuori dalla città, in un bellissimo bosco di ulivi, e quindi poco sono turbato dagli enormi disservizi di cui soffrono i cittadini che risiedono o lavorano dentro le mura.

Virginia Raggi
Virginia Raggi, Sindaco di Roma

Le confesso che la cosa che mi sorprende è che Lei non abbia trovato mai il tempo o la sede oppure l’occasione per esprimere il suo pensiero sul destino della Capitale. Un cittadino, come dite voi del movimento 5 stelle, che chiede di essere eletto sindaco della sua città una qualche idea deve pur averla. Se non proprio un progetto, almeno una visione. Verrebbe la voglia, se non fosse il Sindaco, di interrogarLa, di domandarLe: che idea di Capitale ha in testa, qual’è il Suo ideale di Città Capitale. Perché, gentile signora, il problema non sono le buche o le case popolari o l’immigrazione, problemi comuni a tutte le città, più o meno. Ma Roma non è una città come le altre, è la Capitale d’Italia. Una Capitale solo sulla carta, nella realtà uno degli ottomila comuni del Bel Paese. Il nodo è tutto qui.

Tutto dipende dal fatto che Lei, come tanti altri, non ha un’idea di Capitale, non sa che cos’è, non sa com’è fatta una Capitale, lo sapevano i cesari ed anche i papi, lo sapeva Mussolini e forse anche Garibaldi ma Lei come noi, noi cittadini del XXº del XXIº secolo, noi rappresentanti dell’Italia democratica e repubblicana non sappiamo come deve essere, che ruolo deve avere, quale immagine, quale sviluppo, non abbiamo cioè una nostra idea di Capitale e finché non sapremo, finché non avremo un’idea di Capitale, non potremo costruirla.

Roma è così condannata ad essere una città, una delle tante, costretta a contendersi il titolo di Capitale con le altre capitali, con quella della moda, quella dell’arte, con quella dell’automobile, come ai tempi delle repubbliche marinare. E così Roma si distingue dalle altre città solo perché non può ospitare i giochi olimpici, nè l’expo e in più è penalizzata da un onere speciale e cioè quello di mettere il suo territorio al servizio dello Stato, anzi di due Stati.

Oggi non saprei dire quale possa essere una soluzione praticabile perché anch’io non ho un’idea di Capitale ma so che una Capitale dovrebbe avere un governo con una propria autonomia, con propri poteri, dovrebbe avere una potestà legislativa, dovrebbe cioè essere governata, non dà un consiglio comunale, ma da un’assemblea di governo, ma so anche che una soluzione come questa, la città-Stato, è certamente impraticabile.

Eppure una giusta soluzione fu prospettata al Parlamento 30 anni fa, in una felice stagione politica in cui nell’aula di Montecitorio fu approvata all’unanimità una mozione per Roma Capitale e sette gruppi parlamentari presentarono altrettante proposte di legge e Bettino Craxi ebbe il merito di essere il primo presidente del consiglio a presentare un Disegno di legge per Roma Capitale.

Correva l’anno 1986. E Lei aveva 8 anni. Purtroppo la nona legislatura volgeva al termine, una ennesima crisi politica la chiuse anzitempo e ciò che in quell’anno sembrava a portata di mano svanì come neve al sole. Quattro anni dopo, Il 15 dicembre 1990 viene promulgata la legge 396 “Interventi per Roma, capitale della Repubblica”. E da quell’atto scaturiscono 16 decreti ministeriali tra il 1992 e il 1999. Tanti soldi ma nessuna opera. Poi nel 2001 la norma costituzionale su Roma capitale e una nuova sfilza di 6 decreti ministeriali. Ancora soldi ma della nuova capitale nemmeno l’ombra.

Sarebbe molto facile dire oggi “ve lo avevamo detto”, i socialisti avevano proposto, con un proprio disegno di legge, una Agenzia per la capitale, una nuova forma organizzativa del potere pubblico che dovesse provvedere a tutte le incombenze tecniche ed amministrative relative all’attuazione di un piano di opere per la funzione di capitale.

Insomma la mancanza, da ormai un secolo e mezzo, di un progetto di Capitale è il problema di Roma. Con il tempo i problemi si sono aggravati: la città storica è divenuta preda di ardite speculazioni, il governo del territorio non è stato più ritenuto un fatto prioritario, le periferie, preda dei palazzinari del dopoguerra, sono divenute squallidi dormitori, la città industriale si è dimostrato uno specchietto per le allodole che ha fatto solo dissipare territorio, i servizi pubblici sono divenuti un problema insolubile, preda di mille privilegi e terreno elettorale più che risorsa della capitale. Il turismo, il commercio, l’artigianato, un tempo fiorenti, sono divenuti rapidamente terra di nessuno fra norme inapplicate, carenze di programmi, contrasti ad ogni livello.

La responsabilità sono tante ma insistere su di esse può avere solo un valore storico: giunti a questo punto, che è forse uno dei più bassi nella storia della Roma post risorgimentale, occorre riprendere il discorso, se ne siamo capaci, dove lo abbiamo interrotto 30 anni fa: non sarà facile. Anche la norma costituzionale del 2001 su Roma Capitale è stata abilmente svuotata di contenuto da una burocrazia che teme di perdere, con le funzioni, i piccoli privilegi di cui continua a godere.

L’esperienza di questi anni ci dice che la questione non è di quattrini, è anche e soprattutto e ancora una volta questione di volontà politica.

Vi voglio raccontare come andarono le cose trent’anni fa. Ero seduto in commissione bilancio per l’esame della finanziaria, in sostituzione di un collega che si era ammalato, premesso che da quando ero stato eletto deputato mi ero occupato della questione Roma, presi la parola per illustrare un emendamento che avevo depositato e che prevedeva una spesa straordinaria di 450 miliardi per il finanziamento di opere necessarie per la funzione di Capitale. Si aprì una discussione piuttosto animata, il governo per bocca del Ministro del bilancio Goria non trovò di meglio che porsi la domanda di quale giustificazione poteva dare ai suoi concittadini di Asti per uno stanziamento così rilevante per la città di Roma. Grazie ad un provvidenziale intervento del presidente della commissione Paolo Cirino Pomicino il dibattito si concluse con l’approvazione dell’emendamento seppure con una cifra inferiore. Ovviamente si pose subito la questione di come spendere questi denari: con i miei compagni del gruppo parlamentare socialista presentammo una proposta di legge.

Insomma il 1986 fu un momento d’oro per Roma Capitale, forse si fecero anche troppe chiacchiere, certo è che di Roma si parlò molto. Si era partiti con il piede giusto: si sentiva l’esigenza, una volta stanziati i fondi, di capire come spenderli e per quale Capitale. I progetti che erano sul tavolo sembrarono divenuti obsoleti: grandi opere, infrastrutture, informatizzare attrezzare, telematizzare Roma non erano sufficienti a disegnare un suo volto moderno, forse mancava un’idea unitaria e per questo furono chiamati a raccolta operatori della cultura, management dell’impresa pubblica e privata, forze imprenditoriali e finanziarie, esponenti politici di tutti i partiti, che con grande lucidità e passione discussero di Roma. Poi la crisi politica mandò tutto in soffitta.

Sono trascorsi trent’anni e ovviamente la città è cambiata al di là dei suoi governanti. Roma un tempo luogo di scambi, di mercato, di abitare poi città del lavoro, oggi non sappiamo cos’è e qual’è il suo domani. Tocca a noi, a noi cittadini del 2000, stratificazione di storia e di cultura essere capaci di coniugare bellezza e progresso, innovazione e memoria per riprendere il difficile cammino, per dare a Roma l’identità a cui ha diritto, quella di Capitale d’Italia.

Auguri signora Raggi.

Giampaolo Sodano






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