Lo sportellista dei servizi pubblici è rimasto malato di corona-virus. Chi è lo sportellista? Quello che riceveva il pubblico o i clienti. Quali sono i servizi pubblici? Quelli pubblici in senso stretto (sportelli comunali, scolastici, sanitari, fiscali ecc.) o in senso largo (bancari, telefonici, energetici, ecc. ).
Lo sportellista durante la “chiusura” dovuta all’epidemia, è rimasto bloccato in casa con i suoi cari e non ha lavorato, nella maggior parte dei casi continuando a prendere lo stipendio, lavoricchiando da casa con il computer. In genere si è trovato bene e ha preso nuove abitudini; è divenuto “rentier”, che può vivere di rendita, senza dover rendere conto a nessuno, o quasi. Forse ha pagato un po’ la compressione familiare, ma poca roba rispetto alle otto ore di lavoro in ufficio.
Anche i capi degli sportellisti erano a casa; loro smaneggiavano un po’ di più sulle tastiere del computer; ma insomma, senza esagerare. E, miracolo, quasi tutto funzionava; provvisoriamente, ma funzionava. Tutti hanno accettato la chiusura degli “sportelli” e si sono arrangiati.
Poi c’è stata la riapertura, con nuove regole per gli sportellisti e per gli utenti-clienti; regole che hanno naturalmente alleggerito il lavoro degli sportellisti e aumentato le pene degli utenti-clienti, i quali hanno dovuto prendere appuntamenti con numeri di telefono morti, con date di appuntamento, finalmente rimediate, a sette dieci giorni di distanza. Arrivati all’appuntamento si sono dovuti mettere in fila, in genere all’aperto davanti agli uffici, in piazze o marciapiedi. Arrivato il loro turno, l’incontro spesso si è risolto in un “ritorni”, manca una carta.
Gli sportellisti spesso sono diminuiti, forse per evitare il pericolo del contagio, nonostante tutte le previdenze possibili e immaginabili; e i clienti-utenti, aumentati, dati i mesi di attesa, e provvisoriamente protetti con interventi di amici, parenti e con rinvii di scadenze possibili. Quindi la pena per ottenere il servizio dovuto e richiesto è progressivamente aumentata. Gli sportellisti sono impiegati pubblici o assimilabili (esercitando un servizio pubblico); gli utenti-clienti in genere sono poveri, vecchi o bisognosi, ma anche cittadini che chiedono di far valere un loro diritto.
In “sanità” gli utenti-clienti vengono chiamati pazienti; pazienti perché devono subire il dolore e devono far passare con sopportazione il tempo per il recupero dalla malattia; così si pensava; invece devono essere pazienti soprattutto di fronte alla prepotenza di un sistema che li strapazza; mentre dovrebbe essere a loro servizio e non l’inverso.
Esempi? Ero in centro senza bancomat; sono andato alla sede della mia banca per prelevare soldi (miei); ho visto una fila davanti alla porta del bel palazzetto ove è situata la banca. Mi sono messo in attesa. Gli altri erano o vecchietti come me, o parenti di vecchietti che non potevano uscire e che dovevano o pagare o prelevare. Quindi, con la mia unica eccezione, tutta “povera gente”. Dopo un quarto d’ora circa si è presentata alla porta una grassottella occhialuta della Banca: “Avete un appuntamento?” “No!”, in coro. “E allora tornate a casa!”; urli, mugugni e proteste; ma disciplinatamente la fila si è sciolta, salvo qualcuno che era riuscito a prendere appuntamento. Eppure la Banca ha una grande hall con 4 sportelli, tre normalmente funzionanti. Ora la sala sportelli è tenuta vuota e gli sportelli si sono ridotti a uno; a causa del corona virus (?).
Sono allora andato in giro; di fronte a tutte le banche che ho trovato c’erano file sui marciapiedi. Mi sono tornate in mente scene del dopoguerra; e anche di alcuni palazzi ministeriali africani; c’è attualmente in Italia un refrain che avevo trovato in Africa 50 anni fa. “Posso avere questo?” “No; ça manque”, “E quando lo posso trovare?” “Demain”. E il demain restava fisso. Già: demain. Intanto, tu, cliente-utente, e per di più povero, cerca di sopravvivere e non dar noia.
Oppure: una donna madre prende appuntamento e va al patronato della cisl per fare il certificato isee, che le serve per gli studi del figlio. La sportellista dice che è necessario un documento con cui si dimostri che il padre non sovvenziona il figlio. La madre dice che il padre è scappato e non sa neppure dove sia, da più di venti anni (aveva sempre avuto l’isee negli anni precedenti). La sportellista indirizza la madre agli sportelli dei servizi sociali della asl, dove ci sono file interminabili e dove bisogna prendere un nuovo appuntamento. Di sportello in sportello. Nel frattempo gli eventuali benefici previsti per il figlio rischiano di decadere.
Episodi di vita corrente in Italia e nell’Italia del dopovirus.
Molti sportellisti, forti della loro inamovibilità pubblica, stanno tiranneggiando gli utenti-clienti, nella incapacità (o impotenza) manageriale dei loro capi; siamo in un momento di emergenza, in cui le previsioni fanno pensare a una povertà dilagante. E sono per lo più i poveri ad aver bisogno degli sportelli.
Ma in questi due mesi di epidemia è stata anche dimostrata la utilità marginale del contenuto del lavoro degli sportellisti; essi ormai erano diventati più agenti di pubbliche relazioni (che spesso non sapevano fare, ma che potevano diventare una prospettiva professionale), che lavoratori per i servizi al pubblico. Quindi è ormai possibile la loro progressiva emarginazione, fino alla soppressione del loro lavoro e delle grandi e costosissime sale che occupano. E la loro frequente arroganza, basata sul principio “anche oggi sono riuscito a non lavorare”, rischia di trasformarsi in un pericoloso boomerang; anche perché se la ricerca di una efficienza aziendale si unisce alla protesta del popolo utente-cliente, povero e vecchio, (oggetto di soprusi del tutto inopportuni in una società che è stata opulenta), potrà succedere che le tanto declamate misure antiburocratiche si concretizzino proprio nel cominciare ad eliminare gli sportelli: che si palleggiano la gente, come in uno stupido gioco kafkiano.