Scriveva Albert Einstein “La mente è come un paracadute, funziona solo se si apre!”. Questa citazione serve per introdurre una riflessione su ciò che accade, perché la nostra mente determina il modo in cui ragioniamo, il modo con il quale affrontiamo i problemi che la vita quotidiana ci pone davanti, ma è soggetta ovviamente anche ad errori di valutazione. Può cioè indurci a commettere degli errori di giudizio, a fare cose sbagliate.
Gli errori in cui la mente sovente cade, sono dovuti soprattutto alle emozioni perché la struttura cognitiva del pensiero è di fatto condizionata dalle emozioni che subiamo, dalla realtà che ci circonda e queste emozioni corrompono il pensiero. Potremmo dire che gli fanno perdere lucidità. La facilità, ad esempio con la quale eccediamo in determinati ricordi è strettamente legata appunto alle nostre emozioni.
Vedete, ad esempio, quello che è accaduto ieri su tutti i giornali italiani: la commemorazione che improvvisamente tutti hanno fatto e tutti nello stesso modo del decesso di un magistrato, Saverio Borrelli, che fu procuratore della Repubblica di Milano all’inizio degli anno ’90.
Borrelli e l’inchiesta su Tangentopoli
Prendiamo, ad esempio, il Corriere della Sera che ieri titolava “Addio a Borrelli, cambiò l’Italia con l’inchiesta su Tangentopoli“.
Ecco, le emozioni governano ancora oggi: sono trascorsi oltre due decenni quando si parla di questo evento della politica italiana, cioè di Tangentopoli. Se invece avesse preminenza la capacità cognitiva del nostro pensiero, a distanza di venticinque anni quantomeno, quanto meno questo titolo doveva essere seguito da un punto interrogativo, cioè “Cambiò l’Italia l’inchiesta di Tangentopoli? E la cambiò in meglio o in peggio?”. A distanza di tanto tempo, dovrebbe prevalere la razionalità sulle emozioni.
Noi di Moondo abbiamo voluto pubblicare ieri e ancora oggi il testo della lettera di Gabriele Cagliari, un manager dell’Eni che scrisse ai suoi familiari prima di togliersi la vita in carcere. Perché in quella lettera c’è un elemento centrale che richiederebbe oggi uno sforzo di razionalità da parte dell’opinione pubblica, cioè, Cagliari dice “Stiamo cadendo nella barbaria perché abbiamo introdotto nel metodo dell’azione penale la biura e la tortura…”. Dice una cosa estremamente importante, cioè dice che i magistrati che fecero l’inchiesta denominata Tangentopoli usarono regole, norme e comportamenti fuori dalla legge, fuori dal codice penale del nostro paese, perché il nostro codice non prevede la biura, ne tanto meno l’uso della tortura.
Ma il carcere preventivo aveva questa funzione nelle dichiarazioni di quei magistrati e cioè di condurre l’imputato a confessare. Se io chiudo una persona senza una causa precisa e indicata ma solo perché ho provveduto a inaugurare un’inchiesta, lo rinchiudo in una stanza due metri per tre e ce lo tengo per quattro mesi, sto operando una tortura su quella persona. Se poi a quella persona gli chiedo di confessare per rompere il legame con il suo ambiente, con le persone con cui ha lavorato, con le stesse idee che ha professato gli sto chiedendo la biura di se stesso e del suo passato. Cosa non richiesta da nessun codice, se non quelli che si usavano nel Medioevo o dalla Santa inquisizione.
Ecco, sarà arrivato il momento di fermarci, di non vivere nei ricordi le emozioni di venticinque anni fa, e di condurre un’analisi razionale a cui già allora, già venticinque anni fa ci richiamava Gabriele Cagliari? Per i giovani di oggi, quel nome, quell’uomo non dice nulla. Quelli della mia generazione invece sanno che egli era un manager onesto, per bene, impegnato per il lavoro e la difesa di un grande patrimonio italiano che era l’azienda Eni, che non meritava certamente di essere rinchiuso in un carcere in modo preventivo, come se si trattasse di un criminale.
Oggi questo noi lo sappiamo, noi della mia generazione ma devono saperlo anche i giovani, e lo devono sapere leggendo e rileggendo quella lettera.