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venerdì 29 Marzo 2024
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L’Italia all’affannosa ricerca di una nuova classe dirigente

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Il Popolo italiano, europeo, occidentale, frastornato nella moderna società molecolare dalle urgenze drammatiche dettate dalla pandemia e dalla annunciata prossima catastrofe ambientale, è alla ricerca di nuove forme di governo delle emergenze e della vita quotidiana; per la prima volta, da millenni, non si sente confortato nella speranza futura dal sacro, in Italia sente la Chiesa superflua ed irrilevante; è alla ricerca di nuovi equilibri affidati a competenze scientifiche ed economiche che intravvede ma non conosce.

Trilussa, poeta romanesco, massone, stimato da Luigi Einaudi che, a poche settimane dalla morte dello scrittore, volle omaggiarlo nominandolo senatore a vita (“m’hanno nominato senatore a morte” motteggiò con la fedelissima domestica Rosa Tomei); stimato da Giovanni Paolo I, Papa Luciani, che recitò in una delle sue rare udienze del mercoledì, nel 1978, la poesia La Fede, si divertì a sentenziare nel sonetto Er commizzio: “sovrano come er popolo sovrano/ che viceversa non commanna mai”. Se Trilussa sollecita sorrisi per la sua satira, in qualche modo intristisce perché, pur non afferrando la realtà storica ne coglie un’immagine perfida, anche se non totalmente vera, giacché ci è difficile anche soltanto definire il “popolo”.

Il valore, nel senso di significato, positivo o negativo, delle parole in generale, specialmente in un ideale dizionario della politica, sono spesso ambivalenti, ambigue e di difficile interpretazione nella “dottrina dei valori”, quella che i filosofi definiscono “assiologia” come studio filosofico sia dell’etica (il giusto e il buono) sia dell’estetica (la bellezza, l’armonia).

Persino, a parer mio, il termine “Rivoluzione”, portato ad esempio da Norberto Bobbio come parola di duplice significato, a seconda da chi la pronuncia e quindi esaltante per i rivoluzionari, nefasta per altri, non ha le connotazioni molteplici e divergenti della parola “popolo” (N. Bobbio, Mutamento politico e rivoluzione, Donzelli editore, 2021).

Il caso italiano

In CaosLandia l’Italia è parte identificata sostanzialmente in modo positivo per il suo solido sostrato culturale e artistico, per una nota e giustamente invidiata storia che affonda radici profonde anteriori al cristianesimo e che ha consolidato la sua partecipazione ai grandi avvenimenti del mondo conosciuto grazie alla Chiesa, prima ancora che questa divenisse Chiesa d’occidente. Quella che da centosessant’anni è l’Italia è stata esempio di sviluppo nei vari evi, compreso quello medio grazie ai Comuni ed al Rinascimento, raramente seppe opporsi ad invasioni e saccheggi, ma grazie alla Chiesa sviluppò scienze, diplomazia, classi dirigenti, sovente bizantineggianti, machiavelliche, a volte ciniche – come dimenticare il cardinal Carlo Carafa (1517-1561) che sosteneva: quandoque populus vult decipi, decipiatur, se il popolo vuole essere ingannato, lo sia? (la citazione è tratta da Jacques-Auguste de Thout, sacerdote e funzionario regale che riuscì a evitare l’applicazione dei trattati tridentini alla Francia, in nome della tolleranza religiosa, per osservare una certa comprensione verso i protestanti. È nel suo celebre Historiae sui temporis, opera messa all’Indice, che viene citato il Cardinal Carafa). In CaosItalia la mancata integrazione Nord-Sud e il disfacimento organizzato e costoso dello Stato Arcipelago della policrazia istituzionale (Regioni) e politica (deficit di ceti dirigenti politici di debole rappresentatività) hanno accompagnato l’estatico nirvana diffuso nel secondo dopoguerra dalla egemonia statunitense che, terapeuticamente, escluse dalla competizione planetaria Germania, Giappone ed Italia, riducendo territorialmente Regno Unito e Francia ma condividendo con queste potenze nucleari, in parte a volte significativa, il nocciolo duro della politica occidentale.

Nell’ultimo decennio gli Stati Uniti hanno, con differenti motivazioni delle Amministrazioni che si sono succedute, affermato che l’interesse principale della difesa (armata) della egemonia statunitense – pur non rinnegando alleanze militari oramai storiche e culturali con gli europei – si rivolgono per necessità ed utilità nella grande area indo-pacifica. Washington non considera più dopo settant’anni suscettibile di preoccupazione la consolidata alleanza con il Giappone del quale ha sollecitato il riarmo e considera possibile ed utile l’organizzazione di un sistema integrato di difesa europea continentale strettamente cooperante con il sistema NATO. È evidente che, a causa della Brexit, sia per la dislocazione pluricontinentale delle basi che per l’armamento nucleare di cui dispone, spetta alla Francia un ruolo di coordinamento militare nell’ambito di una dimensione politica nuova che deve essere fatta propria o dall’Europa nel suo assieme o, secondo i Trattati, da un gruppo di Stati convergenti su comuni necessità ed urgenze. La questione è molto chiara a Parigi, a Roma ed a Berlino, intriga Madrid e Lisbona, costringerà la Svezia, i paesi del patto di Visegrad ed il Benelux a serie valutazioni.

L’allineamento, per ora più tattico che politico, tra Russia e Cina e la tanto essenziale quanto ambigua e pericolosa presenza turca nel quadrante sud est euro-orientale e nel Mediterraneo, hanno per la prima volta dalla Seconda guerra mondiale costretto gli Stati Uniti a vigilare su due fronti: quello europeo nei confronti della Russia e quello asiatico per contenere aspirazioni non più nascoste della Cina. Gli Stati Uniti hanno compreso, e lo palesano in significativi colloqui diplomatici o in incontri informali della loro intelligence (dell’ultimo tenutosi  nei giorni scorsi nella redazione di Formiche ha scritto Massimo Franco sul Corriere della Sera), che Pechino non teme neanche uno scontro nucleare, forse a causa della sua enorme popolazione al momento cinque volte superiore a quella statunitense, e della sospettata momentanea superiorità strategica aerea acquisita nella portata e nel lancio mirato sui bersagli.

Per la prima volta gli interessi americani debbono concordarsi, per necessità, ad una sovranità politica europea che non è mai stata nel cuore e nella testa della diplomazia nordatlantica, ma che è premessa indispensabile per garantire le condizioni necessarie ad una efficace difesa europea. Per la Germania e l’Italia, paesi che concorrono alla formazione di politiche planetarie sulla base di principi simili: europeismo, atlantismo e multilateralismo, è giunta l’ora delle scelte che per quel che ci riguarda implicano anche riforme delle strutture alla base delle istituzioni repubblicane.

L’ultimo trentennio è stato caratterizzato da venti anni di stagnazione e bassa crescita inframmezzati da dieci anni di recessione. In Italia la frana del sistema rappresentativo non compensata da adeguate riforme costituzionali, legittimanti il potere esecutivo ed il suo necessario controllo, hanno gradualmente eroso la fiducia popolare, anche per la contemporanea crisi mondiale del sistema liberaldemocratico, provocata dalla mancata soluzione ai nuovi problemi sociali e di diritto generati dalla globalizzazione e che solo in questi ultimi tempi vengono affrontati dai governi occidentali. Il tentativo di nascondere sotto il tappeto la polvere accumulata dalla mancata integrazione Nord-Sud del paese e dal costante e costoso aumento dei centri di potere con l’incremento del debito pubblico non produttivo è palesemente fallito.

Draghi, credibile ed apprezzato garante dello Sviluppo, non è e non vuole essere un demiurgo o un santone

Una virtù di Mario Draghi ben riconoscibile è quella di dominare un metodo sensato di pragmatismo senza farlo scadere in opportunismo. Intervenendo a Rimini al 41° Meeting di Comunione e Liberazione non esitò a citare come esempio di corretto comportamento economico Keynes: “When facts change, I change my mind. What do you do sir?” In buon politichese: mi avete conosciuto in tante vesti, da economista cresciuto alla scuola monetarista statunitense, a severo difensore di politiche austere e colme di sacrifici, a modello di cambiamento nella BCE; oggi il mondo è cambiato ed io sono cambiato col mondo, perché l’economia è ciclica e chi non s’adegua in tempo scompare, oggi è il momento del ciclo espansivo e del debito produttivo. Tanto meglio se sostenuto da un consenso sociale, dovendo purtroppo prendere nota che il sistema politico è stato indebolito dal naufragio dei partiti e dalla crisi dei sindacati.

Pietro Nenni si accorse presto che la stanza dei bottoni era vuota e che invece esistevano quasi più stanze che bottoni; nei diversi centro-sinistra che furono sostenuti dal Partito Socialista rimodulò i metodi operativi per mantenere efficaci le proposte riformatrici, che in un consumato bizantinismo parlamentare trovavano sponde alternate tra l’opposizione comunista e le componenti più conservatrici della Democrazia Cristiana.

Da decenni, oramai, è apparso chiaro che le orripilate denunce di poteri occulti, all’opera di volta in volta, si sono dimostrate operazioni canaglia che hanno nascosto, protetto, incentivato politiche diverse da quelle propugnate, dichiarate da maggioranze di partito deboli, osteggiate da minoranze abili nel più praticato gioco parlamentare, quello delle intese mobili su temi importanti, specifici ma non concorrenti alla formazione di maggioranze alternative, con il più importante partito di opposizione, il PCI.

Un gioco deleterio per la democrazia “sostanziale” perché ha soppiantato artatamente la democrazia costituzionale e rappresentativa che non può che essere, per definizione, “formale”. Tutto è  “complotto” quando si bara al gioco, dallo scandalo Montesi a quello delle “banane”, dalle bombe alla Lockheed al misterioso Antelope Cobbler al martoriato Giovanni Leone, all’omicidio del Presidente Moro, dallo scontro militare nei cieli che costò la vita di ignari ed impotenti cittadini imbarcati su un volo di linea, dal Britannia a Tangentopoli, passando per P2 , grida offese per “patti Stato-mafia”, trascurando l’evidenza delle ripercussioni nei territori di frontiera come l’Italia della guerra Fredda, e i successi economici e sociali del paese.

Nel 1855 – riferendosi ovviamente al Regno di Sardegna- Cavour la definì una “nazione di secondo ordine”, vogliosa di essere considerata degna di allargamenti territoriali; nel 1930, con estrema lucidità, riferendosi all’Italia, il fascista Achille Grandi- con dispiacere di Mussolini- non esitò a definirla una nazione che pur non essendo “grande” aveva “un peso determinante”. In altri termini l’Italia non era e non è una protagonista della geopolitica mondiale ma era ed è essenziale per garantire alla parte cui appartiene un ruolo guida nel sistema planetario.

Draghi ha mostrato, a differenza dei suoi predecessori, di avere ben studiato la storia della proiezione internazionale postbellica dell’Italia nel sistema occidentale di De Gasperi; il metodo- che si fece sostanza- del multilateralismo di Fanfani; l’intelligenza cooperante in Europa e nel Medio oriente di Aldo Moro; la capacità di presidiare il Mediterraneo all’interno del sistema NATO di Bettino Craxi, che era giunto sino a Sigonella anche perché il suo governo era uno dei più solidi artefici in Europa della organizzazione dei sistemi di difesa missilistica anti URSS e grande attivo protagonista del sostegno operativo a favore dei diritti umani nei paesi del patto di Varsavia, accompagnando l’iniziativa per la democrazia e la libertà con mirate politiche economico-commerciali gradite dagli stessi paesi comunisti, dalla Germania dell’Est alla Polonia di Jaruzelski e Solidarnosc.

L’Italia ha in questo momento, con l’entrata prepotente, rischiosa, per certi versi anche poco sostenibile per gli attuali elevati costi, della Cina nella contesa per la supremazia planetaria che la oppone all’attuale detentore del primato, gli Stati Uniti, un ruolo sicuramente importante.

Nicolò Carandini, il marchese liberale, antifascista operativo nel CLN di Roma nei mesi terribili dell’occupazione nazista della capitale, ambasciatore a Londra già nel novembre 1944 dopo essere stato ministro nel governo Bonomi, preferì lavorare duramente nella diplomazia e si dimise per questo motivo da deputato alla Costituente cui era stato eletto. A Londra elaborò la teoria “della politica della sedia” per i diplomatici italiani: meglio star seduti senza diritto di parola nei consessi che essere estromessi nella fase cruciale della scrittura del trattato di pace che sostenne contro una parte non indifferente del Parlamento che lo considerava umiliante. Carandini riuscì a convincere De Gasperi, che firmò il Trattato, che era il momento dello sguardo basso e della prospettiva alta; non per nulla il presidente De Gasperi gli chiese di preparare, e fu un successo, il Trattato provvisorio con l’Austria che passa col nome di Accordo De Gasperi-Grueber e soprattutto nel 1954 di accettare la guida della delegazione italiana per la trattativa con la Jugoslavia, l’Austria, la Cecoslovacchia e l’Ungheria finalizzata alla restituzione a Trieste libera del suo porto e del suo retroterra.

Carandini non si sentiva un politico di professione ma è bene ricordare che fu un protagonista della scissione del PLI guidata dal conservatore Malagodi e fondatore, dopo Risorgimento Liberale nel 1944, del Mondo diretto da Pannunzio nel 1949. Come a dire la storia italica deve registrare un profondo debito di riconoscenza anche ai liberali, ai laici, ai radicali, non soltanto ai protagonisti cattolici del dopoguerra, ai combattenti della Resistenza e dell’antifascismo nei quali si distinse la sinistra azionista, socialista e comunista, assieme ai militari che si strinsero attorno alle bandiere della libertà. Passammo tempi duri. Gli attuali non son da meno, seppur diversi, giacché siamo nel pieno di una trasformazione epocale. Ai nostri giorni definiremmo Carandini un tecnocrate liberal.

Il tecnocrate Draghi sa che l’Italia di oggi non è costretta a tenere lo sguardo abbassato e a praticare la politica del sedere e non parlare, però sa anche che il suo governo non ha il tempo per reinventare totalmente lo Stato e che si deve fare, pragmaticamente, di necessità virtù.

Sa, e lo dice coi fatti, che c’è bisogno di tutti, perché la sfida non è soltanto quella di superare il rischio dell’abisso economico provocato dall’ alto debito pubblico, dall’assistenzialismo esasperato, dalla policrazia funzionale, dal sistema giudiziario claudicante, dalla disoccupazione dal calo demografico che sono lì a ricordare il “memento mori” saggiamente sussurrato all’orecchio del vincitore alla testa delle legioni sfilanti in trionfo.

Draghi sa che non c’è tempo per sostituire la classe politica dirigente per il semplice fatto che non ci sono al momento alternative credibili e che il sistema occidentale – che considera l’utilità dell’Italia meno marginale di quanto la pensino gli italiani che la relegano soprattutto ai meritati successi sportivi- teme una dinamica degenerativa del sistema che influirebbe drammaticamente nel mondo, perché se la globalizzazione ideologica è fallita la mondializzazione del sistema economico è irreversibile e i vincoli esterni funzionano non unilateralmente ma a doppio senso.

Il fallimento italiano- con buona pace dei sovranisti- implica proprio per la moneta unica il fallimento di altri diciotto paesi, perché l’Italia bon gré mal gré assieme a Francia e Germania detiene le chiavi dell’equilibrio sistemico europeo e la dimensione planetaria degli scambi implicano in fase decrescente crisi nel resto del mondo, USA compresi.

Siamo seduti su una bomba ad orologeria e non esiste un santo miracolante che la disinneschi come gratuito atto d’amore

Prima che qualcuno gridi ad un altro complotto dopo quello che si addebita all’Europa in generale, alla Germania in particolare, con la nomina del Governo Monti- dimenticando il fallimento conclamato del governo Berlusconi che peraltro lo sostenne in Parlamento e nella sua formazione “tecnica”- è  bene ricordare che la necessità del governo Draghi è nata da diverse suggestioni parlamentari che dinnanzi alla crisi interna ed alla commistione degli interessi esogeni, che hanno molta voce- come s’è visto- in capitolo, hanno pensato che la pragmatica tecnica competenza di Draghi, accettata in Europa e negli Stati Uniti, avrebbe potuto superare la diffidenza sull’uso corretto dei fondi necessari al nostro paese per uscire dal pericolo che rappresentiamo, anche per la presenza non ignorata di formazioni frastagliate ma influenti, legate a diverso titolo alla Cina, alla Russia, a sistemi considerati infetti come quello rappresentato da Bolsonaro.

L’irreale diatriba attuale sulla destinazione del guastatore degli interessi spiccioli al Quirinale testimonia sia l’immaturità di un gruppo dirigente che, come nel romanzo di Stevenson, danza in quindici sulla cassa del morto con una bottiglia di rum per conforto, dimenticando che all’origine del testo v’era il fatto che i quindici erano i superstiti di trenta abbandonati dal feroce Barbanera sull’Isola del Tesoro. Altro che felice canto addolcito dall’alcool: il 50% era morto!

I tempi sono strettissimi. Poche settimane per definire i contenuti ed avviare il processo di medio periodo necessario per gli investimenti produttivi, disinnescando la bomba distruttrice e per non ritrovarsi in quindici a vedere il Tesoro allontanarsi.

Il paese a modo suo si è espresso. A stragrande maggioranza ha disertato le urne. A stragrande maggioranza offre sostegno a Draghi. A stragrande maggioranza ha capito come il sistema mondiale sostenga l’Italia che dimostra serietà e disciplina, come è stato nel campo sanitario, nelle vaccinazioni, nel green pass e che ha idee e prospettiva per le sorti ecologiche del pianeta. A Roma, di gran lunga il più importante test elettorale, ha gratificato con il maggior numero di voti di lista quella di Calenda (fascista, centrista, destrorso o amico secondo le necessità immediate del PD) perché Azione ha scelto il campo liberal socialista dell’azione dei competenti ricevendo voti sia nelle periferie che nel centro in modo equilibrato in tutte le generazioni degli elettori.

É chiaro che lo stato di emergenza immediato deve cessare, che si aprirà il prossimo anno una partita aggiuntiva che riguarderà assieme alla legge elettorale le auspicabili necessarie riforme costituzionali che nei prossimi anni dovranno vedere la luce assieme, parallelamente, alla oramai necessaria riforma istituzionale europea; il proposito della nuova maggioranza in fieri tedesca di usare euro bond per concretizzare la svolta green della produzione industriale la dice lunga sul nuovo percorso che si dovrà seguire.

Ma se l’Italia non si può sottrarre alla sfida mondiale deve trovare una classe dirigente che la attui. È compito in democrazia della politica non dei demiurghi, come Draghi sa ed ha saputo maturare nella sua ben portata età, garanzia questa per ogni sospettoso complottista.

Nel dopoguerra la Chiesa cattolica che fornì all’Italia una classe dirigente oggi è considerata superflua

Tanto Papa Francesco è considerato un interlocutore privilegiato degli Stati Uniti, della Russia, di parte rilevante del mondo musulmano, osservato con positiva attenzione dall’India, con molta prudenza dalla Cina- che lo teme- per gli approcci antropologici, culturali che il suo pensiero ”francescano” offre per la cura icastica della “casa comune” degli uomini, tramite anche un aggiornamento della dottrina sociale della Chiesa al fine di porre l’attenzione sulla centralità dell’uomo “povero”, “scarto” come base – a prescindere dalle modalità attuative – d’ogni processo economico e di salvaguardia della natura, affidata da Dio agli uomini.

Le iniquità planetarie superano, per amore, anche alcuni aspetti del catechismo della chiesa attorno a punti oggetto di lunghi dibattiti: matrimonio, misericordia, eucarestia e hanno reso universale la popolarità del vescovo di Roma.

Il Vaticano non è irrilevante nel sistema politico-diplomatico, né nel mondo intellettuale. Un pochino diversa la percezione della crisi religiosa, meglio dell’approccio alle religioni compresa la cattolica nei singoli paesi. Catastrofica ahinoi in Italia.

Il Papa è molto rispettato dalle gerarchie, ma la lunga cura che iniziò col cardinale Ruini di allontanamento dalla politica, sommata alla percepita sfiducia del papa nella Chiesa italiana e da errori incredibili nei rapporti col paese negli anni del suo pontificato hanno esaurito il sentimento di fiducia degli italiani.

Mai l’ateo più coriaceo avrebbe immaginato che il Vaticano avesse potuto accettare che i luoghi di culto venissero chiusi ai riti sacramentali con un dcpm; si sarebbero aspettati una autonoma decisione della Chiesa che, fatta memoria delle conseguenze dei riti, delle processioni durante i tempi di pandemia del passato ai quali seguivano aggravamenti mortali, chiedesse ai fedeli di accettare la decisione di chiudere la Chiesa ma di pregare con maggiore intensità in ore specifiche e con modalità non ripetitive (quante messe, rosari e preghiere varie sono state replicate incoscientemente per mesi!).

Il popolo cattolico per la prima volta nella storia millenaria ha scoperto amaramente che l’uomo non ha chiesto a Dio la salvezza e che con un decreto era invece invitato a rivolgersi a chiunque, a buon titolo o per vanagloria, vantasse competenze specifiche. Il dibattito parlamentare sulla proposta di legge de Zan – malamente scritta in modo peggiore bocciata- ha dimostrato come la teologia morale della Chiesa sia stata del tutto ininfluente nelle decisioni che sono state a buon o cattivo titolo assunte: più importanti i bizantinismi del segretario del PD Letta , tutto preso dalla ricerca di argomenti che solidificassero il sogno del nuovo Ulivo basato sulle questioni che si innervano nei diritti o interessi personali piuttosto che su questioni dividenti quali quelle economico-sociali; oppure i giochi impropri di un centro-destra alla ricerca di compensazioni dopo il cattivo risultato elettorale; o anche ancora da chi con un pugno di voti in Parlamento spera in una cristallizzazione degli scontri per essere determinante nella elezione futura del Capo dello Stato.

La Chiesa è stata sostanzialmente assente, anzi strumentalizzata negativamente per il poco che ha fatto e detto sull’argomento, meno di quanto si aspettassero innovatori, atei devoti o i conservatori.

Alla fine della guerra quella stessa Chiesa che si era più che conciliata col fascismo, accettando persino l’esilio di don Sturzo e tristi rigori per non pochi cattolici – compreso, per esempio, Amintore Fanfani- seppe proporre agli Stati Uniti, di accettare una classe dirigente completamente nuova, giovane, in alcuni casi giovanissima, cresciuta nella Fuci montiniana piuttosto che nei vescovadi o negli oratori. Mobilitò i suoi sacerdoti spedendoli anche senza abito talare a parlare nelle campagne e nei borghi a favore di un ceto politico cresciuto fuori dal fascismo, estraneo alle lotte prefasciste ed alla retorica bellicista dell’Impero farlocco, garantendo sostegno all’alleato americano e sviluppo democratico all’interno. Giovanni XXIII appena il cattolico Kennedy fu eletto permise, finalmente, che la sinistra non comunista partecipasse con la sua vitalità riformatrice allo sviluppo del Paese.

Ed oggi? Oggi che le Chiese la domenica sono semivuote, nei giorni feriali deserte, quel popolo che a maggioranza si dichiara cattolico ma che nella società spezzettata, mononucleare rappresenta ancora un sostanziale 30% di cittadini e quindi è ancora un punto irrinunciabile per la politica cosa può fare per quel dovere sociale che è parte fondamentale dello spirito cristiano (Gaudium et Spes)?

Il papa post-occidentale non ama l’Italia, forse per motivi legati alla sua caleidoscopica personalità, ma un Papa non è eterno e quindi si possono attendere tempi diversi; quello che è certo che nel puzzle italiano occorrerà nei prossimi tempi slegare le necessità imperiose dell’immediato presente dalla ricerca di soluzioni stabili che coinvolgano nel processo di riforma istituzionale oltre che liste civiche, associazioni, organismi sociali, anche quei vescovi che abbiano il coraggio di ricordare la funzione non esclusivamente elemosiniera alla quale sono stati chiamati, si presuppone, dallo Spirito Santo.






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